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Formazione liturgica del Popolo di Dio e nozioni utili anche per i Sacerdoti

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2013 00:15
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UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

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Formazione liturgica per il popolo di Dio

 

È stata pubblicata due giorni fa, lunedì 18 ottobre, la Lettera ai Seminaristi di Benedetto XVI, per la conclusione dell’Anno Sacerdotale. Al n. 1, il Papa esordisce ricordando che «chi vuole diventare sacerdote, dev’essere soprattutto un “uomo di Dio”» e questo in concreto significa che:

«il sacerdote non è l’amministratore di una qualsiasi associazione, di cui cerca di mantenere e aumentare il numero dei membri. È il messaggero di Dio tra gli uomini. Vuole condurre a Dio e così far crescere anche la vera comunione degli uomini tra di loro. Per questo, cari amici, è tanto importante che impariate a vivere in contatto costante con Dio» (n. 1).

Nell’insegnamento di papa Benedetto, la preghiera è «luogo» privilegiato di apprendimento dello stile di vita cristiano. Ad esempio, nell’enclica Spe Salvi, il Santo Padre aveva presentato la preghiera come uno dei principali «luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza cristiana (cf. nn. 32-34). Anche nella Lettera ai Seminaristi, essa è considerata il modo concreto in cui il candidato al sacerdozio impara a stare in intima e continua comunione con il Signore:

«Quando il Signore dice: “Pregate in ogni momento”, naturalmente non ci chiede di dire continuamente parole di preghiera, ma di non perdere mai il contatto interiore con Dio. Esercitarsi in questo contatto è il senso della nostra preghiera. Perciò è importante che il giorno incominci e si concluda con la preghiera. Che ascoltiamo Dio nella lettura della Scrittura. Che gli diciamo i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre gioie e sofferenze, i nostri errori e il nostro ringraziamento per ogni cosa bella e buona, e che in questo modo Lo abbiamo sempre davanti ai nostri occhi come punto di riferimento della nostra vita» (n. 1).

Con un ulteriore passaggio, Benedetto XVI ricorda che la preghiera allo stato perfetto è il culto pubblico della Chiesa, ossia la sacra liturgia, e in modo privilegiato la Santa Messa, a riguardo della quale il Papa precisa:

«Per la retta celebrazione eucaristica è necessario anche che impariamo a conoscere, capire e amare la liturgia della Chiesa nella sua forma concreta. Nella liturgia preghiamo con i fedeli di tutti i secoli – passato, presente e futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera. Come posso affermare per il mio cammino personale, è una cosa entusiasmante imparare a capire man mano come tutto ciò sia cresciuto, quanta esperienza di fede ci sia nella struttura della liturgia della Messa, quante generazioni l’abbiano formata pregando» (n. 2).

La liturgia si comprende davvero solo innestandosi nella Tradizione vivente della Chiesa, dalla quale la riceviamo come dono da preservare e vivere a nostra volta in spirito di fede e di preghiera. È infatti questo l’unico spirito giusto per celebrare e partecipare alla liturgia. Non si tratta di produrre emozioni superficiali e passeggere, attraverso invenzioni particolari da innestare nel rito, perché il vero «spirito della liturgia» è lo spirito di preghiera adorante, di chi sta «davanti a Dio per servirlo» (cf. Messale Romano [Paolo VI], «Preghiera Eucaristica II»).

È entusiasmante – dice il Santo Padre in base alla sua esperienza personale – imparare a capire la liturgia con questo senso ecclesiale e dinamico della vera Tradizione. Per questo è necessaria la formazione liturgica, che rischiara le tenebre dell’ignoranza e abbatte i bastioni dell’ideologia, aiutando a comprendere il senso sacro del culto divino e il suo legame con l’intera storia della fede, che la Chiesa custodisce e professa nei propri figli: capi e membra, pastori e gregge. Formazione liturgica non è però – né può essere – una rinnovata forma di iniziazione «gnostica», un sapere riservato a pochi titolati. La formazione liturgica, seppure fondata sulla serietà di uno studio scientifico che non è per tutti, deve tradursi in forme accessibili ai fedeli a cui è rivolta.

Tra le tante, lodevoli iniziative, a livello universale e locale, volte a curare la formazione liturgica del popolo di Dio, si inscrive anche la nostra rubrica «Spirito della Liturgia», che comincia oggi la sua terza annata di pubblicazione. Accogliendo diverse richieste, abbiamo deciso di sperimentare da quest’anno un taglio ancora più divulgativo, come si noterà dalla maggiore brevità degli articoli e dal numero ulteriormente ridotto dei rimandi e delle note. Questa scelta sacrifica, da un lato, il giusto desiderio degli articolisti di fornire più dettagli e riferimenti sui temi trattati; ma speriamo che possa favorire, dall’altro, una diffusione più ampia delle nostre riflessioni, sì da poter raggiungere un numero più elevato di lettori. Ad essi va sin d’ora la gratitudine degli autori di «Spirito della Liturgia», per la fedeltà ed attenzione con cui ci hanno seguito nei due anni precedenti e con le quali confidiamo vogliano continuare a leggerci.

 ***

Perché la liturgia? Cosa significa liturgia? (CCC 1066-1070)

 

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), dopo la professione di fede, sviluppata nella prima parte, si passa alla spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, attua e continua l'edificazione della sua Chiesa. Infatti, se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza.

 

Quindi, esiste un rapporto intrinseco tra fede e liturgia, entrambe sono intimamente unite. In realtà, senza la liturgia e i sacramenti la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. E «dall'altra parte, l'azione liturgica non può mai essere considerata genericamente, a prescindere dal mistero della fede. La sorgente della nostra fede e della liturgia eucaristica, infatti, è il medesimo evento: il dono che Cristo ha fatto di se stesso nel Mistero pasquale» (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, 34).

 

Se apriamo il Catechismo nella sua seconda parte, si legge che la parola “liturgia” significa originariamente «servizio da parte del popolo e in favore del popolo». Nella tradizione cristiana vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all'«opera di Dio» (CCC, 1069).

 

In che cosa consiste questa opera di Dio alla quale noi partecipiamo? La risposta del Catechismo è chiara e ci permette di scoprire l'intima connessione esistente tra fede e liturgia: «Nel Simbolo della fede, la Chiesa confessa il mistero della Santa Trinità e “il mistero della sua volontà, secondo [...] la sua benevolenza” (Ef 1,9) su tutta la creazione: il Padre compie il “mistero della sua volontà” donando il suo Figlio diletto e il suo Santo Spirito per la salvezza del mondo e per la gloria del suo Nome» (CCC, 1066).

 

Infatti, «quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione» (CCC, 1067). È questo il mistero di Cristo che la Chiesa «annunzia e celebra nella sua liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo» (CCC, 1068).

 

Per mezzo della liturgia «si effettua l'opera della nostra redenzione» (Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 2). Pertanto, come fu inviato dal Padre, Cristo ha inviato gli Apostoli a predicare la redenzione e ad «attuare l'opera di salvezza che annunziavano, mediante il sacrificio e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica» (ibid., 6 ).

 

Così vediamo che il Catechismo sintetizza l'opera di Cristo nel mistero pasquale, che è il suo nucleo essenziale. E il nesso con la liturgia è ovvio, poiché «attraverso la liturgia Cristo, nostro Redentore e Sommo Sacerdote, continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l’opera della nostra redenzione» (CCC, 1069). Quindi, questa «opera di Gesù Cristo», perfetta glorificazione di Dio e santificazione degli uomini, è il vero contenuto della liturgia.

 

Questo è un punto importante perché, sebbene l'espressione e il contenuto teologico-liturgico del Mistero pasquale dovrebbero ispirare lo studio teologico e la celebrazione liturgica, non è sempre stato così. Infatti, «la maggior parte dei problemi collegati all'applicazione concreta della riforma liturgica ha a che fare con il fatto che non è stato tenuto sufficientemente presente il peso dato dal Concilio Vaticano II alla Pasqua […]. Pasqua significa inseparabilità della Croce e della Risurrezione [...]. La Croce sta al centro della liturgia cristiana, con tutta la sua serietà: un ottimismo banale che nega la sofferenza e l'ingiustizia nel mondo e riduce l'essere cristiani all'essere cortesi non ha nulla a che fare con la liturgia della croce. La redenzione è costata a Dio la sofferenza di suo Figlio, la sua morte, e l’“exercitium” della redenzione, che, secondo il testo conciliare, è la liturgia, non può avvenire senza le purificazioni e le maturazioni che vengono dalla sequela della croce» (J. Ratzinger / Benedetto XVI, Teologia della liturgia, LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 775-776).

 

Questo linguaggio si scontra con quella mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo, in soccorso dell'uomo. Quindi, «la confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità. Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo. “La Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della Croce” (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, 14). La Chiesa vive di questa presenza e ha come ragion d'essere e di esistere quella di diffondere tale presenza nel mondo intero» (Benedetto XVI, Discorso del 15.04.2010).

 

Questa è la meraviglia della liturgia che, come ricorda il Catechismo, è culto divino, annuncio del Vangelo e carità in azione (cf. CCC, 1070). È Dio stesso che agisce e noi siamo attratti da questa sua azione, per essere trasformati in Lui.

 

[Modificato da Caterina63 22/03/2013 00:15]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La bellezza del rito liturgico

 

Hans Urs von Balthasar, nella «Introduzione» al primo volume della sua monumentale Herrlichkeit (Gloria), in cui ha sviluppato una teologia sistematica centrata sul trascendentale del bello, scrive:

«La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come oggi è dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa» (Gloria. Una estetica teologica, Jaca book, Milano 1994 [II rist.], pp. 10-11).

