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Ratzinger e La Chiesa sulla soglia del Terzo Millennio

 

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Recentemente ho letto su una rivista una battuta di un intellettuale tedesco che, di se stesso, diceva che nella questione di Dio era agnostico. A suo parere, non sarebbe possibile né dimostrare Dio né escludere in maniera assoluta la sua esistenza e, dunque, la domanda resta aperta.

Al contrario, però, aggiungeva, di essere pienamente certo dell'esistenza dell’inferno; uno sguardo alla televisione è sufficiente a constatare che esso esiste. Mentre la prima metà di questa confessione corrisponde certamente alla coscienza moderna, la seconda appare strana, anzi incomprensibile, almeno a sentirla la prima volta. Difatti, come si può credere all’inferno se Dio non ce? L’inferno è precisamente la condizione di assenza di Dio. È questa la sua definizione: dove non c'è Dio, dove non arriva più alcun raggio della sua presenza, lì c’è l’inferno. Forse non ce lo mostra proprio lo sguardo di ogni giorno alla televisione, ma, certamente, uno sguardo alla storia del secolo appena trascorso, che ci ha lasciato in eredità parole come Auschwitz e l’arcipelago gulag o nomi come Hitler, Stalin e Pol Pot. Chi legge le testimonianze di quelle situazioni storiche, incontra visioni che per orrore e distruzione non sono in nulla inferiori alla discesa agli inferi di Dante, anzi sono ancora più terribili, poiché vi compaiono dimensioni del male in cui lo sguardo di Dante non poteva penetrare.

Questi inferni furono costruiti per aprire la strada al mondo futuro dell’uomo che appartiene solo a se stesso e che non ha più bisogno di alcun Dio. L’uomo fu immolato al Moloch dell’utopia di un mondo liberato da Dio, l’uomo che ora disponeva interamente di se stesso e non conosceva più limiti alla propria capacità di disporre della realtà, poiché non c’era più alcun Dio sopra di lui, poiché dall’uomo stesso non traspariva più alcuna luce del proprio essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Dove non c'è Dio sorge l’inferno, esso consiste appunto nella sua assenza. E ciò può compiersi anche in forme sottili e quasi sempre in nome dell’idea della benevolenza nei confronti dell'uomo.

Quando oggi si fa del commercio con gli organi umani, quando vengono prodotti dei feti per ricavarne provviste di organi o per portare avanti la ricerca su malattia e salute, sono in molti a mettere anzitutto in evidenza il contenuto umanistico di questo agire; ma con il disprezzo per l’uomo che vi è sotteso, con questo uso e abuso di persone umane ci troviamo appunto di nuovo nella discesa all’inferno. Questo non significa che non possano esserci degli atei con una grande tensione morale, come, di fatto, vi sono. Ma oso ritenere che questa tensione morale si fonda sul fatto che non si è ancora spento il riverbero della luce che un tempo è giunta dal Sinai, la luce di Dio. Stelle molto lontane, ormai spente, possono sempre continuare a far brillare la loro luce in noi. Anche dove Dio appare morto, la sua luce può ancora continuare a operare. Ma Nietzsche ha giustamente rilevato che l’istante in cui sarà arrivato dappertutto il messaggio della morte di Dio, potrà solo essere terribile.

Perché dico queste cose in una riflessione il cui tema è che cosa dobbiamo fare noi cristiani oggi, nella nostra situazione storica all’inizio del terzo millennio? Le dico perché proprio in questo modo si rende chiaro quale è il nostro compito cristiano. Esso è tanto semplice quanto grande: si tratta di testimoniare Dio, di spalancare le finestre chiuse e oscurate, perché la sua luce possa brillare tra noi, perché ci sia spazio per la sua presenza.

Difatti, è altrettanto vero che dove c’è Dio c’è il cielo, lì, anche nella fatica e nella tribolazione della nostra esistenza, la vita si fa luminosa. Il cristianesimo non è una filosofia complicata e ormai invecchiata, non è un confuso e intricato pacchetto di dogmi e di prescrizioni etiche. La fede cristiana è essere toccati da Dio e rendergli testimonianza. Proprio in questo senso sull’Areopago Paolo ha descritto il suo compito e la sua intenzione, quella di voler rendere noto agli ateniesi, a cui parlava come rappresentanti di tutti i popoli pagani, il dio sconosciuto, il Dio che era uscito dal suo nascondimento, che si era manifestato lui stesso e che poteva quindi essere da lui annunciato (At 17,16-34).

