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Ratzinger Benedetto XVI sui divorziati-risposati: Eureka!


 


 quando Ratzinger aveva già trovato come fare una seria pastorale


sull'astenersi dal Sacramento, spiegando il perchè...





Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché possano vedere che sono accompagnati, guidati.

Poi è anche molto importante che sentano che l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo.

Anche senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel suo Corpo. E far capire questo è importante.

Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede.

Penso che la loro sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa.

Devono saperlo, che proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa.

 

Nostra Premessa: per comprendere l'ultimo paragrafo che spiega perché i divorziati risposati non possono ricevere l'Eucaristia, è necessario leggere anche quanto segue, buona meditazione.

 

Per mettere a buon fine il testo che segue, vi ricordiamo di procedere con gli approfondimenti sul tema Divorziati-risposati e i Sacramenti che troverete, qui, nell'elenco del nostro Dossier

 

Abbiate pazienza di leggere, integralmente, fino alla fine per comprendere come l'allora cardinale Ratzinger aveva trovato la soluzione per i Sacramenti ai Divorziati-Risposati. Certo, l'astensione dai Sacramenti, quando non si è in regola con i Dieci Comandamenti, è già dottrina, ma Ratzinger va ben oltre aiutando a comprendere perchè l'astenersi, alla fine, è anche più fruttuoso per la condizione in cui si vive!

 

GUARDARE AL CROCEFISSO  da pag 79 a 87

card. J. Ratzinger

 

La comunione tra la natura divina e umana in Cristo

 

Con un secondo passo noi dobbiamo ora definire in modo ancora più chiaro il fondamento cristologico dell’esistenza cristiana per toccare in questo modo tanto il nucleo della spiritualità eucaristica come quello di una spiritualità della Chiesa. Gesù Cristo — come abbiamo riconosciuto nelle precedenti riflessioni —apre la strada all’impossibile, alla comunione tra Dio e l’uomo, poiché egli, la Parola incarnata, è questa comunione.

In Lui troviamo realizzata quell’«alchimia» che introduce la natura umana nella natura divina fondendola con essa. Ricevere il Signore nell’eucarestia significa perciò entrare in una comunione ontologica con Cristo, entrare in quell’apertura della natura umana a Dio che è nello stesso tempo la condizione dell’apertura più profonda di ciascun uomo per l’altro.

La strada per la comunione reciproca dell’uomo passa attraverso la comunione con Dio. Per cogliere il contenuto spirituale dell’eucarestia dobbiamo dunque comprendere la tensione spirituale del Dio incarnato: solo in una cristologia spirituale si dischiude anche la spiritualità del sacramento.

A causa del suo interesse prevalentemente metafisico e storico la teologia dell’occidente ha un po’ trascurato questo punto di vista che in realtà rappresenta proprio il legame tra diverse parti della teologia come anche tra la riflessione teologia e l’attuazione concreta, spirituale del cristianesimo.

 

Il terzo concilio di Costantinopoli (il cui 1300° anniversario nel 1981 è stato significativamente quasi ignorato insieme con il ricordo del primo concilio di Costantinopoli e del concilio di Efeso) offre a tal riguardo i punti di riferimento decisivi che, secondo me, sono indispensabili per la stessa interpretazione del concilio di Calcedonia.

Una dettagliata interpretazione dei problemi non è evidentemente possibile; cerchiamo di cogliere, per lo meno in sintesi, ciò che qui ci riguarda .

 

Il concilio di Calcedonia aveva descritto il contenuto teologico dell’incarnazione con la sua nota formula delle due nature in una persona. Il terzo concilio di Costantinopoli però si trovò — in conformità a tutta la disputa che questa ontologia aveva provocato — di fronte alla domanda: qual è il contenuto spirituale di tale ontologia? o più concretamente: che cosa significa praticamente ed esistenzialmente l’espressione «una persona in due nature»? Come può una persona vivere con due volontà e con un intelletto duplice?

 

Non si trattava affatto di questioni legate a pura curiosità intellettuale; qui siamo in gioco proprio noi stessi, è in gioco la domanda: come possiamo vivere da battezzati, e dunque da persone per le quali, come afferma Paolo, deve valere: «non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2, 20)?

 

È noto che allora, nel VII secolo, si presentavano, come del resto anche oggi, due soluzioni in egual misura inaccettabili.

Gli uni affermavano: in Cristo non c’era propriamente alcuna volontà umana. Il terzo concilio di Costantinopoli respinge questa immagine del Cristo come quella di un «Cristo senza volontà e senza forza». In modo esattamente opposto l’altra soluzione poneva due sfere della volontà completamente divise. Ma, in questo modo, si finiva in una sorta di schizofrenia, in una concezione mostruosa ed altrettanto inaccettabile.