Sono parole di chiara condanna, da parte di un teologo ben “moderno”, di quello spirito funzionalista tipico della modernità, che non è più capace di apprezzare il valore delle cose belle che non abbiano un immediato riscontro nel campo dell’utile. Come capire oggi il valore dei dettagli minuziosi che i pittori hanno tracciato sulle volte di innumerevoli chiese e che sono inutili, perché non percebili da chi guarda la volta dalla navata? Come giustificare la fatica dei maestri mosaicisti che hanno passato giorni a comporre tessere in luoghi non visibili delle cattedrali medioevali? Se il dipinto o il mosaico non saranno visti, non saranno fruiti da alcun occhio umano, a che è servito tanto lavoro? Il bello in questo caso non implica lo spreco di tempo e di energie? E ancora: a cosa serve la bellezza dei paramenti e dei vasi sacri, se il povero muore di fame o non ha di che coprire la sua nudità? Quella bellezza non sottrae risorse alla cura dei bisognosi?

Eppure la bellezza serve! E serve proprio quando è gratuita, quando non ricerca un utile immediato, quando è irradiazione di Dio. Ricorda Benedetto XVI:

«Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. [...] La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. [...] La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (Sacramentum Caritatis, n. 35).

Chi non sa apprezzare il valore gratuito (cioè di grazia) della bellezza e, in particolare, della bellezza liturgica, difficilmente può compiere un adeguato atto di culto divino. Continua Von Balthasar: «Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare» (Gloria, p. 11).

La bellezza del rito, quando è tale, corrisponde all’azione santificatrice propria della sacra liturgia, la quale è opera di Dio e dell’uomo, celebrazione che dà gloria al Creatore e Redentore e santifica la creatura redenta. Conformemente alla natura composita dell’uomo, la bellezza del rito deve sempre essere corporea e spirituale, investire il visibile e l’invisibile. Altrimenti si cade o nell’estetismo che vuole soddisfare il gusto, o nel pragmatismo che supera le forme alla ricerca utopica di un contatto “intuitivo” col divino. In fondo, in entrambi i casi si scade dalla spiritualità all’emotività.

Il rischio oggi è meno quello dell’estetismo e molto più quello del pragmatismo informale. Abbiamo bisogno al presente non tanto di semplificare e sfrondare, ma di riscoprire il decoro e la maestà del culto divino. La sacra liturgia della Chiesa attrarrà l’uomo del nostro tempo non vestendo sempre più i panni della grigia e anonima quotidianità, cui egli è già ben avvezzo, bensì indossando il manto regale della vera bellezza, abito sempre nuovo e giovane, che la fa percepire come finestra aperta sul Cielo, come punto di contatto con il Dio Uno e Trino, alla cui adorazione essa è ordinata, attraverso la mediazione di Gesù Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote.

 

Fraternamente CaterinaLD

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san Paolo benedetto xvi

La nobile semplicità delle vesti liturgiche

 

La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica come ausiliaria, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria teologica.

Questo insegnamento risuona nell’omelia del Santo Padre Benedetto XVI durante la Santa Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia a Barcellona (7 novembre 2010): «La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo». La bellezza divina si manifesta in modo del tutto particolare nella sacra liturgia, anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le vesti, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse.

Va riletto in merito il quinto capitolo sul «Decoro della celebrazione liturgica» nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove egli afferma che Cristo stesso ha voluto un ambiente degno e decoroso per l’ultima cena, chiedendo ai discepoli di prepararla nella casa di un amico che aveva una «sala grande e addobbata» (Lc 22,12; cf. Mc 14,15). L’enciclica ricorda anche l’unctio di Betania, un evento significativo che precorse l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26; Mc 14; Gv 12). Di fronte alla protesta di Giuda che l’unzione con olio prezioso costituisse uno «spreco» inaccettabile, viste le necessità dei poveri, Gesù, senza diminuire l’obbligo della carità concreta verso i bisognosi, dichiara il suo grande apprezzamento per l’atto della donna, perché la sua unzione anticipa «quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua Persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47). Giovanni Paolo II conclude che la Chiesa, come la donna di Betania, «non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (ivi, n. 48). La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.

In fondo, la cura attenta per le chiese e per la liturgia deve essere un’espressione dell’amore per il Signore. Anche in un luogo dove la Chiesa non ha grandi risorse materiali, non si può tralasciare questo compito. Già un papa importante del Settecento, Benedetto XIV (1740-1758) nella sua enciclica Annus qui (19 febbraio 1749), dedicata soprattutto alla musica sacra, ha esortato il suo clero affinché le chiese fossero ben tenute e dotate di tutte gli oggetti sacri necessari per la degna celebrazione della liturgia: «Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà».

La Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si è pronunciata in modo simile: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri» (Sacrosanctum Concilium, n. 124). Questo passo si riferisce al concetto della «nobile semplicità», introdotto dalla stessa Costituzione al n. 34. Questo concetto pare originare dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), secondo il quale la scultura classica greca era caratterizzata da «nobile semplicità e quieta grandezza». All’inizio del Novecento il noto liturgista inglese Edmund Bishop (1846-1917) descriveva il «genio del Rito Romano» come contrassegnato da semplicità, sobrietà e dignità (cf. E. Bishop, Liturgica Historica, Clarendon Press, Oxford 1918, pp. 1-19). Questa descrizione non è priva di merito, ma bisogna essere attenti alla sua interpretazione: il Rito Romano è «semplice» in confronto agli altri riti storici, come quelli orientali che sono distinti da grande complessità e sontuosità. Però, la «nobile semplicità» del Rito Romano non si deve confondere con una fraintesa «povertà liturgica» ed un intellettualismo che possono condurre alla rovina della solennità, fondamento del Culto divino (cf. il contributo essenziale di san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 64, a. 2; q. 66, a 10; q. 83, a. 4).

Da tali considerazioni risulta evidente che i paramenti sacri debbono contribuire «al decoro dell’azione sacra» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 335), soprattutto «nella forma e nella materia usata», ma anche, pur in modo misurato, negli ornamenti (ivi, n. 344). L’uso delle vesti liturgiche esprime l’ermeneutica della continuità, senza escludere un particolare stile storico. Benedetto XVI fornisce un modello nelle sue celebrazioni, quando indossa sia le casule di stile moderno che, in qualche occasione solenne, le pianete “classiche”, usate anche dai suoi predecessori. Così si segue l’esempio dello scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, paragonato da Gesù ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13,52).


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La musica sacra a servizio della verità

 

Al tempo in cui sant’Agostino scrisse «Qui cantat, bis orat – chi canta prega due volte», si poteva riconoscere facilmente quanto il carattere proprio della musica sacra la rendesse essenzialmente diversa da un semplice canto di gruppo, o da un’elegante performance da parte di un musicista esperto, ma di ambito secolare. La convinzione del fatto che la preghiera raddoppia se cantata invece che recitata, non era basata tanto sui meriti dello sforzo umano, quanto piuttosto sulla necessità di descrivere la dimensione numinosa all’interno della musica sacra, i suoi aspetti emotivi ed artistici, in quanto interfaccia dello scambio tra Dio, Datore di ogni dono, e la risposta d’amore dell’essere umano all’amore onnipotente del Signore.

Un amore più grande cercherà una qualità più alta e non soltanto una quantità più abbondante, e ciò avviene quando la perseveranza di un singolo o di un gruppo ha ottenuto un progresso in ambito musicale e ha sperimentato per ciò stesso la bellezza delle sue consolazioni spirituali. Sacrosanctum Concilium (SC) afferma che «la sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa» (n. 9) e aggiunge molto acutamente che «prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione»; inoltre al n. 10 chiarisce che «la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa». La liturgia, pertanto, è precisamente la fonte della forza necessaria ad ogni opera apostolica. Lì dove la vita liturgica della Chiesa è lasciata al caso, la mancanza di coerenza nei suoi frutti diviene evidente. I musicisti liturgici devono essere valorizzati e supportati in tutti i modi possibili, se essi devono raggiungere un livello tecnico tale che permetta loro di comunicare, attraverso la musica sacra, la relazione con il mistero tremendo che è Dio. È questa percezione della santità di Dio, specificamente tratta dalla musica sacra, che forma un ponte che permette alle persone di far incontrare il loro desiderio di Dio col desiderio di conformare la loro vita alla Sua.

La musica sacra è preghiera ordinata a far elevare i cuori e le menti verso Dio. Al di là delle sfide rappresentate dalle preferenze personali o culturali, lo scopo della musica sacra è sempre la lode di Dio. La partecipazione attiva dell’assemblea dovrebbe essere ordinata a questo fine, in modo che non venga né compromessa la dignità della liturgia, né vengano oscurate le possibilità per un’effettiva partecipazione al culto divino. La actuosa participatio non esclude diversi livelli di partecipazione che, di per se stessi, indicano che la “partecipazione nell’atto” non è diminuita dal fatto che uno potrebbe non stare cantando ogni cosa in ogni momento. La musica sacra deve conformarsi ai testi liturgici e la musica devozionale deve ispirarsi a testi biblici o liturgici, curando in ogni caso di non nascondere le realtà ecclesiologiche della Chiesa. Papa Giovanni Paolo II lo ha spiegato ad alcuni vescovi degli USA, in occasione della loro visita ad limina nel 1998: «La partecipazione piena non significa che ognuno fa ogni cosa, poiché questo porterebbe a clericalizzare il laicato e a laicalizzare il sacerdozio; e questo non è ciò che il Concilio aveva in mente. La liturgia, come la Chiesa, deve essere gerarchica e polifonica, rispettando i diversi ruoli assegnati da Cristo e permettendo a tutte le diverse voci di convergere in un unico grande inno di lode». La musica sacra, perciò, nelle sue espressioni di fede religiosa, fedeltà testuale e misurata dignità, deve diventare un simbolo di comunione ecclesiale.