Il richiamo della citazione del dio sconosciuto presuppone che l’uomo, pur nella sua non conoscenza, abbia in qualche modo un'idea di Dio. Tale richiamo risponde allora alla condizione dell’agnostico, che non conosce Dio e che, però, non lo può escludere. Presuppone che l'uomo, in qualche modo, sia in attesa di Dio, ma non possa con le sue capacità arrivare a lui e, quindi, abbia bisogno dell’annuncio, della mano che lo accompagni e lo faccia salire nello spazio della sua presenza.

 

Possiamo allora dire che la Chiesa esiste perché sia reso noto Dio, il Dio vivente, perché l’uomo possa imparare a vivere con Dio, sotto il suo sguardo e in comunione con lui. La Chiesa esiste per combattere e impedire l’avanzata dell’inferno sulla terra e per rendere abitabile la terra grazie alla luce di Dio. A partire da Dio, solo a partire da lui, essa diviene umana.

È un’idea che possiamo formulare anche con la terza invocazione del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra». Dove è fatta la volontà di Dio, ce il cielo, la terra può diventare cielo. Per questo si tratta, allora, di rendere riconoscibile la volontà di Dio e di mettere in sintonia la volontà dell'uomo con la volontà di Dio. Non si può infatti riconoscere Dio in una maniera puramente accademica; non se ne può semplicemente prendere notizia, allo stesso modo in cui registro l’esistenza di astri lontani e di dati della storia passata. La conoscenza di Dio può essere paragonata alla conoscenza dell’amante: mi riguarda completamente, interpreta la mia volontà e si arena se non arriva a questo accordo integrale.

Con ciò, però, mi sono già spinto a un punto successivo. Per il momento limitiamoci a constatare: il punto per la Chiesa non è mai solo il mantenimento o anche l'accrescimento e l'ampliamento di ciò che si ha. La Chiesa non esiste per se stessa. Non può essere paragonata a un'associazione che in circostanze difficili deve, appunto, cercare di mantenersi a galla. Essa ha un compito per il mondo, per l'umanità. Solo per questo essa deve sopravvivere, perché la sua scomparsa trascinerebbe l'umanità nel gorgo dell’oscurità di Dio e, dunque, dell’ottenebrazione, anzi della distruzione stessa dell’umano.

Noi non combattiamo per mantenerci a galla, abbiamo coscienza che ci è stata affidata una missione che ci dà la responsabilità per tutti. Per questo la Chiesa deve misurarsi e sarà misurata su quanto in essa sono vivi la presenza di Dio, la sua conoscenza e l’accoglimento della sua volontà.

Una Chiesa che fosse solo un apparato che manda avanti se stesso, sarebbe una caricatura di Chiesa. Nel momento in cui essa gira intorno a se stessa e guarda alla propria sopravvivenza come all’unico scopo, essa si rende superflua e cade in rovina, anche quando avesse a disposizione grandi mezzi e un management astuto. Essa può vivere e portare frutto solo se è vivo, in lei il primato di Dio.

La Chiesa non esiste per se stessa, ma per l’umanità. Essa è qui per questo, perché il mondo diventi uno spazio per la presenza di Dio, spazio dell’Alleanza tra Dio e l’uomo. Questo è quello che si legge già nel racconto della creazione (Gn 1,1-2,4): il procedere del testo in direzione del Sabbat intende mettere in evidenza che la creazione ha un suo fondamento interno. Essa esiste perché possa accadere l’Alleanza, in cui Dio dona il suo amore e riceve la risposta dell’amore.

Il pensiero che la Chiesa esiste per l’umanità appare ultimamente in una variante che sembra chiara al nostro pensiero, ma mette in gioco l’essenziale. Si dice che in tempi recenti la storia della teologia e dell’autocoscienza ecclesiale abbia percorso tre stadi: dall'ecclesiocentrismo al cristocentrismo e, infine, al geocentrismo.

