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Formazione liturgica del Popolo di Dio e nozioni utili anche per i Sacerdoti

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2013 00:15
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21/03/2013 21:23

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

segni benedetto xvi

I segni esterni di devozione del celebrante

 

La fede nella presenza del Signore nella Chiesa, in specie quella eucaristica, il sacerdote la esprime esemplarmente con l’adorazione che si documenta nella riverenza profonda delle genuflessioni durante la Santa Messa e fuori di essa. Nella liturgia postconciliare sono ridotte al minimo: la ragione addotta è la sobrietà; il risultato è che son diventate rare, oppure sono appena abbozzate. Siamo diventati avari di gesti verso il Signore; però elogiamo ebrei e musulmani per il loro fervore nel modo di pregare.

La genuflessione più delle parole manifesta l’umiltà del sacerdote, che sa di essere solo un ministro, e la sua dignità per il potere di rendere presente il Signore nel sacramento. Ma vi sono altri segni di devozione. Le mani levate in altodal sacerdote stanno ad indicare la supplica del povero e dell’umile: «Ti preghiamo umilmente», si sottolinea nelle preghiere eucaristiche II e III del messale di Paolo VI. L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) stabilisce che il sacerdote, «quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo» (n. 93). L’umiltà dell’atteggiamento e della parola è consona a Cristo stesso, mite e umile di cuore. Egli deve crescere e io diminuire.

Nell’incedere all’altare, il sacerdote deve essere umile, non ostentato, senza indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l’applauso. Invece, deve guardare a Gesù Cristo crocifisso e presente nel tabernacolo: a Lui si fa l’inchino e la genuflessione; poi alle immagini sacre esposte nell’abside dietro o ai lati dell’altare, la Vergine, il santo titolare, gli altri santi. Sono lì per essere contemplate o solo per decorare? È in sintesi la presenza divina. Segue il bacio riverente dell’altare ed eventualmente l’incensazione; il secondo atto è il segno di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l’atto penitenziale, da compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero inginocchiarsi – perché no? – come nella forma straordinaria, imitando il pubblicano gradito al Signore.

Il sacerdote celebrante non alzerà la voce e manterrà un tono chiaro per l’omelia ma sommesso e supplice per le preghiere, solenne se in canto. Si preparerà inchinato «in spirito di umiltà e con animo contrito» alla preghiera eucaristica o anafora: è la supplica per definizione e va recitata in modo che la voce corrisponda al genere del testo (cf. OGMR 38); il celebrante potrebbe pronunziare con tono più alto le parole iniziali dei singoli paragrafi, e recitare il resto in tono sommesso per permettere ai fedeli di seguire e raccogliersi nell’intimo del cuore. Toccherà i santi doni con stupore, e purificherà i vasi sacri con calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà sul pane e sul calice nel pronunziare le parole di Cristo consacrante e nell’invocazione allo Spirito Santo (epiclesi). Li eleverà separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà con raccoglimento e tono orante l’anafora fino alla dossologia, elevando i santi doni in offerta al Padre. Il Padre nostro lo reciterà con le mani alzate e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il sacerdote non lascerà il Sacramento sull’altare per dare la pace fuori del presbiterio, invece frazionerà l’Ostia in modo solenne e visibile, quindi genufletterà davanti all’Eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo Corpo e prezioso Sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l’Ostia per la comunione, supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per primo. Così sarà di esempio ai fedeli.

Dopo la comunione, il silenzio per il ringraziamento si può fare in piedi, meglio che seduti, in segno di rispetto, oppure inginocchiati, se è possibile, come ha fatto fino all’ultimo Giovanni Paolo II, quando celebrava nella sua cappella privata, col capo inchinato e le mani congiunte, al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la vita eterna, come nella formula che accompagna la purificazione dei vasi sacri; molti fedeli lo fanno e ci sono di esempio. La patena o coppa e il calice (vasi che sono sacri per ciò che contengono) per quale ragione non dovrebbero essere «lodevolmente» ricoperti da un velo (OGMR 118; cf. 183) in segno di rispetto – e anche per ragioni d’igiene – come fanno gli orientali? Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione finale, salendo all’altare per baciarlo, ancora alzerà gli occhi al crocifisso e si inchinerà, e genufletterà al tabernacolo. Quindi tornerà in sacristia, raccolto, senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.

Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia, che è una cosa seria, in cui tutto ha un senso per l’incontro col mistero presente di Dio (per approfondire: cf. il mio recente Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme 2010).


***

I segni esterni di devozione da parte dei fedeli

 

 

 

Si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nella liturgia della Nuova Alleanza, ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa» (CCC, n. 1097). La Liturgia è quindi “luogo” privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con Colui che Egli ha inviato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3).