Il carattere di musica sacra non è diminuito quando essa è semplice, nella misura in cui la sua semplicità è nobile piuttosto che banale. L’uso diffuso, benché proibito, di musica secolare registrata e di canzoni “pop” ai funerali giustifica la presa di distanza di molti fedeli, che si mostrano estranei alla vita musicale della Chiesa. Canti “cultuali” dottrinalmente insipidi, che spesso prendono il posto di tesori liturgici con valore catechetico, con l’effetto che la cultura di musica ecclesiale in molte parrocchie è stata «condotta in un vicolo cieco nel quale si può dire sempre di meno circa il suo quo vadis» – questo è il modo in cui J. Ratzinger descrive la separazione della cultura moderna dalla sua matrice religiosa (A New Song for the Lord. Faith in Christ and liturgy today, Crossroad, New York 1996, p. 120).

Sacrosanctum Concilium ha detto che al canto gregoriano dovrebbe essere riservato «il posto principale» (n. 116) e che l’organo a canne «è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti» (n. 120). Mentre gli effetti delle interpretazioni antropologiche post-moderne sono intolleranti nei confronti di ogni tendenza a rifarsi al passato, le verità senza tempo e universali sono di beneficio alle persone di tutti i tempi e luoghi.

È necessaria un’efficace catechesi liturgica al centro della Nuova Evangelizzazione per favorire l’immersione dei fedeli nei misteri celebrati per ritus et preces – attraverso i riti e le preghiere (cf. SC 48). Il Motu Proprio del 2007, Summorum Pontificum, ha offerto un’opportunità determinante per il revival del canto gregoriano, in quei luoghi in cui esso era stato precedentemente praticato, nonché per il suo inserimento in contesti nei quali ancora non fosse conosciuto. Sarebbe triste, però, se per brama di comprendere tutto, l’uso del canto gregoriano nelle parrocchie fosse limitato alla celebrazione in «forma straordinaria», relegando così l’antico idioma di questo canto alla storia della Chiesa e a simbolo di polarizzazione. Tra le opportunità pastorali, non è chiedere troppo che le persone possano fare esperienza dell’universalità della Chiesa a livello locale, essendo capaci di cantare le parti che loro competono in latino (cf. SC 54). Questa è stata l’intenzione dei padri del Concilio. Con la dovuta moderazione e sensibilità pastorale, questa pratica si unirebbe armonicamente alle ricche espressioni della fede cattolica in vernacolo.

Infine, l’armonia ed ortodossia della musica sacra per un’efficace predicazione del deposito rivelato dipende dalla fedeltà del cristiano alla vita di grazia, in una più grande dedizione al vivere coerente, come la Regola di san Benedetto afferma tanto chiaramente: «Consideriamo, perciò, come dovremmo comportarci alla presenza di Dio e dei suoi angeli e manteniamoci […] in forma tale che le nostre menti siano in accordo con le nostre voci» (19,6-7).


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21/03/2013 21:23

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segni benedetto xvi

I segni esterni di devozione del celebrante

 

La fede nella presenza del Signore nella Chiesa, in specie quella eucaristica, il sacerdote la esprime esemplarmente con l’adorazione che si documenta nella riverenza profonda delle genuflessioni durante la Santa Messa e fuori di essa. Nella liturgia postconciliare sono ridotte al minimo: la ragione addotta è la sobrietà; il risultato è che son diventate rare, oppure sono appena abbozzate. Siamo diventati avari di gesti verso il Signore; però elogiamo ebrei e musulmani per il loro fervore nel modo di pregare.

La genuflessione più delle parole manifesta l’umiltà del sacerdote, che sa di essere solo un ministro, e la sua dignità per il potere di rendere presente il Signore nel sacramento. Ma vi sono altri segni di devozione. Le mani levate in altodal sacerdote stanno ad indicare la supplica del povero e dell’umile: «Ti preghiamo umilmente», si sottolinea nelle preghiere eucaristiche II e III del messale di Paolo VI. L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) stabilisce che il sacerdote, «quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo» (n. 93). L’umiltà dell’atteggiamento e della parola è consona a Cristo stesso, mite e umile di cuore. Egli deve crescere e io diminuire.

Nell’incedere all’altare, il sacerdote deve essere umile, non ostentato, senza indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l’applauso. Invece, deve guardare a Gesù Cristo crocifisso e presente nel tabernacolo: a Lui si fa l’inchino e la genuflessione; poi alle immagini sacre esposte nell’abside dietro o ai lati dell’altare, la Vergine, il santo titolare, gli altri santi. Sono lì per essere contemplate o solo per decorare? È in sintesi la presenza divina. Segue il bacio riverente dell’altare ed eventualmente l’incensazione; il secondo atto è il segno di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l’atto penitenziale, da compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero inginocchiarsi – perché no? – come nella forma straordinaria, imitando il pubblicano gradito al Signore.

Il sacerdote celebrante non alzerà la voce e manterrà un tono chiaro per l’omelia ma sommesso e supplice per le preghiere, solenne se in canto. Si preparerà inchinato «in spirito di umiltà e con animo contrito» alla preghiera eucaristica o anafora: è la supplica per definizione e va recitata in modo che la voce corrisponda al genere del testo (cf. OGMR 38); il celebrante potrebbe pronunziare con tono più alto le parole iniziali dei singoli paragrafi, e recitare il resto in tono sommesso per permettere ai fedeli di seguire e raccogliersi nell’intimo del cuore. Toccherà i santi doni con stupore, e purificherà i vasi sacri con calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà sul pane e sul calice nel pronunziare le parole di Cristo consacrante e nell’invocazione allo Spirito Santo (epiclesi). Li eleverà separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà con raccoglimento e tono orante l’anafora fino alla dossologia, elevando i santi doni in offerta al Padre. Il Padre nostro lo reciterà con le mani alzate e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il sacerdote non lascerà il Sacramento sull’altare per dare la pace fuori del presbiterio, invece frazionerà l’Ostia in modo solenne e visibile, quindi genufletterà davanti all’Eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo Corpo e prezioso Sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l’Ostia per la comunione, supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per primo. Così sarà di esempio ai fedeli.

Dopo la comunione, il silenzio per il ringraziamento si può fare in piedi, meglio che seduti, in segno di rispetto, oppure inginocchiati, se è possibile, come ha fatto fino all’ultimo Giovanni Paolo II, quando celebrava nella sua cappella privata, col capo inchinato e le mani congiunte, al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la vita eterna, come nella formula che accompagna la purificazione dei vasi sacri; molti fedeli lo fanno e ci sono di esempio. La patena o coppa e il calice (vasi che sono sacri per ciò che contengono) per quale ragione non dovrebbero essere «lodevolmente» ricoperti da un velo (OGMR 118; cf. 183) in segno di rispetto – e anche per ragioni d’igiene – come fanno gli orientali? Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione finale, salendo all’altare per baciarlo, ancora alzerà gli occhi al crocifisso e si inchinerà, e genufletterà al tabernacolo. Quindi tornerà in sacristia, raccolto, senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.

Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia, che è una cosa seria, in cui tutto ha un senso per l’incontro col mistero presente di Dio (per approfondire: cf. il mio recente Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme 2010).


***

I segni esterni di devozione da parte dei fedeli

 

 

 

Si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nella liturgia della Nuova Alleanza, ogni azione liturgica, specialmente la celebrazione dell’Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa» (CCC, n. 1097). La Liturgia è quindi “luogo” privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con Colui che Egli ha inviato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3).

 

In questo incontro l’iniziativa, come sempre, è del Signore, che si presenta, nel cuore della Ecclesia, risorto e glorioso. Di fatto, «se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (Benedetto XVI, Ai Vescovi del Brasile [norte 2], 15.04.2010).

 

Cristo precede l’assemblea che celebra. Egli – che agisce inseparabilmente unito allo Spirito Santo – la convoca, la riunisce e la istruisce. Per questo, la comunità, ed ogni fedele che la forma, «deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto» (CCC, n. 1098). Attraverso le parole, le azioni e i simboli che costituiscono la trama di ogni celebrazione, lo Spirito Santo pone fedeli e ministri in relazione viva con Cristo, Parola e Immagine del Padre, in modo che possano innestare nella propria vita il senso di ciò che ascoltano, contemplano e realizzano. Di qui che «ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (CCC, n. 1153).

 

In questo incontro l’aspetto umano è importante, come segnala anche san Josemaría Escrivá: «Io non ho un cuore per amare Dio e un altro per amare le persone della terra. Con lo stesso cuore con il quale ho amato i miei genitori e amo i miei amici, proprio con questo stesso cuore io amo Cristo e il Padre e lo Spirito Santo e Maria Santissima. Non mi stancherò mai di ripeterlo: dobbiamo essere molto umani; perché, altrimenti, non potremo essere neppure divini» (È Cristo che passa, n. 166). Per questo la fiducia filiale deve caratterizzare il nostro incontro con Cristo. Senza dimenticare tuttavia che «questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi» (Benedetto XVI, Santa Messa del Crisma, 20.03.2008).

 

La Liturgia, e in modo speciale l’Eucaristia, «è l’incontro e l’unificazione di persone; la Persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio» (Benedetto XVI, Alla Curia Romana, 22.12.2005). Il singolo e la comunità devono essere consapevoli di trovarsi davanti a Colui che è il tre volte Santo. Di qui la necessaria attitudine, piena di riverenza e di senso di stupore, che sgorga dal sapersi alla presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio intendeva esprimere quando ordinò a Mosè di togliersi i sandali davanti al roveto ardente? Non nasceva da simile consapevolezza l’atteggiamento di Mosè e di Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia? E non ci mostrano questa stessa disposizione d’animo i Magi che «prostratisi, lo adorarono»? I diversi personaggi del Vangelo che incontrano Gesù che passa, che perdona... non ci danno anch’essi un modello esemplare di condotta per i nostri incontri con il Figlio del Dio vivo?