Questo sarebbe un progresso, ma il punto decisivo non è stato ancora raggiunto. È chiaro, si dice, che l’ecclesiocentrismo era falso: la Chiesa non può fare di se stessa il centro, essa non esiste per se stessa.

Si procede allora fino al cristocentrismo: Cristo deve essere il centro. Ma, poi, si è riconosciuto che anche Cristo rinvia oltre se stesso, al Padre, e si sarebbe così giunti al teocentrismo, cosa che comporta altresì un progressivo aprirsi della Chiesa verso l’esterno, alle altre religioni: la Chiesa separa, ma anche Cristo separa, così si dice. E a questo punto si aggiunge: anche Dio separa, dato che le immagini di Dio sono opposte e vi sono religioni senza un Dio personale, visioni del mondo senza Dio.

Così, come quarto stadio, in apparente nesso con il Vangelo, si arriva a postulare la centralità del Regno, che non si chiama più regno di Dio, ma appunto, semplicemente regno come immagine del mondo migliore che si deve costruire. La centralità del Regno significa che ora tutti, al di là dei confini di religioni e ideologie, possano collaborare per i valori del Regno, che sono: pace, giustizia e tutela del creato.

Questa triade di valori si è imposta oggi come surrogato dell’idea smarrita di Dio e, allo stesso tempo, come formula di unificazione che, al di là delle differenze, potrebbe fondare la comunità mondiale degli uomini di buona volontà (e chi non lo è?) e così fare appunto realmente emergere il mondo migliore.

Tutto ciò suona seducente.

Chi non si sentirebbe obbligato al grande scopo della pace sulla terra?

Chi non sentirebbe di dover lottare perché si faccia giustizia, perché possano finalmente scomparire le drammatiche differenze tra classi sociali, razze e continenti?

E chi oggi non vede la necessità di difendere la creazione da tutto ciò che oggi la minaccia e la distrugge?

Ma, allora, Dio è divenuto superfluo?

La triade dei valori può subentrare al suo posto?

Ma da dove possiamo capire che cosa è davvero utile alla pace? Da dove possiamo trarre il criterio per stabilire ciò che è giusto e distinguere quali sono le vie che portano alla giustizia e quali ci allontano da essa? E in che modo possiamo riconoscere dove la tecnica è conforme alle esigenze della creazione e dove, invece, ne causa la distruzione?

Chiunque guardi il modo in cui la triade dei valori è accostata a livello mondiale, non può far finta di non vedere che essa diventa sempre di più il terreno di incontro delle ideologie e che essa non può sussistere senza un criterio fondante di ciò che è conforme all’essere, alla creazione e alla persona umana. I valori non possono sostituire la verità, non possono sostituire Dio, di cui essi non sono che il riflesso e senza la cui luce essi perderebbero i loro contorni.

 

Si capisce allora che cosa significa che senza Dio il mondo non può essere luminoso e che la Chiesa serve il mondo in questo modo, per il fatto che in essa Dio vive e che essa è trasparente per lui, lo porta all’umanità.

Siamo così finalmente arrivati alla questione strettamente pratica: come accade questo? Come noi possiamo riconoscere Dio e come possiamo portarlo agli altri? Penso che per fare questo diverse vie devono integrarsi e armonizzarsi.

La prima via è quella che ha percorso Paolo all’Areopago: richiamarsi a quella conoscenza previa e nascosta di Dio che l'uomo possiede, l'appello alla ragione. «Dio non è lontano da noi», dice Paolo, poiché «in lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,27s). Nella lettera ai Romani si incontra lo stesso pensiero in forma ancora più incisiva: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (1,20). La fede cristiana fa appello alla ragione, alla trasparenza della creazione verso il Creatore. La religione cristiana è religione del Logos: «In principio era la Parola», così noi traduciamo il primo versetto del vangelo di Giovanni che, a sua volta, consapevolmente riprende il primo versetto della Bibbia, il racconto della creazione per mezzo della Parola.

Ma «parola» (Logos) in senso biblico significa anche ragione, la sua potenza creatrice. Ciò nondimeno: il versetto del principio del mondo nella Parola così intesa ha ancora oggi il suo valore? La Chiesa può ancor oggi, con la Bibbia, appellarsi alla ragione, rinviare alla trasparenza del creato rispetto allo Spirito Creatore?