La risposta del concilio suona: l'unione ontologica di due capacità di volere autonomamente presenti nell’unità della persona significa, sul piano dell’esistenza, comunione (koinonia) di due volontà. Interpretando l’unione come comunione il concilio delinea un’ontologia della libertà. Le due «volontà» sono unite in modo che volontà e volontà possono unirsi in un comune "sì" ad un valore comune.

 

In altre parole le due volontà sono unite nel sì della volontà umana di Cristo alla volontà divina del Logos. Così concretamente — «esistenzialmente» — entrambe le volontà diventano un’unica volontà e tuttavia rimangono ontologicamente due realtà autonome.

Riguardo a questo il concilio afferma: come la carne del Signore può essere detta carne della parola, così anche la sua volontà umana può essere definita volontà propria del Logos. In questo frangente il concilio applica di fatto (nella dovuta differenza analogica) il modello trinitario alla cristologia: la suprema unità esistente — l’unità di Dio — non è un’unità senza articolazione e distinzione, ma unità al modo della comunione — unità che è creata dall’amore ed è amore.

 

Così il Logos assume in sé l’essere dell’uomo Gesù e ne parla con il proprio io: «sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38) . Nell’obbedienza del Figlio, nella unificazione della duplice volontà in un unico sì alla volontà del Padre, si compie la comunione tra essere umano e divino. Lo «scambio meraviglioso», l'«alchimia dell’essere» si realizza qui come comunicazione liberatrice e conciliatrice, che diviene comunione tra Creatore e creatura. Nel dolore di questo scambio, e soltanto qui, si compie la fondamentale e unicamente redentrice trasformazione dell’uomo che muta le condizioni del mondo. Qui ha la sua nascita la comunione, qui nasce la Chiesa. In quanto vero mutamento dell’uomo, l’atto di partecipazione all’obbedienza del Figlio è ad un tempo l’unico atto efficace e operativo al fine di rinnovare e mutare la società ed il mondo: solo dove questo atto ha luogo, accade un mutamento che porta alla salvezza — al regno di Dio .

 

Mi sembra necessaria un’ulteriore osservazione per completare le nostre riflessioni.

Noi abbiamo sinora stabilito: l’incarnazione del Figlio crea la comunione tra Dio e l’uomo e spalanca in tal modo anche la possibilità d’una nuova comunione degli uomini tra di loro. Questa comunione tra Dio e l’uomo, la quale è realizzata nella persona di Gesù Cristo, ora diviene, a sua volta, comunicabile nel mistero della Pasqua, ossia nella morte e nella resurrezione del Signore. L’Eucarestia è la nostra partecipazione al mistero pasquale e così costituisce la Chiesa, il corpo di Cristo.

Da qui deriva la necessità salvifica dell’eucarestia. La necessità dell’eucarestia coincide con la necessità della Chiesa; e viceversa.

Con questo significato deve essere intesa la parola del Signore: «se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6, 53).

Si mostra, allora, anche la necessità di una Chiesa visibile e di un’unità visibile, concreta (si potrebbe dire: istituzionale).

Il profondo mistero della comunione tra Dio e l’uomo è accessibile nel sacramento del corpo del risorto: il mistero, al contrario, richiede il nostro corpo e di nuovo si realizza in un corpo. Costituita dal sacramento del corpo di Cristo, anche la Chiesa, da parte sua, deve essere un corpo, ed invero un unico corpo corrispondentemente all’unicità di Gesù Cristo. Tale unicità appare di nuovo nell’unità e nella permanenza nell’unica dottrina apostolica.

 

Il problema degli scomunicati

 

Che cosa dobbiamo però dire, se le cose stanno così, dei molti scomunicati che credono nel Signore ed in lui sperano, e desiderano il dono del suo corpo, ma non possono ricevere il sacramento?

 

Io penso alle forme del tutto diverse di esclusione dalla comunione sacramentale. Da una parte vi è anzitutto l’impossibilità materiale di ricevere il sacramento in periodi di persecuzione o a causa della mancanza di sacerdoti.

Dall’altra parte ci sono esclusioni giuridicamente fondate dalla comunione, come nel caso dei divorziati risposati.

In un certo senso, qui viene toccato anche il problema ecumenico, la mancanza di comunione tra i cristiani separati.

 

Naturalmente è impossibile chiarire questioni tanto diverse e tanto ampie nell’ambito del nostro tema. Tralasciarle del tutto, tuttavia, sarebbe una mancanza d’onestà. Benché una risposta sia qui impossibile, almeno vorrei tentare un breve richiamo ad un importante punto di vista.

Nel suo libro L'Église est une communion Hamer mostra che la teologia medievale, la quale, a sua volta, non poteva certo trascurare il problema degli scomunicati, s’è confrontata con esso in un modo molto accurato.