 

In realtà, i gesti corporei esprimono e promuovono «l’intenzione e i sentimenti dei partecipanti» (IGMR, n. 42) e permettono di superare il pericolo che insidia ogni cristiano: l’abitudine. «Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile» (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 3). Per questo, «un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli» (Id., Sacramentum Caritatis, n. 65).

 

Gli atti di devozione si comprendono in modo adeguato in questo contesto di incontro con il Signore, che implica unione, «unificazione [che] può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell’adorazione» (Id., Alla Curia Romana, 22.12.2005).

 

Evidenziamo in primo luogo la genuflessione, «che si fa piegando il ginocchio destro fino a terra, e significa adorazione; perciò è riservata al SS.mo Sacramento e alla santa Croce, dalla solenne adorazione nell’Azione liturgica del Venerdì nella Passione del Signore fino all’inizio della Veglia pasquale» (IGMR, n. 274).

 

L’inchino del capo significa invece riverenza e onore. Nel Credo – eccetto nelle solennità del Natale e dell’Annunciazione (Incarnazione), nelle quali si sostituisce con la genuflessione – compiamo questo gesto pronunciando le mirabili parole: «E per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

 

Da ultimo, vogliamo mettere in luce il gesto di inginocchiarsi al momento della consacrazione e, dove si conserva quest’uso, dal Sanctus fino alla fine della Preghiera Eucaristica, o anche ricevendo la sacra Comunione. Si tratta di segni forti, che manifestano la consapevolezza di stare davanti a Qualcuno di speciale. È Cristo, il Figlio del Dio vivo, e davanti a Lui cadiamo in ginocchio. Nell’inginocchiarsi, il significato spirituale e corporeo formano un’unità, perché il gesto corporeo implica un significato spirituale e, viceversa, l’atto spirituale esige una manifestazione, una traduzione esteriore. Inginocchiarsi davanti a Dio non è qualcosa di “poco moderno”; al contrario corrisponde alla verità del nostro stesso essere. «Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi, ed una fede e una liturgia che non conoscesse più l’inginocchiarsi sarebbe malata in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli Apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso» (J. Ratzinger, Teologia della liturgia [Opera omnia 11], LEV, Città del Vaticano 2010, p. 183).





[Modificato da Caterina63 21/03/2013 23:37]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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DEL SOMMO PONTEFICE

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Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa “verso il popolo”

 


Sin da tempi remoti, la Chiesa ha stabilito segni sensibili, che aiutassero i fedeli ad elevare l’anima a Dio. Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, ha motivato questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un Sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

Uno dei segni più antichi consiste nel volgersi verso oriente per pregare. L’oriente è simbolo di Cristo, il Sole di giustizia. «Erik Peterson ha dimostrato la stretta connessione fra la preghiera verso oriente e la croce, connessione evidente al più tardi per il periodo post costantiniano. [...] Presso i cristiani si diffuse l’uso di indicare la direzione della preghiera con una croce sulla parete orientale nell’abside delle basiliche, ma anche nelle camere private, ad esempio, di monaci ed eremiti» (U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, p. 32).

«Se ci si domanda verso dove guardassero il sacerdote ed i fedeli durante la preghiera, la risposta deve suonare: in alto, verso il catino absidale! La comunità orante durante la preghiera non guardava affatto davanti a sé all’altare o alla cattedra, bensì elevava in alto le mani e gli occhi. Così il catino absidale assurse all’elemento più importante della decorazione della chiesa, nel momento più intimo e santo dell’agire liturgico, la preghiera» (S. Heid, «Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit», Rivista di Archeologia Cristiana 82 [2006], p. 369 [mia trad.]). Quando dunque si trova rappresentato nell’abside Cristo tra gli apostoli e i martiri, non si tratta solo di una raffigurazione, bensì di una sua epifania dinanzi alla comunità orante. La comunità allora «elevava in alto le mani e gli occhi “al cielo”, guardava concretamente a Cristo nel mosaico absidale e parlava con lui, lo pregava. Evidentemente, Cristo così era direttamente presente nell’immagine. Giacché il catino absidale era il punto di convergenza dello sguardo orante, l’arte provvedeva a fornire quanto l’orante necessitava: il Cielo, dal quale il Figlio di Dio appariva alla comunità come da una tribuna» (ibid., p. 370).

Dunque, «pregare e guardare per i cristiani tardoantichi formano un tutt’uno. L’orante voleva non solo parlare, ma sperava anche di vedere. Se nell’abside si mostrava in modo meraviglioso una croce celeste o il Cristo nella sua gloria celeste, allora per ciò stesso l’orante che guardava verso l’alto poteva vedere esattamente questo: che il cielo si apriva per lui e Cristo gli si mostrava» (ibid., p. 374).

Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa «verso il popolo»

Dai precedenti cenni storici, si deduce che la liturgia non viene veramente compresa, se la si immagina principalmente come un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea. Non possiamo qui entrare nei dettagli: ci limitiamo a dire che la celebrazione della S. Messa «verso il popolo» è un concetto entrato a far parte della mentalità cristiana solo in epoca moderna, come dimostrato da studi seri e ribadito da Benedetto XVI: «L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nell’epoca moderna ed è completamente estranea alla cristianità antica. Infatti, sacerdote e popolo non rivolgono l’uno all’altro la loro preghiera, ma insieme la rivolgono all’unico Signore» (Teologia della Liturgia, Città del Vaticano 2010, pp. 7-8).

Nonostante il Vaticano II non avesse mai toccato questo aspetto, nel 1964 l’Istruzione Inter Oecumenici, emanata dal Consilium incaricato di attuare la riforma liturgica voluta dal Concilio, al n. 91 prescrisse: «È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare versus populum». Da quel momento, la posizione del sacerdote «verso il popolo», pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera «orientata» e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocifisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia (cf. M. Gagliardi, Introduzione al Mistero eucaristico, Roma 2007, p. 371).

La visibilità della croce d’altare è presupposta dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (n. 308). Non si precisa, però, se la croce debba stare necessariamente al centro. Qui intervengono pertanto motivazioni di ordine teologico e pastorale, che nel ristretto spazio a nostra disposizione non possiamo esporre. Ci limitiamo a concludere citando di nuovo Ratzinger: «Nella preghiera non è necessario, anzi, non è neppure conveniente guardarsi a vicenda; tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un’applicazione esagerata e fraintesa della “celebrazione verso il popolo”, infatti, sono state tolte come norma generale – persino nella basilica di San Pietro a Roma – le Croci dal centro degli altari, per non ostacolare la vista tra il celebrante e il popolo. Ma la Croce sull’altare non è impedimento alla visuale, bensì comune punto di riferimento. È un’“iconostasi” che rimane aperta, che non impedisce il reciproco mettersi in comunione, ma ne fa da mediatrice e tuttavia significa per tutti quell’immagine che concentra ed unifica i nostri sguardi. Oserei addirittura proporre la tesi che la Croce sull’altare non è ostacolo, ma condizione preliminare per la celebrazione versus populum. Con ciò diventerebbe anche nuovamente chiara la distinzione tra la liturgia della Parola e la preghiera eucaristica. Mentre nella prima si tratta di annuncio e quindi di un immediato rapporto reciproco, nella seconda si tratta di adorazione comunitaria in cui noi tutti continuiamo a stare sotto l’invito: Conversi ad Dominum – rivolgiamoci verso il Signore; convertiamoci al Signore!» (Teologia della Liturgia, p. 536).

 

IL CROCIFISSO AL CENTRO DELL’ALTARE

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 218, pone la domanda: «Che cos’è la liturgia?»; e risponde:

«La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero pasquale. In essa, mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio».

Da questa definizione, si comprende che al centro dell’azione liturgica della Chiesa c’è Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, ed il suo Mistero pasquale di Passione, Morte e Risurrezione. La celebrazione liturgica deve essere trasparenza celebrativa di questa verità teologica. Da molti secoli, il segno scelto dalla Chiesa per l’orientamento del cuore e del corpo durante la liturgia è la raffigurazione di Gesù crocifisso.

La centralità del crocifisso nella celebrazione del culto divino risaltava maggiormente in passato, quando vigeva la consuetudine che sia il sacerdote che i fedeli si rivolgessero durante la celebrazione eucaristica verso il crocifisso, posto al centro, al di sopra dell’altare, che di norma era addossato alla parete. Per l’attuale consuetudine di celebrare «verso il popolo», spesso il crocifisso viene oggi collocato al lato dell’altare, perdendo così la posizione centrale.

L’allora teologo e cardinale Joseph Ratzinger aveva più volte sottolineato che, anche durante la celebrazione «verso il popolo», il crocifisso dovrebbe mantenere la sua posizione centrale, essendo peraltro impossibile pensare che la raffigurazione del Signore crocifisso – che esprime il suo sacrificio e quindi il significato più importante dell’Eucaristia – possa in qualche maniera essere di disturbo. Divenuto Papa, Benedetto XVI, nella prefazione al primo volume delle sue Gesammelte Schriften, si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada la proposta che egli aveva avanzato nel suo celebre saggio Introduzione allo spirito della liturgia. Tale proposta consisteva nel suggerimento di «non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo».

Il crocifisso al centro dell’altare richiama tanti splendidi significati della sacra liturgia, che si possono riassumere riportando il n. 618 del Catechismo della Chiesa Cattolica, un brano che si conclude con una bella citazione di santa Rosa da Lima:

«La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2,5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22) egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (ibid.). Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo (cf. Mt 16,24), poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme (cf. 1 Pt 2,21). Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari (cf. Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24). Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice (cf. Lc 2,35). “Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo” (santa Rosa da Lima; cf. P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668)».