C'è oggi una versione materialistica della teoria dell'evoluzione che si presenta come l'ultima parola della scienza e avanza la pretesa di aver reso superfluo lo spirito creatore per mezzo delle proprie ipotesi, anzi di averlo definitivamente escluso. Jacques Monod, che ha elaborato tale visione con ammirabile consequenzialità, a proposito della sua teoria ha detto con la schiettezza che gli è propria: «Il miracolo è stato sì “chiarito”, ma resta per noi un miracolo». Egli cita poi il commento di Francois Mauriac alle sue tesi: «Quel che dice questo professore è ancora più incredibile di quello che crediamo noi poveri cristiani». E al riguardo dice: «È altrettanto vero quanto il fatto che non ci riesce farci un’immagine spirituale soddisfacente di determinate astrazioni della fisica moderna. D’altra parte sappiamo anche che tali difficoltà non possono valere come argomenti contro una teoria che ha dalla sua le certezze dell’esperienza e della logica» .

A ciò si deve ribattere: quale logica? Non posso riprendere qui questa disputa e non lo farò; vorrei solo dire che la fede non ha nessuna ragione di sgombrare il campo: l’opzione che il mondo ha origine dalla ragione e non dall’irrazionale è anche oggi razionalmente sostenibile, anche se, certamente, deve essere formulata nel dialogo con le conoscenze reali della scienza della natura. Oggi è un compito della Chiesa rimettere nuovamente in moto la battaglia per la ragionevolezza della fede o della non fede. La fede non è l’avversaria della ragione, ma l’avvocato della sua grandezza, come ha spiegato appassionatamente il papa nella sua enciclica Fede e ragione.

Io considero la lotta per la nuova presenza della ragionevolezza della fede come un compito impellente della Chiesa nel nostro secolo. La fede non può ritirarsi nel proprio guscio di una decisione ormai non più fondata, ridursi a una sorta di sistema simbolico in cui ci si ingabbia, ma che alla fine resterebbe solo una scelta casuale tra tante altre visioni della vita e del mondo. Essa ha bisogno dello spazio grande della ragione aperta, ha bisogno di confessare il Dio creatore, poiché senza questa confessione anche la cristologia si rimpicciolisce, e finisce per parlare solo indirettamente di Dio, riferendosi a una particolare esperienza religiosa che, però, è necessariamente limitata e diventa un’esperienza tra tante altre.

L’appello alla ragione è un grande compito della Chiesa, specialmente oggi, poiché dove fede e ragione si separano luna dall’altra, ambedue si ammalano.

La ragione diventa fredda e perde i suoi criteri, diventa crudele, perché non c’è più nulla sopra di essa. La ragione limitata dell’uomo decide allora da sola come deve muoversi nei confronti della realtà creata, chi può vivere e chi deve essere escluso dal tavolo della vita: la via verso l’inferno, lo abbiamo visto, è allora aperta. Ma anche la fede diventa malata senza lo spazio ampio della ragione. Quali gravissime distruzioni possano derivare da una religiosità malata lo vediamo abbondantemente nel nostro presente.

Non a caso l’Apocalisse presenta la religione malata, che si è congedata dalla grandezza della fede della creazione, come l’autentico potere dell’Anticristo.

Resta vero che la rivelazione propria della creazione, a cui fa riferimento Paolo nel discorso dell’Areopago e nella lettera ai Romani, da sola non basta per condurre realmente la persona umana alla relazione con Dio. Dio è venuto incontro all’uomo. Gli ha mostrato il suo volto, gli ha aperto il suo cuore. «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato», dice il Vangelo di Giovanni (1,18). 

 

È questo il messaggio che la Chiesa deve trasmettere, essa deve portare gli uomini a Cristo (e qui siamo alla seconda via che diventa poi sempre uno svincolo unico), Cristo agli uomini, per portare loro Dio e loro a Dio. Cristo non è un qualche uomo più grande, con una importante esperienza religiosa: egli è Dio, Dio che si è fatto uomo, perché vi sia il ponte tra uomo e Dio e l’uomo possa davvero diventare se stesso. Chi vede Cristo solo come una grande personalità religiosa, non lo vede realmente.