Per i pensatori medioevali non era più possibile — come lo era nell’epoca patristica — identificare semplicemente l’appartenenza alla comunione visibile della Chiesa col rapporto con il Signore.

Graziano aveva ancora scritto: cari, un cristiano che è escluso dalla comunione dai sacerdoti, è consegnato al diavolo. Perché? Poiché fuori della Chiesa vi è il diavolo, come all’interno della Chiesa Cristo .

 

Rispetto a ciò, i teologi del XIII secolo si trovavano davanti al compito, da una parte, di mantenere il collegamento indispensabile tra interno ed esterno, tra segno e realtà, tra corpo e spirito, ma, ad un tempo, dovevano anche tener conto della diversità di entrambi. Così, ad esempio, troviamo in Guglielmo di Auvergne la distinzione in base alla quale comunione esterna e comunione interna sono in relazione l’una con l’altra come segno e realtà. Egli spiega allora che mai la Chiesa vorrebbe privare qualcuno della comunione interna.

Quando essa usa la spada della scomunica, accade, secondo lui, solo ed unicamente per salvare con questa medicina la comunione spirituale.

A questo aggiunge un pensiero altrettanto consolante e stimolante.

A lui sarebbe noto — così dice — che per non pochi il peso dell'esclusione dalla comunione è tanto difficile da portare quanto il martirio. Ma talvolta uno da scomunicato procede nella pazienza e nell’umiltà più che nella situazione di partecipazione esterna alla comunione .

 

Bonaventura ha approfondito ulteriormente questa concezione. Contro il diritto di esclusione della Chiesa egli si imbattè in un’obiezione assolutamente moderna, che così diceva: scomunicare è separare dalla comunione. La comunione cristiana, però, per natura è costituita dall’amore, anzi è comunione d’amore. Nessuno ha il diritto di escludere qualsivoglia persona dall’amore, dunque non esiste il diritto di scomunicare qualcuno (cfr Hamer) .

A questa obiezione Bonaventura risponde con la distinzione di tre livelli di comunione; in questo modo egli può tener fermi la disciplina ecclesiastica ed il diritto ecclesiastico, e ad un tempo da teologo dire in piena responsabilità: «Io concludo che nessuno né può né deve essere escluso dalla comunione d’amore, sino a quando vive sulla terra. La scomunica non è esclusione da questa comunione» .

 

Da tali riflessioni, che oggi dovrebbero essere di nuovo accolte ed approfondite, non si può evidentemente concludere che sia superflua o meno importante la concreta, sacramentale appartenenza alla comunità fondata nella comunione. Lo «scomunicato» viene sostenuto dall’amore del corpo vivente di Cristo, dalle sofferenze dei santi che si uniscono alla sua sofferenza così come alla sua fame spirituale, poiché ambedue sono circondati dalle sofferenze, dalla fame, dalla sete di Gesù Cristo, che sopporta e sostiene noi tutti. D’altra parte la sofferenza dell’escluso, il suo tendere alla comunione — (sacramentale e di coloro che sono parte vivente di Cristo)—  rappresenta il legame che lo tiene unito all’amore salvifico di Cristo.

 

In entrambe le prospettive, dunque, si impongono e sono irrinunciabili il sacramento e la comunità che, da lui edificata e visibile, è fondata nella comunione.

Anche qui ha luogo, dunque, il «salvataggio dell’amore» che è l’ultima mira della croce di Cristo, del sacramento, della Chiesa. Diviene allora comprensibile come, nella sofferenza per la lontananza, nel dolore pieno di desiderio e nell’amore che nella sofferenza cresce, l’impossibilità della comunione sacramentale possa condurre paradossalmente al progresso spirituale.

 

La ribellione invece — come afferma Guglielmo d’Auvergne — necessariamente dissolve il fine positivo, costruttivo della scomunica.

La ribellione non salva, ma distrugge l’amore.

 

In questo contesto mi si impone una riflessione che ha un più forte carattere di pastorale generale. Quando Agostino sentì avvicinarsi la morte, «scomunicò» se stesso, prese su di sé la penitenza della Chiesa. Nei suoi ultimi giorni si pose in solidarietà con i pubblici peccatori che cercano perdono e grazia mediante la sofferenza per la rinuncia alla comunione . Egli volle incontrare il suo Signore nell’umiltà di chi ha fame e sete di giustizia, di Lui, il giusto e il misericordioso. Sullo sfondo delle sue prediche e dei suoi scritti che descrivono grandiosamente il mistero della Chiesa come comunione con il corpo di Cristo e come corpo di Cristo a partire dall’eucarestia, questo gesto ha in sé qualcosa di commovente. Esso mi rende tanto più pensoso quanto più spesso vi rifletto.

 

Noi, oggi, non riceviamo spesso con eccessiva facilità il santissimo sacramento?