 




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La lingua della celebrazione liturgica

 

La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.

La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42).

L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4).

La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).

Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.

La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art.36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007). Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).

Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare, come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001. Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi anglofoni nel corso di quest’anno.


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21/03/2013 23:57

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L’uso di messalini e foglietti nella Santa Messa

  

L’uso dei messalini da parte dei fedeli laici, almeno nei principali Paesi europei, si pratica da più di due secoli. Nei Paesi che hanno conosciuto persecuzioni religiose, il possesso di libri simili rappresentava, per gli oppositori della fede cattolica, una prova sufficiente di adesione al “papismo”.

Tra il 1788 e il 1792, apparvero traduzioni in italiano della Messa, sia di rito ambrosiano che romano, con l’aggiunta di spiegazioni sulle principali feste, contenute all’interno di una guida alla preghiera per fedeli devoti. Fatti simili avvennero in Francia e Germania e si svilupparono rapidamente, ispirati dalle iniziative liturgiche di Dom Prosper Guéranger, nel sec. XIX. L’uso di messalini favorì un attaccamento alla liturgia che introdusse coloro che sapevano leggere nei meandri della liturgia celebrata in latino. I messalini spesso includevano i testi dei vespri della domenica, che divennero perciò pratica di molte parrocchie, specialmente in Francia, nei Paesi Bassi e in Germania. Durante il sec. XX, questi sussidi furono progressivamente arricchiti con materiale catechetico sull’anno liturgico, commenti alla Sacra Scrittura e testi eucologici.

Al presente, nelle celebrazioni secondo la «forma straordinaria» (o di san Pio V), i messalini sono ritenuti un prerequisito, non solo come mezzo di partecipazione alla conoscenza dei testi eucologici, che spesso sono intenzionalmente letti in silenzio, ma, più importante ancora, come strumenti per seguire i testi della Scrittura, come pure di alcuni riti particolari legati a certi giorni. Essi contengono una versione abbreviata delle rubriche del Messale da altare e forniscono una raccolta di testi e illustrazioni di arte sacra che supportano la preghiera e aiutano a ridurre le inevitabili distrazioni.

Nel contesto della «forma ordinaria» (o di Paolo VI), lo scopo dei messalini in vista della partecipazione alla Messa è meno chiaro. Nonostante molte persone [soprattutto fuori d’Italia, ndt] scelgano di possederne uno, forse ispirati dall’esempio del passato, l’ermeneutica della partecipazione è cambiata. Questo cambiamento ha influenzato i fedeli al punto che molti di loro hanno semplicemente smesso di usarli. Nonostante ciò, il messalino rimane di notevole aiuto per i sordi e per quelle situazioni particolari in cui la proclamazione dei testi è incomprensibile.

La maggioranza dei cattolici si è resa conto che il movimento liturgico del sec. XX si è battuto per la riforma della liturgia. Pochi hanno apprezzato il fatto che, quando Sacrosanctum Concilium (SC) ha invocato la riforma della liturgia, lo ha fatto richiedendo che la riforma si accompagnasse alla promozione del culto liturgico (cf. n. 1). A questo scopo, era necessario che la liturgia comunicasse effettivamente ciò che celebra, sì che le menti e i cuori di coloro che vi prendono parte fossero capaci di articolare ciò che veniva promosso. Questa ermeneutica sorregge la direttiva di SC 11: «I pastori di anime devono vigilare attentamente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso».

Dopo il Vaticano II, i messalini hanno perso molto del loro ruolo nella promozione della vita liturgica, dato che i fedeli hanno imparato le parti della celebrazione loro assegnate e a recitarle insieme «in maniera comunitaria» (SC 21). Le letture vengono adesso proclamate ad alta voce e con il supporto di sistemi di amplificazione, da un ambone rivolto verso l’assemblea. Molti di coloro che un tempo seguivano i testi sui messalini, sono diventati i pionieri del n. 29 di SC, perché, essendo ora lettori, hanno scoperto una nuova e «sincera pietà», trovandosi ad esercitare una vera funzione liturgica. Il clero, incoraggiato da SC 24, ha cominciato a predicare in modo ideale sulla Scrittura proclamata, col risultato che dai sermoni si è passati alle omelie, radicate nella predicazione liturgica e destinate a rendere fruibile la parola di Dio proclamata. Di conseguenza, nella misura in cui diventavano familiari con i riti, i fedeli avevano sempre meno bisogno di leggere materiale di supporto, che desse loro indicazioni strutturali. Essi avrebbero perciò in gran parte messo da parte i loro messalini. Ironicamente, però, l’uso di messalini e foglietti sta per ricominciare, dato che le parrocchie dovranno presto avere a che fare con le nuove traduzioni della terza edizione del Messale Romano.

È deludente che molte parrocchie si siano servite per tanti anni di foglietti preparati di settimana in settimana. Il disordine da essi generato non solo diminuisce prepotentemente il valore di un armonico spazio di raccoglimento all’interno dell’edificio sacro; ma in se stessi si presentano spesso anche mal redatti. Alcuni editori di foglietti aggiungono versi di canti del tutto irrilevanti rispetto ai testi liturgici. La fiducia riposta in questi canti ha di certo aiutato ad evitare di confrontarsi con la sfida, che si presenta in maniera molto pungente, riguardo al fatto che oggi si canta di tutto, ma si sono persi o scartati i testi delle antifone di ingresso e di comunione. Inoltre, la dignità riconosciuta alle Scritture non è affatto valorizzata quando l’assemblea gira la pagina del foglietto, magari a metà della seconda lettura.

Resta da vedere se il rinnovamento nella pubblicazione dei messalini per la «forma ordinaria», alla luce delle prossime nuove traduzioni, inaugurerà un nuovo interesse verso un loro uso diffuso a lungo termine. Ciò che è certo, è che queste pubblicazioni necessitano di essere imbevute dello spirito della liturgia e di promuovere la conformità a ciò che la Chiesa richiede da noi, in questa rinnovata opportunità per un’autentica catechesi sulla Messa, offerta dalle suggestioni provenienti dalle nuove traduzioni. Affinché i fedeli siano ricondotti ad una vera «piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche» (SC 14), c’è bisogno che coloro cui sono affidate le migliorie del nuovo Messale «imparino ad osservare le leggi liturgiche» (SC 17). Allora, i messalini, e ogni altro materiale supplementare, risplenderà come faro di unità, ossia di una liturgia celebrata, fedelmente riformata e promossa in maniera tale, da essere «insegnata sia sotto l’aspetto teologico che sotto l’aspetto storico, spirituale, pastorale e giuridico» (SC 16).




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 23:59

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

Il sacro silenzio nella celebrazione liturgica

 

«Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa… il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo» (cf. Sap18,14-15). Così un’antifona nell’ottava del Natale ricorda, con straordinaria libertà, come nella notte dell’Esodo sia avvenuta la liberazione dell’uomo e l’affrancamento dal peccato. Per riconoscerlo presente nel mondo, anzi nell’opera pubblica che è la liturgia – sacra proprio a motivo della Presenza – è necessario «silere», cioè tacere. Bisogna tacere per ascoltare, come all’inizio di un concerto, altrimenti il culto, ossia la relazione coltivata, profonda con Dio, non può incominciare, non si può «celebrare» Lui.

Ciò è indispensabile per pregare: «Entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6). La camera è l’anima, ma anche il tempio, dicono i Padri. Quale segreto può essere mantenuto senza silenzio? Il segreto della coscienza in cui si può udire la voce di Dio, nella notte silenziosa come per Samuele. Ci vuole silenzio perché Dio possa parlare e noi ascoltarlo. Per questo andiamo in chiesa, per celebrare il culto divino, sacro perché scende dal silenzio eterno nel tempo così rumoroso, per placarlo e orientarlo all’Eterno. Non c’è dubbio che la posizione frontale del sacerdote all’altare verso il popolo induca alla distrazione lui e i fedeli, disorientando la direzione della preghiera: imitiamo il Santo Padre che guarda al Crocifisso.

Il silenzio va recuperato, limitando al minimo le parole da parte di chi deve dare indicazioni preparatorie alla celebrazione. I sacerdoti, le religiose addette al servizio, i ministri limitino parole e movimenti, perché sono alla presenza di Colui che è la Parola. Questo silenzio è chiesto all’inizio della Santa Messa per l’esame di coscienza, pur breve, onde riconoscere i nostri peccati «prima di celebrare i Santi Misteri».

Dopo l’invito a pregare con l’Oremus, il sacerdote si raccoglie in silenzio, per pregare e per dare il tempo ai fedeli di fare altrettanto e unire così la propria intenzione a quell’orazione che il sacerdote pronuncerà «raccogliendo» – perciò si chiama orazione «colletta» – e presentandola al Signore. Con questa orazione, comincia nella Messa la funzione sacerdotale di mediazione tra il popolo santo e il Signore.

Dalla preghiera a Dio si passa all’ascolto di Dio. Il Sinodo sulla Parola di Dio non ha trascurato di insistere sul silenzio come spazio privilegiato per riceverla. I misteri di Cristo – il Papa lo ricorda nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini – sono legati al silenzio, come dicono i Padri della Chiesa. Così, più che moltiplicare gli incontri biblici, bisogna aver «realmente a cuore l’incontro personale con Cristo che si comunica a noi nella sua Parola» (n. 73). La liturgia della Parola è tale perché avviene nel silenzio sacro.