La via da Cristo e a Cristo deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Marco, nella professione di fede del centurione romano davanti al Crocifisso: «Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio» (15,39).

Deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Giovanni, nella professione di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio» (20,28).

Deve attraversare il grande arco che percorre il Vangelo di Matteo dal racconto dell’Annunciazione fino al discorso missionario del Risorto. Nel racconto dell’Annunciazione Gesù viene annunciato come il «Dio con noi» (1,23). E l’ultima parola del Vangelo riprende questo messaggio: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20). Per conoscere Cristo, si deve percorrere con lui la via su cui ci conducono i vangeli.

Il compito grande e centrale della Chiesa oggi, come ieri e come sempre, è quello di indicare la via e di offrire una compagnia per percorrerla. L’ho detto prima: Dio non si conosce solo con la ragione, ma anche con la volontà e con il cuore. Per questo la conoscenza di Dio, la conoscenza di Cristo, è un cammino in cui è interpellata la totalità del nostro essere. La più bella rappresentazione del nostro essere in cammino la offre Luca nel racconto dei discepoli di Emmaus. È un essere in cammino con la parola vivente di Cristo, che ci spiega la parola scritta, la Bibbia; la fa diventare essa stessa il cammino che rende ardente il cuore e, così, alla fine gli occhi si aprono. La Scrittura, il vero albero della conoscenza, ci apre gli occhi, se noi allo stesso tempo mangiamo del vero albero della vita, Cristo. Allora diventiamo davvero vedenti, e allora viviamo davvero.

Tre cose fanno parte di questo cammino: la comunità dei discepoli, la Scrittura, la presenza vivente di Cristo. Questo cammino dei discepoli di Emmaus è allora, allo stesso tempo, anche una descrizione della Chiesa - una descrizione di come maturi la conoscenza che si avvicina a Dio. Questa conoscenza diviene comunione vicendevole, sfocia nello spezzare il pane, in cui l’uomo diviene ospite di Dio e Dio dà ospitalità all’uomo. Cristo - qui lo si vede con chiarezza - non lo si può avere solo per se stessi. Egli non solo ci conduce fino a Dio, ma gli uni verso gli altri. Per questo Cristo e la Chiesa formano un insieme, così come Chiesa e Bibbia formano un insieme. Realizzare questa grande comunione nelle singole concrete comunità della diocesi, della parrocchia, dei movimenti ecclesiali è e resta il compito centrale della Chiesa, ieri, oggi, domani. Essa deve diventare sperimentabile come compagnia che sostiene il nostro cammino, con le nostre preoccupazioni, con la parola di Dio, con Cristo, e introdurci al dono del sacramento, in cui continuerà a essere anticipato il banchetto nuziale di Dio con l’umanità.

Se torniamo a guardare a quanto è stato sinora oggetto della nostra riflessione, possiamo allora dire che il tema Cristo non è, in definitiva, un tema proprio, un secondo tema accanto al tema Dio, ma è il modo in cui il tema Dio si fa per noi pienamente concreto, ci incalza fisicamente e urge nell’anima. E, a sua volta, il tema Chiesa non è un terzo tema, un tema proprio, ma è introdotto per servire il tema Cristo: la Chiesa è la compagnia nel cammino con lui e verso di lui, e solo se resta in questo ruolo di servizio, la comprendiamo correttamente; allora possiamo anche amarla davvero, così come si amano dei compagni di cammino.

 

Ora si dovrebbero, però, sviluppare in maniera più analitica i singoli elementi di questo essere in cammino. In proposito il papa ha già detto tutto l'essenziale nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte e, per questo, nella parte conclusiva di queste riflessioni desidero limitarmi a un paio di osservazioni.