Talvolta questo digiuno spirituale non sarebbe utile o addirittura necessario al fine di approfondire e rinnovare il nostro rapporto col corpo di Cristo?

 

In questa direzione la Chiesa antica conosceva una pratica di grande capacità espressiva: già a partire dall’epoca apostolica il digiuno eucaristico del venerdì santo era frutto della spiritualità comunionale della Chiesa. Proprio la rinuncia alla comunione in uno dei giorni più santi dell’anno liturgico, trascorso senza messa e senza comunione ai fedeli, era un modo particolarmente profondo di partecipare alla passione del Signore: il lutto della sposa alla quale è tolto lo sposo (cfr. Mc. 2, 20) .

 

Io penso che anche oggi un tale digiuno eucaristico, nel caso fosse determinato da riflessione e sofferenza, avrebbe un notevole significato in determinate occasioni, da ponderare con cura, come nei giorni di penitenza (perché non, ad esempio, di nuovo il venerdì santo?) o in modo del tutto particolare durante le grandi messe pubbliche in cui addirittura il numero dei partecipanti spesso non rende più possibile una dignitosa distribuzione del sacramento.

 

In tal caso la rinuncia potrebbe veramente esprimere maggiore riverenza ed amore al sacramento di una partecipazione materiale che si trova ad essere in contraddizione con la grandezza dell’evento.

Un tale digiuno — che naturalmente non può essere arbitrario, ma deve ordinarsi all’orientamento della Chiesa — potrebbe favorire un approfondimento del rapporto personale col Signore nel sacramento; potrebbe essere anche un atto di solidarietà con tutti coloro che hanno desiderio del sacramento, ma non lo possono ricevere.

 

Mi sembra che il problema dei divorziati risposati, ma anche quello della intercomunione (ad esempio nei matrimoni misti) risulterebbe molto meno gravoso se tale volontario digiuno spirituale riconoscesse ed esprimesse visibilmente che noi tutti dipendiamo da quel «salvataggio dell’amore» che il Signore ha compiuto nell’estrema solitudine della croce.

 

Naturalmente, con questo non vorrei proporre un ritorno ad una specie di giansenismo: il digiuno presuppone una condizione normale del mangiare tanto nella vita spirituale come in quella biologica. Ma talvolta abbiamo bisogno d’una medicina contro la caduta nella semplice abitudine e nella sua assenza di spiritualità. Talvolta abbiamo bisogno della fame — fisicamente e spiritualmente — per capire di nuovo i doni del Signore e per comprendere la sofferenza dei nostri fratelli che hanno fame. La fame tanto spirituale come fisica può essere uno strumento dell’amore.

 

Considerazione conclusiva

 

Tentiamo una sintesi che possa condurre ad un’ultima osservazione. Il termine biblico e patristico koinonia riunisce in sé due significati: «eucarestia» e «comunità» (comunione). Con questa sintesi semantica, esso non rimanda semplicemente al centro di ogni ecclesiologia correttamente intesa; chiarisce in pari tempo la necessaria sintesi di Chiesa particolare e Chiesa universale.

 

La celebrazione eucaristica si compie infatti in un determinato luogo e lì edifica una cellula della fraternità cristiana. La «comunità» locale cresce in virtù della presenza viva ed efficace del Signore nell’eucarestia. Ma ad un tempo va detto che il Signore è uno in tutti i luoghi e in ogni Eucarestia. La presenza indivisibile dell’unico ed identico Signore, che è in pari tempo la parola del Padre, presuppone perciò che ogni singola comunità rimanga nell’intero ed unico corpo di Cristo; solo così essa può celebrare l’eucarestia. Qui è incluso — come abbiamo visto — il permanere nella «dottrina apostolica», la cui presenza trova il suo segno e la sua garanzia nella istituzione della «sequela apostolica».

 

Al di fuori di questo grande tessuto la «comunità» diventa vuota, un gesto romantico di desiderio di protezione all’interno di piccoli gruppi, che tuttavia manca di reale contenuto .

Solo un potere ed un amore che è più forte di tutte le nostre iniziative, può edificare una comunione feconda e sicura, e dare ad essa la dinamica della missione feconda.

 

L’unità della Chiesa, che è fondata sull’amore dell’unico Signore, non distrugge ciò che è proprio ad una singola comunità, ma la costruisce e mantiene nella forma di reale comunione con il Signore e tra i membri. L’amore di Cristo, che è presente per tutte le epoche nel sacramento del suo corpo, risveglia il nostro amore, salva il nostro amore: l’eucarestia è il fondamento tanto della comunione come della missione, giorno per giorno.

 

 

vi ricordiamo di procedere con gli approfondimenti sul tema Divorziati-risposati e i Sacramenti che troverete, qui, nell'elenco del nostro Dossier

 


 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)