L’Ordo Missae suggerisce, a questo punto, che vi sia stata o no l’omelia, ancora silenzio. Sembra un esercizio «all’incontro spoglio, silenzioso, austero… al colloquio spontaneo, lieto, adorante con la divina Maestà, come trascinati nella scia della preghiera stessa di Cristo» (Paolo VI, Discorso agli Abati della Confederazione Benedettina, 30 Settembre 1970, n. 3). È un invito ai monaci: ma ogni cristiano deve essere in qualche misura monaco, cioè abitare da solo col Signore. La liturgia sacra abilita a questo. La Regola benedettina esorta il monaco a far sì che la sua mente sia in armonia con la voce (cf. 19,7): «Sembra una cosa semplicissima, diremmo naturale – sottolinea ancora Paolo VI – ma l’avere questa armonia interna tra la voce e la mente, è una delle cose più difficili» (Discorso agli Abati, cit.). Proprio la dinamica del rapporto tra Dio che parla e il fedele che ascolta e risponde con il salmo o la preghiera – secondo la classica tripartizione conservatasi nella settimana santa: lettura, responsorio, orazione – costituisce l’esercizio necessario, la ruminatio dei Padri, per assimilare e far sì che voce e mente si armonizzino. Questo è particolarmente utile in vista dell’offerta di sé, dei nostri corpi in sacrificio spirituale «come culto secondo la ragione», che per questo «rinnova la mente» al fine di distinguere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12,1-2). Il rinnovamento della mente è il giudizio secondo Dio e non secondo il mondo. La liturgia deve favorire la conversione dalla mentalità mondana e carnale, che tende sempre ad infeudare chierici e laici. Rinnovare la mente significa guardare la realtà e non inseguire le proprie idee – l’ideologia –, perché Egli fa nuove tutte le cose.

Il silenzio può riaffiorare all’offertorio, ove non è necessario né obbligatorio che le formule previste di offerta siano dette ad alta voce. Si potrebbe poi suggerire che, in futuro, la Preghiera Eucaristica, anche nella Messa di Paolo VI, possa essere recitata submissa voce, quasi in silenzio, per favorire il raccoglimento: come si faceva e si continua a fare nella celebrazione in «forma straordinaria». È sempre necessario sentire parole così arcane, in specie quelle della consacrazione? Se il sacerdote abbassasse il tono della voce, non reciterebbe, ma pregherebbe davvero lui e favorirebbe il raccoglimento e l’unione dei fedeli alla sua preghiera di mediazione sacerdotale. Analogo silenzio è raccomandato specialmente al ringraziamento dopo la Comunione.

Ma, al di là dei momenti specifici, è tutta la liturgia, anzi la chiesa stessa come spazio sacro, che necessita di recuperare il clima di silenzio. Tale esigenza portava a preordinare spazi di raccordo come narteci e atrii per passare dall’esterno all’interno, dalla dispersione al raccoglimento. Non servirebbe anche ai nostri giorni? «La capacità di interiorità, una maggiore apertura dello spirito, uno stile di vita che sappia sottrarsi a quanto è chiassoso e invadente, devono tornare ad apparirci mete da annoverare tra le nostre priorità. In Paolo troviamo l’esortazione a rafforzarsi nell’uomo interiore (Ef 3,16). Siamo onesti: oggi v’è una ipertrofia dell’uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 167).

Ci avvolga in questa Quaresima il sacro silenzio!

l silenzio in chiesa e in sagrestia prima e dopo la celebrazione

 

Sin dalle origini della Chiesa, si incontrano testimonianze che mostrano come la Celebrazione Eucaristica esiga necessariamente una preparazione previa, non solo da parte del sacerdote celebrante, bensì di tutto il popolo fedele (cf. J.A. Jungmann, Missarum sollemnia, p. 227). A questo riguardo, afferma Guardini: «A mio avviso la vita liturgica inizia con il silenzio. Senza di esso tutto appare inutile e vano […]. Il tema del silenzio è molto serio, molto importante e purtroppo molto trascurato. Il silenzio è il primo presupposto di ogni azione sacra» (Il testamento di Gesù, p. 33).

La Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR) nella editio typica tertia include per la prima volta al n. 45 un riferimento a ciò che precede la celebrazione: «Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione».

Pertanto, conviene che tutti osservino il silenzio: sia il celebrante, che in questo momento preparatorio deve ricordarsi di nuovo che si mette a disposizione di Colui che «è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2Cor 5,15); sia i fedeli che, prima che inizi la celebrazione, devono prepararsi per l’incontro con il loro Signore. Cristo non li convoca solo per parlare loro della sua futura Passione, morte e risurrezione; bensì il suo mistero pasquale si fa realmente presente nella Santa Messa, perché possano partecipare di Lui.

In questa linea, annota il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’assemblea deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto. Questa preparazione dei cuori è opera comune dello Spirito Santo e dell’assemblea, in particolare dei suoi ministri. La grazia dello Spirito Santo cerca di risvegliare la fede, la conversione del cuore e l’adesione alla volontà del Padre. Queste disposizioni sono il presupposto per l’accoglienza delle altre grazie offerte nella celebrazione stessa e per i frutti di vita nuova che essa è destinata a produrre in seguito» (n. 1098).

In questo contesto di preparazione alla celebrazione, i ministri hanno un ruolo imprescindibile ed il silenzio occupa un luogo preminente. Silenzio che non è una semplice pausa, nella quale ci assalgono mille pensieri e desideri, bensì quel raccoglimento che ci dà pace interiore, che ci permette di riprendere respiro e che svela ciò che è vero. Ma perché il silenzio è parte della celebrazione? In primo luogo perché esso favorisce il clima di preghiera che deve caratterizzare qualunque azione liturgica. La celebrazione è preghiera, dialogo con Dio, e il silenzio è il luogo privilegiato della rivelazione di Dio. La permanenza nel deserto, ed il silenzio che spontaneamente viene evocato da questa immagine, segnano tutta la relazione tra Israele e il suo Signore. La sagrestia e la navata della chiesa, nei momenti che precedono la celebrazione, dovrebbero essere quel luogo deserto nel quale Gesù si ritira prima degli avvenimenti più importanti. Il deserto è il luogo di silenzio, della solitudine; esso suppone un allontanarsi, l’abbandonare per un momento le occupazioni quotidiane, il rumore, la superficialità.

Come ricordava il cardinale Ratzinger, predicando gli esercizi spirituali a Giovanni Paolo II, «tutte le cose grandi iniziano nel deserto, nel silenzio, nella povertà. Non si può partecipare alla missione di Gesù, alla missione del Vangelo, senza partecipazione all’esperienza del deserto, della sua povertà, della sua fame […]. Chiediamo al Signore che ci conduca, che ci faccia trovare quel silenzio profondo in cui abita la sua parola»(Il cammino pasquale, p. 10).

In secondo luogo, la presenza del silenzio nell’azione liturgica si deve al fatto che l’incontro con Dio si rende possibile e anche richiede uno spirito di conversione continua, che deve caratterizzare la vita di ogni fedele. Il silenzio è perciò l’ambiente adeguato affinché tale processo di trasformazione abbia luogo. Di fatto, «non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla Liturgia Eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita. Favoriscono tale disposizione interiore, ad esempio, il raccoglimento ed il silenzio, almeno qualche istante prima dell’inizio della liturgia, il digiuno e, quando necessario, la confessione sacramentale. Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione» (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 55).

Come sempre, dobbiamo “specchiarci” in Gesù: Egli cerca il silenzio per entrare in dialogo con il Padre suo: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). Per questo, «dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata» (Giovanni Paolo II, Orientale Lumen, n. 16). Ne ha bisogno ogni individuo, sacerdote o fedele laico, che spesso non riesce a fare silenzio per paura di incontrare se stesso, di scoprirsi, di sentire il vuoto che si trasforma in domanda di senso. Ne ha bisogno anche la comunità riunita, per saper lasciare spazio alla presenza di Dio, evitando così di celebrare se stessa. In una società che vive in modo sempre più frenetico, spesso stordita dai rumori e dispersa nell’effimero, è di vitale importanza riscoprire il valore del silenzio.

Il sacro silenzio dovrebbe essere osservato anche al termine della celebrazione. Come ricorda la IGMR ancora al n. 45, il silenzio dopo la comunione favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. E appare logico che lo stesso silenzio che precede e prepara la Messa conduca al silenzio che ringrazia e prolunga nelle opere ciò che si è vissuto in essa. Si comprende allora perché san Josemaría Escrivá de Balaguer ci ricordi: «L’amore per Cristo, che si offre per noi, ci fa trovare, al termine della Messa, alcuni minuti per un ringraziamento personale, intimo, che prolunghi nel silenzio del cuore l’azione di grazie dell’Eucaristia. [...] Se si vive bene la Messa, come è possibile poi, per tutto il resto del giorno, non avere il pensiero in Dio, non aver la voglia di restare alla sua presenza per lavorare come Egli lavorava e amare come Egli amava?» (È Gesù che passa, nn. 92 e 154).


Fraternamente CaterinaLD

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22/03/2013 00:05

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DEL SOMMO PONTEFICE

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Gesti e movimenti del sacerdote durante la celebrazione

 

La Sacrosanctum Concilium insegna che nella liturgia «la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi» (n. 7). Il fatto che il culto divino sia contrassegnato dalla presenza di segni percepibili coi sensi esterni si spiega in base alla natura dell’uomo, essere corporeo-spirituale. Così annota il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l’uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l’uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio» (n. 1146). In queste brevi note, vogliamo soffermarci sui segni liturgici della gestualità e del movimento, limitandoci a considerare il solo sacerdote celebrante.