In questo testo il papa parla in maniera esaustiva dell’importanza della preghiera, che sola rende cristiano il cristiano. Nella preghiera, egli dice, noi sperimentiamo il primato della grazia: Dio ci è sempre davanti. Il cristianesimo non è un moralismo, qualcosa che facciamo noi. Anzitutto è Dio che ci viene incontro, poi noi possiamo andare con lui, poi le nostre energie interiori si liberano. E la preghiera, così continua, ci fa sperimentare il primato di Cristo, il primato dell'interiorità e della santità. Il papa, proprio a questo punto, introduce una domanda che fa pensare: «Quando questo principio non è rispettato, ce da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell’animo un avvilente senso di frustrazione?» (38). Al di sopra del nostro attivismo dobbiamo tornare a imparare il primato dell'interiorità; la componente mistica del cristianesimo deve nuovamente guadagnare forza.

Dalla preghiera personale il papa procede in maniera del tutto conseguente fino alla preghiera liturgica comune, in primo luogo l'Eucaristia domenicale. La domenica come giorno della resurrezione e l’Eucaristia come incontro con il Risorto costituiscono un insieme. Il tempo ha bisogno di un suo ritmo interno. Esso ha bisogno della corrispondenza tra il quotidiano del nostro lavoro e l'incontro festivo con Cristo nella Chiesa, nel sacramento.

Riguadagnare la domenica: per il papa questo è giustamente un compito pastorale di primo rango. Il tempo riceve così il suo ordine interno, Dio ritorna il punto di partenza e il punto di arrivo del tempo. Allo stesso tempo questo è anche il giorno della comunità umana, il giorno della famiglia, in piccolo, e il giorno in cui si forma la grande famiglia, la famiglia di Dio nella Chiesa, e la Chiesa diventa esperienza di vita. Dove la Chiesa conosce solo riunioni e pezzi di carta, lì non la si conosce. Lì essa diventa scandalo, perché o si riduce a oggetto del nostro fare o appare come qualcosa di imposto dall’esterno, qualcosa di estraneo. Noi conosciamo la Chiesa dall'interno solo se la sperimentiamo nel punto dove essa va oltre se stessa, dove il Signore entra in lei e la rende sua casa e, per ciò stesso, noi diventiamo suoi fratelli.

Per questo è anche importante la degna celebrazione dell'Eucaristia, in cui deve apparire questa autoespropriazione della Chiesa. Non siamo noi a fare la liturgia.

Noi non inventiamo qualcosa, come fanno i comitati organizzatori di feste mondane o come fanno i conduttori di quiz. Il Signore viene. La liturgia giunge a noi da lui, maturata a partire dagli apostoli nella fede della Chiesa; noi entriamo in essa, e non la facciamo noi.

Solo così ha luogo la festa, e la festa, come anticipazione della libertà futura, è indispensabile per la persona umana. Si potrebbe anche dire: questo è il compito della Chiesa, donarci l’avvenimento della festa. La festa è sorta in tutta la storia dell'umanità come evento cultuale e non è pensabile senza la presenza del divino. La sua piena grandezza si verifica quando Dio diventa realmente nostro ospite e ci invita al suo banchetto.

 

Ci sono ancora due punti che vorrei menzionare.

Il papa passa dalla liturgia domenicale al sacramento della riconciliazione.

Negli ultimi decenni nessun sacramento ci è divenuto tanto estraneo come questo. Eppure, chi non è consapevole che abbiamo bisogno della riconciliazione? Che ci è necessario il perdono, la purificazione interiore?

Nel frattempo siamo sempre più scivolati verso la psicoterapia e la psicoanalisi, come se i compiti e le possibilità di queste non fossero a loro volta oggetto di discussione. Ma, senza la parola della riconciliazione che viene da Dio, i nostri tentativi di riparare la psiche malata, restano insufficienti.

Questo mi porta a un secondo richiamo. Avevo detto che per la conoscenza di Dio è necessario tutta la persona umana: intelletto, volontà, cuore. Sul piano pratico ciò significa che noi non possiamo conoscere Dio se non siamo disposti ad affidarci alla sua volontà, a prenderlo come criterio e orientamento della nostra vita. Ancora più concretamente ciò significa che la compagnia nel cammino della fede, la compagnia in cammino verso Dio, è una cosa sola con la vita secondo i comandamenti. Non si tratta di una determinazione eteronoma che viene imposta all'uomo. Nel consentire alla volontà di Dio si compie la nostra somiglianza con Dio e noi diventiamo ciò che siamo: immagine di Dio.