 

In questo incontro l’iniziativa, come sempre, è del Signore, che si presenta, nel cuore della Ecclesia, risorto e glorioso. Di fatto, «se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (Benedetto XVI, Ai Vescovi del Brasile [norte 2], 15.04.2010).

 

Cristo precede l’assemblea che celebra. Egli – che agisce inseparabilmente unito allo Spirito Santo – la convoca, la riunisce e la istruisce. Per questo, la comunità, ed ogni fedele che la forma, «deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto» (CCC, n. 1098). Attraverso le parole, le azioni e i simboli che costituiscono la trama di ogni celebrazione, lo Spirito Santo pone fedeli e ministri in relazione viva con Cristo, Parola e Immagine del Padre, in modo che possano innestare nella propria vita il senso di ciò che ascoltano, contemplano e realizzano. Di qui che «ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (CCC, n. 1153).

 

In questo incontro l’aspetto umano è importante, come segnala anche san Josemaría Escrivá: «Io non ho un cuore per amare Dio e un altro per amare le persone della terra. Con lo stesso cuore con il quale ho amato i miei genitori e amo i miei amici, proprio con questo stesso cuore io amo Cristo e il Padre e lo Spirito Santo e Maria Santissima. Non mi stancherò mai di ripeterlo: dobbiamo essere molto umani; perché, altrimenti, non potremo essere neppure divini» (È Cristo che passa, n. 166). Per questo la fiducia filiale deve caratterizzare il nostro incontro con Cristo. Senza dimenticare tuttavia che «questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi» (Benedetto XVI, Santa Messa del Crisma, 20.03.2008).

 

La Liturgia, e in modo speciale l’Eucaristia, «è l’incontro e l’unificazione di persone; la Persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio» (Benedetto XVI, Alla Curia Romana, 22.12.2005). Il singolo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi davanti a Colui che è il tre volte Santo. Di qui la necessaria attitudine, piena di riverenza e di senso di stupore, che sgorga dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio intendeva esprimere quando ordinò a Mosè di togliersi i sandali davanti al roveto ardente? Non nasceva da simile consapevolezza l’atteggiamento di Mosè e di Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia? E non ci mostrano questa stessa disposizione d’animo i Magi che «prostratisi, lo adorarono»? I diversi personaggi del Vangelo che incontrano Gesù che passa, che perdona... non ci danno anch’essi un modello esemplare di condotta per i nostri incontri con il Figlio del Dio vivo?

 

In realtà, i gesti corporei esprimono e promuovono «l’intenzione e i sentimenti dei partecipanti» (IGMR, n. 42) e permettono di superare il pericolo che insidia ogni cristiano: l’abitudine. «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile» (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 3). Per questo, «un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli» (Id., Sacramentum Caritatis, n. 65).

 

Gli atti di devozione si comprendono in modo adeguato in questo contesto di incontro con il Signore, che implica unione, «unificazione [che] può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell’adorazione» (Id., Alla Curia Romana, 22.12.2005).

 

Evidenziamo in primo luogo la genuflessione, «che si fa piegando il ginocchio destro fino a terra, e significa adorazione; perciò è riservata al SS.mo Sacramento e alla santa Croce, dalla solenne adorazione nell’Azione liturgica del Venerdì nella Passione del Signore fino all’inizio della Veglia pasquale» (IGMR, n. 274).

 

L’inchino del capo significa invece riverenza e onore. Nel Credo – eccetto nelle solennità del Natale e dell’Annunciazione (Incarnazione), nelle quali si sostituisce con la genuflessione – compiamo questo gesto pronunciando le mirabili parole: «E per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

 

Da ultimo, vogliamo mettere in luce il gesto di inginocchiarsi al momento della consacrazione e, dove si conserva quest’uso, dal Sanctus fino alla fine della Preghiera Eucaristica, o anche ricevendo la sacra Comunione. Si tratta di segni forti, che manifestano la consapevolezza di stare davanti a Qualcuno di speciale. È Cristo, il Figlio del Dio vivo, e davanti a Lui cadiamo in ginocchio. Nell’inginocchiarsi, il significato spirituale e corporeo formano un’unità, perché il gesto corporeo implica un significato spirituale e, viceversa, l’atto spirituale esige una manifestazione, una traduzione esteriore. Inginocchiarsi davanti a Dio non è qualcosa di “poco moderno”; al contrario corrisponde alla verità del nostro stesso essere. «Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi, ed una fede e una liturgia che non conoscesse più l’inginocchiarsi sarebbe malata in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli Apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia [Opera omnia 11], LEV, Città del Vaticano 2010, p. 183).





[Modificato da Caterina63 21/03/2013 23:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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