È noto che la forma straordinaria del Rito Romano fornisce indicazioni precise e di dettaglio sui gesti e i movimenti che il sacerdote deve compiere nella liturgia. L’Ordinamento del Messale di Paolo VI è al riguardo più sobrio, anche se non mancano numerose indicazioni. Proponiamo alcuni esempi (corsivi nostri):

– «Se si usa l’incenso, prima di incamminarsi, il sacerdote pone l’incenso nel turibolo e lo benedice con un segno di croce senza dire nulla» (IGMR, n. 120).

– «Arrivati all’altare, il sacerdote e i ministri fanno un inchino profondo» (n. 122).

– «Il sacerdote invita il popolo alla preghiera, dicendo a mani giunte: “Preghiamo”. […] Poi il sacerdote, con le mani allargate, dice la colletta» (n. 127).

– «Mentre si canta l’Alleluia o un altro canto, se si usa l’incenso, il sacerdote lo amministra e lo benedice. Quindi, a mani giunte, e inchinato profondamente davanti all’altare, dice sottovoce: “Purifica il mio cuore”» (n. 132).

– «All’ambone il sacerdote apre il libro e, a mani giunte, dice: “Il Signore sia con voi”, mentre il popolo risponde: “E con il tuo spirito”; quindi: “Dal Vangelo secondo N.”, tracciando con il pollice il segno di croce sul libro e su di sé, in fronte, sulla bocca e sul petto [...]. Il sacerdote bacia il libro, dicendo sottovoce: “La parola del Vangelo cancelli i nostri peccati”» (n. 134).

– «Deposto il calice sull’altare, il sacerdote, inchinato profondamente, dice sottovoce: “Umili e pentiti”» (n. 143).

– «Poi, rivolto all’altare, il sacerdote dice sottovoce: “Il Corpo di Cristo mi custodisca per la vita eterna”, e con riverenza assume il Corpo di Cristo. Quindi prende il calice, dicendo sottovoce: “Il Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna”, e con riverenza assume il Sangue di Cristo» (n. 158).

– «Il sacerdote, allargando le mani, saluta il popolo, dicendo: “Il Signore sia con voi”[…]. Il sacerdote, congiungendo di nuovo le mani subito, mettendo la mano sinistra sul petto e alzando la destra, soggiunge: “Vi benedica Dio onnipotente”, e, tracciando il segno di croce sopra il popolo, prosegue: “Padre e Figlio e Spirito Santo”» (n. 167).

Tra i testi qui riportati, più d’uno fa riferimento al gesto di inchinarsi profondamente. In effetti, l’Ordinamento del Messale individua due tipi di inchino, quello fatto solo col capo e quello profondo di tutto il corpo:

«a) L’inchino del capo si fa quando vengono nominate insieme le tre divine Persone; al nome di Gesù, della beata Vergine Maria e del Santo in onore del quale si celebra la Messa. b) L’inchino di tutto il corpo, o inchino profondo, si fa: all’altare; mentre si dicono le preghiere “Purifica il mio cuore” e “Umili e pentiti”; nel Simbolo [Credo] alle parole: “E per opera dello Spirito Santo”; nel Canone Romano, alle parole: “Ti supplichiamo, Dio onnipotente”. Il diacono compie lo stesso inchino mentre chiede la benedizione prima di proclamare il Vangelo. Inoltre il sacerdote si inchina leggermente, alla consacrazione, mentre proferisce le parole del Signore» (n. 275).

Si trovano ulteriori precisazioni nel Cerimoniale dei Vescovi, che ad esempio indica il modo in cui si tengono le mani (leggermente elevate ed allargate) durante le orazioni (n. 104); o specifica il modo esatto di tenere le mani giunte (n. 107 nota 80). Si noti che i testi, sia del Messale che del Cerimoniale, parlano di «mani» e non di «braccia» allargate, quindi il gesto è compiuto dalle sole mani (con inevitabile movimento degli avambracci), mentre le braccia devono rimanere aderenti al corpo.

Da questi pochissimi cenni, del tutto insufficienti a trattare un tema che è ben più importante di quanto non possa apparire, emerge quanto meno l’indicazione che il sacerdote non può muoversi e gesticolare a suo piacimento durante il rito liturgico, così come egli non può, ad esempio, vestirsi come vuole. Come egli si riveste di abiti sacerdotali fissati dalla Chiesa, che indicano il suo essere strumento di Cristo, il celebrare in persona Christi, così dovrà conformarsi alla gestualità fissata dalla Chiesa per lo svolgimento del rito. Quando il sacerdote celebra la sacra liturgia, non deve impersonare se stesso – quindi non può essere disinvolto e spontaneo nel portamento. Egli rappresenta al vivo Cristo e la Chiesa e deve perciò esprimere la loro gestualità più che la sua. Non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui. Ciò si rende visibile anche attraverso quei segni sensibili che sono i gesti e i movimenti compiuti nella liturgia.

È altresì ovvio che l’attenzione alla corretta gestualità liturgica non deve scadere nell’estetismo o in una sorta di “fariseismo” liturgico. Ma questo non rappresenta un rischio ai nostri giorni, in cui molto più frequente è la tentazione di celebrare “come viene naturale”. Spesso non si seguono le indicazioni dei libri liturgici – anche perché non sono conosciute – e si fa strada una gestualità eccessiva, ridondante, in certi casi quasi teatrale. Insegna Benedetto XVI: «La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune» (Sacramentum Caritatis, n. 40).

Di qui il dovere per ogni sacerdote di conoscere bene i praenotanda dei libri liturgici anche riguardo a questi aspetti, per nulla secondari. Compiere nel modo giusto i gesti e i movimenti della liturgia esprime visibilmente nel corpo – e al tempo stesso accompagna e sostiene – la lode e adorazione prestate dall’anima. Il buon esempio dei sacerdoti celebranti sarà di enorme aiuto a tutta l’assemblea radunata per il culto divino.


Gesti e movimenti dei fedeli durante la celebrazione

  

I gesti e movimenti dei fedeli durante la celebrazione della Santa Messa appartengono a quegli aspetti materiali del culto divino che non si possono trascurare. San Tommaso d’Aquino è molto chiaro nell’osservare che dobbiamo rendere onore a Dio non solo in spirito. Siccome gli uomini sono creature corporee, i sensi esterni sono sempre coinvolti. Nella sacra liturgia è necessario «servirsi di cose materiali come di segni, mediante i quali l’anima umana venga eccitata alle azioni spirituali che la uniscono a Dio» (S.Th. IIa IIae q. 81 a. 7).

Abbiamo quindi bisogno di segni sensibili per purificare il nostro cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile. L’Aquinate riconosce che il fine della liturgia è l’offerta spirituale compiuta da coloro che partecipano ad essa. Ma la costituzione umana è tale, che l’espressione interna dell’anima cerca allo stesso tempo una manifestazione corporea. D’altro canto la vita interna è sostenuta dagli atti esterni. Per provvidenziale volontà di Dio, siamo chiamati ad offrirgli i segni visibili della nostra offerta spirituale, perché, in quanto creature corporee, comunichiamo con segni esterni. Il Doctor communis osserva: «Queste cose esterne non vengono offerte a Dio, come se Egli ne avesse bisogno […], ma come segni degli atti interni spirituali» (S.Th. IIa IIae q. 81 a. 7 ad 2).

In questa prospettiva, si mette in luce anche l’importanza dei gesti ed atteggiamenti nella liturgia. Tali consuetudini fanno parte della tradizione viva del popolo di Dio e sono trasmesse da una generazione all’altra insieme ai contenuti della fede. Dal canto suo, la Chiesa, come Madre e Maestra, interviene a volte, dando indicazioni più precise per educare i fedeli allo spirito della liturgia.

La normativa per la forma ordinaria della Santa Messa di Rito Romano si trova nell’attuale Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 43, dove viene spiegato che il giusto atteggiamento dei fedeli nelle varie parti della Celebrazione eucaristica è segno di unità e favorisce la partecipazione all’azione liturgica:

I fedeli stiano in piedi dall’inizio della Messa fino alla conclusione dell’orazione colletta, durante l’Alleluia, la proclamazione del Vangelo, il Credo e la preghiera universale; si alzino all’invito Orate, fratres prima dell’orazione sulle offerte e rimangano in piedi fino al termine della Messa, fatta eccezione di quanto è detto in seguito.

I fedeli stiano seduti per le letture prima del Vangelo e il salmo responsoriale, all’omelia e durante l’offertorio; possono stare seduti anche durante il sacro silenzio dopo la Sacra Comunione, se viene osservato.

I fedeli s’inginocchino alla consacrazione, se non sono impediti da un motivo ragionevole, come il cattivo stato di salute o la ristrettezza del luogo. Dove esiste il costume che i fedeli rimangano in ginocchio dal Sanctus fino alla dossologia della Preghiera eucaristica e prima della Sacra Comunione, all’Ecce Agnus, si conservi lodevolmente tale uso.

Secondo l’Ordinamento Generale, spetta alle Conferenze dei Vescovi, con la recognitio della Sede Apostolica, adattare queste norme secondo le sensibilità delle culture e tradizioni locali. Tuttavia, bisogna stare attenti che i gesti corrispondano sempre al vero senso di ciascuna parte della liturgia.

Un gesto da rivalutare in non poche celebrazioni liturgiche odierne è l’inginocchiarsi. L’adorazione inizia dal riconoscimento di Dio e della sua sacra presenza, che sollecita l’uomo ad una risposta di riverenza e devozione. Nell’ambito biblico, il gesto più caratteristico dell’adorazione è quello di prostrarsi o di mettersi in ginocchio davanti alla presenza di Dio (cf., ad esempio, 1Re8,54-55; Lc5,8; 8,41; 22,41; Gv 11,32; Atti7,60; Ap 5,8 e 14; 19,4; 22,8). I primi cristiani hanno recepito questa prassi, come attestano Tertulliano e Origene nel terzo secolo.