E poiché Dio è amore, anche i comandamenti, in cui si manifesta la sua volontà, sono le variazioni essenziali dell'unico tema dell’amore. Essi sono le concrete regole dell’amore per Dio, per il prossimo, per la realtà creata, per noi stessi. E poiché in Cristo è il Sì pieno alla volontà di Dio, l'essere a sua immagine nella sua grandezza completa, allora vivere secondo l'amore e nella volontà di Dio è seguire Cristo, andare verso di lui e con lui.

Nella Chiesa degli ultimi decenni anche il richiamo ai comandamenti si è fatto davvero flebile; troppo forte è il timore di dare spazio al sospetto di legalismo e di moralismo. In effetti la parola dei comandamenti resta esteriore se non è illuminata dall’interiorità di Dio in noi stessi e dalla consapevolezza che Cristo ha segnato per noi tutti la strada in anticipo.

Resta moralistico se non sta nella luce della grazia del perdono. Israele era orgoglioso di conoscere la volontà di Dio e di sapere così qual è la via della vita. Il salmo 119 è tutto uno scaturire di gratitudine sempre nuova e di gioia per la conoscenza della volontà di Dio.

Noi ora conosciamo questa volontà divenuta carne in Gesù Cristo come indicazione del cammino da percorrere e allo stesso tempo come misericordia, che ci riprende sempre e sempre ci conduce. Non dovremmo tornare a gioire di essa in mezzo a un mondo pieno di confusione e di oscurità? Ridestare la gioia per Dio, la gioia per il Dio della rivelazione, per l’amicizia con Dio, mi sembra un compito impèllente per la Chiesa nel nostro millennio.

Anche per noi vale la parola che il sacerdote Esdra rivolge a un popolo di Israele divenuto un po’ pavido dopo l’esilio: la gioia del Signore è la nostra forza (Ne 8,10).

Desidero concludere con un’immagine tratta dalla Divina Commedia di Dante. Eravamo partiti dalla discesa all’inferno, nel mondo senza Dio. Dante rappresenta la via della purificazione, la via che porta a Dio come la salita di una montagna. La via esteriore diventa il simbolo del cammino interiore che porta all’autentica vetta, all’altezza di Dio. Inizialmente questo salire è infinitamente difficile per la persona ancora legata alla terra. Nella visione poetica di Dante, dopo la prima tappa del cammino, un angelo cancella il segno della superbia dalla fronte di colui che sale, e ora gli sopravviene, mentre prosegue, un sentimento singolare:

"Già montavam su per li scaglion santi

ed esser mi parea troppo più lieve

che per lo pian non mi parea davanti.

Ond’ io: «Maestro, di', qual cosa greve

levata s'è da me, che nulla quasi

per me fatica, andando, si riceve?».

(Purg. XII, 115-120)

La liberazione dalla superbia diventa superamento del peso. I nostri sentimenti, come la superbia, l'avarizia, l’ambizione e tutto quanto ancora di oscuro e di malvagio abita nella nostra anima, sono come pesi di piombo, che ci impediscono la salita, che ci rendono incapaci dell’altezza: «quanto più l’uomo diventa puro, tanto più diviene affine al piano superiore. Il suo peso scema, la sua forza ascensionale cresce... la libertà cresce; è perfetta quando volontà ed esigenza fanno tutt’uno» (diceva R. Guardini in L'angelo nella Divina Commedia, in Studi su Dante, Brescia 1979).

La compagnia nel cammino della fede, che noi chiamiamo Chiesa, deve essere una compagnia nel salire, una compagnia in cui si compie in noi quella purificazione che ci rende capaci della vera altezza dell'essere uomini, della compagnia con Dio. Nella misura della purificazione anche la salita, che all’inizio è così faticosa, diventa sempre più gioiosa. Questa gioia dalla Chiesa deve sempre più trasparire fin dentro il mondo.

 

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(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 97-113

 

della stessa serie consigliamo anche:

Ratzinger La Chiesa non dipende dalle maggioranze  

Il compito del cristiano nella Chiesa e nella società

Le profezie del cardinale Ratzinger sulla Chiesa

 

e qui l'indice di tutti gli scritti di Ratzinger

 
 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)