La ben nota prescrizione del canone ventesimo del primo Concilio di Nicea (325), di stare in piedi per la preghiera liturgica, ad imitazione del Risorto,si riferisce specificamente alle domeniche e al tempo pasquale, mentre nei giorni di digiuno e nei giorni stazionali si pregava in ginocchio, così come attestato riguardo alla preghiera personale quotidiana. D’altronde, già in una lettera scritta nel 400, sant’Agostino dichiarava di non sapere se la prescrizione di Nicea fosse una consuetudine propria a tutta la Chiesa (cf. Ep. 55 ad Ianuarium, XVII, 32).

Durante i secoli, la Chiesa ha sempre ricercato espressioni rituali il più adeguate possibile, dando così una testimonianza visibile della sua fede e del suo amore verso il culto divino e in particolare l’Eucaristia. Così si è sviluppata in Occidente la consuetudine che i fedeli si inginocchino per il Canone della Messa, o almeno nelle sue parti centrali: la consacrazione. In tal modo, si è anche diffusa la prassi di ricevere la Sacra Comunione in ginocchio. Per fornire un esempio a tutta la Chiesa, il Santo Padre Benedetto XVI, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, ha cominciato a distribuire la Sacra Comunione direttamente sulla lingua ai fedeli che la ricevono inginocchiati.

In risposta ad alcune difficoltà che sono emerse nella vita liturgica, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ribadisce che «la pratica di inginocchiarsi per la Sacra Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (Lettera This Congregation, 1 luglio 2002: trad. it. Enchiridion Vaticanum vol. XXI, p. 471 n. 666). Il Dicastero chiarisce che non è lecito rifiutare la Sacra Comunione per la semplice ragione che i comunicandi scelgono di riceverla in ginocchio (cf. Istruzione Redemptionis Sacramentum, n. 91).


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22/03/2013 00:06

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DEL SOMMO PONTEFICE

Il modo di scambiare il segno di pace nella S. Messa

  

«Quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi… sia per gli altri… Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio» (Giustino di Nablus, Apologia I, 65; 67, cit. in CCC, n. 1345). Queste parole di san Giustino, scritte attorno al 155, presentano per la prima volta il segno di pace durante la Santa Messa.

Un primo aspetto che richiama l’attenzione, nel leggere quest’antichissima testimonianza, è il momento in cui tale gesto ha luogo all’interno della celebrazione: a conclusione della Liturgia della Parola e prima della presentazione dei doni. Un secondo punto che possiamo evidenziare è il modo in cui esso è realizzato: «Ci salutiamo l’un l’altro con un bacio». Questa espressione ci collega subito con diversi brani del Nuovo Testamento, in cui si parla del salutarsi a vicenda con il bacio santo, il bacio d’amore (cf. tra gli altri: Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Ts 5,26; 1Pt 5,14). In effetti, per vari secoli il modo di scambiare la pace è stato l’oscolo, il bacio. Esso veniva scambiato tra fedeli dello stesso sesso, esclusi – secondo l’avvertenza della Tradizione Apostolica – i catecumeni. In questo modo veniva dunque svolto lo scambio della pace tra i fedeli nella Chiesa antica. Più tardi, la pace partirà dal celebrante e si trasmetterà secondo l’ordine gerarchico (così pare attestato già nell’Ordo Romanus I). Nel secolo IX; il celebrante bacia l’altare, come segno della pace comunicata da Cristo, e la trasmette al diacono; da questi passa al suddiacono e di seguito se la scambiano anche alcuni membri del clero. In certe occasioni, alcuni fedeli baciavano il «portapace», di cui parleremo più avanti.

Non è chiaro neppure per gli studiosi in che momento il bacio fu sostituito dall’abbraccio, ma sembra certo che in tutte le liturgie, occidentali e orientali, si nota un processo di stilizzazione del gesto in sé. Per quanto riguarda la liturgia latina, il bacio sulla bocca – attestato in innumerevoli documenti fino al Pontificale di Patrizio Piccolomini (+ 1496) e Giovanni Burcardo (+ 1506) – si alterna con il bacio sulla spalla, che si incontra a volte nel secolo X e nel Pontificale di Durando, di fine secolo XIII. Nell’ultimo decennio del secolo XV, si introduce anche il bacio sulla guancia. Un ultimo anello di questo processo di stilizzazione del gesto di pace si incontra nel secolo XIV, nel quale alcuni messali, per esempio quello di Bayeux, menzionano la prescrizione di dare la pace mediante uno strumento apposito, l’«osculatorio». Questo strumento di trasmissione della pace era a volte una patena, altre un evangeliario, ma più di frequente una «tabula pacis».

È nel Messale di san Pio V, e in particolare nel Ritus servandus in celebratione Missae (X, 3 [1962]), che si trova l’istituzionalizzazione dell’«osculatorio»: «... se sta per dare la pace, [il sacerdote] bacia l’altare nel mezzo e lo strumento della pace che gli ha dato il ministro che sta inginocchiato alla sua destra, ossia al lato dell’Epistola, e dice: “La pace sia con te”. Il ministro risponde: “E con il tuo spirito”. Se non ci fosse chi riceve con lo strumento in questo modo la pace dal celebrante, la pace non si dà …». Per quanto attiene alla Messa solenne, i ministri – dice il Messale del 1570 – accostano mutuamente la guancia sinistra, senza toccarsi, abbracciandosi a una certa distanza. Come precisava concretamente la Sacra Congregazione dei Riti, questo abbraccio consiste nel fatto che «il diacono pone le sue braccia sotto le braccia del celebrante» (SRC 2915, 7, Tuden., 23 Maggio 1846, t. 2, p. 337).

Nella editio typica tertia del Messale Romano (2008), viene lasciato libero il modo di scambiarsi la pace e si delega alle Conferenze Episcopali la facoltà di stabilire «il modo di compiere questo gesto di pace secondo l’indole e le usanze dei popoli» (IGMR n. 82, cf. n. 390). Però si ricorda che conviene «che ciascuno dia la pace soltanto a chi gli sta più vicino, in modo sobrio » (IGMR, n. 82). Il celebrante può dare la pace ai ministri, rimanendo in presbiterio. Lo stesso farà nel caso in cui voglia dare la pace ad alcuni dei fedeli (cf. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 72).

Benedetto XVI ricorda come «non tolga nulla all’alto valore del gesto la sobrietà necessaria a mantenere un clima adatto alla celebrazione, per esempio facendo in modo di limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino» (Sacramentum Caritatis,n. 49). Questa precisazione risulta molto opportuna, perché bisogna ricordare che la pace cristiana ha la sua fonte in Dio per mezzo di Gesù Cristo (cf. Gv 14,27; 16,33; Rm 1,7; Ef 2,14; Fil 4,7; Col 3,15, ecc.). Il termine pace va inteso come compendio di ogni bene, dono messianico per eccellenza e frutto dello Spirito Santo.

È certo che il gesto di pace possiede anche una chiara dimensione orizzontale, che notavamo già in san Giustino; però sin da tempi molto antichi si trova in esso una forte dimensione verticale. Non è una semplice pace umana già conquistata, o che può essere raggiunta mediante l’amicizia o la solidarietà. Si tratta invece della pace di Cristo risorto – di Lui che è la nostra pace – comunicata attraverso il suo Spirito, artefice della pace dei cuori di ognuno dei fedeli nella Chiesa. In realtà, non ci può essere pace che non abbia la sua origine nella Trinità. «L’assemblea liturgica riceve la propria unità dalla “comunione dello Spirito Santo” che riunisce i figli di Dio nell’unico Corpo di Cristo. Essa supera le affinità umane, razziali, culturali e sociali» (CCC, n. 1097).

Sarebbe auspicabile che si tornasse di nuovo alle intuizioni di alcuni protagonisti del movimento liturgico: recuperare il gesto di pace tra i fedeli, il quale non procede però se non da Dio stesso, come simboleggiano il bacio dell’altare e l’ordine gerarchico nella sua trasmissione. Così Pius Parsch ricordava: «Il bacio di pace è soprattutto un sublime simbolo della comunione dei fedeli tra di loro e con Cristo. Giacché il bacio di pace proviene dall’altare, che rappresenta Cristo, è Cristo pertanto che bacia coloro che partecipano al Santo Sacrificio; e questo bacio si trasmette da uno all’altro facendo di tutti i fedeli un’unità intima che incorpora Cristo» (Sigamos la Santa Misa, L. Gili, Barcelona 1954, p. 128). E Romano Guardini insisteva sulla necessità della trasmissione «per ordinem» del rito della pace, come si prescriveva nel Messale del 1570, poiché ciò permette di sottolineare che nella liturgia la verticalità si sovrappone all’orizzontalità: ciò che ci mantiene uniti agli altri è la presenza di Dio» (Cf. R. Guardini, El espíritu de la liturgia, Cuadernos Phase 100, Barcelona 1999, p. 34).


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/03/2013 00:08

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DEL SOMMO PONTEFICE

Il velo del calice e la benedizione dell’incenso

 

Si odono di frequente richiami a volgere l’attenzione all’Oriente cristiano, intanto sono omessi nel rito romano elementi che lo richiamano, come velare il calice e benedire l’incenso. La presenza di tende e veli nella liturgia è riconducibile al culto giudaico; per esempio il doppio velo all’ingresso del santuario nel tempio di Gerusalemme, segno di riverenza verso il mistero della Shekina, la presenza divina. Così per l’incenso e gli altri aromi che bruciavano sull’altare apposito antistante, al fine di elevare visibilmente l’anima alla preghiera, secondo le parole del salmo 140: Dirigatur, Domine, oratio mea, sicut incensum, in conspectu tuo – La mia preghiera stia davanti a te come incenso, o Signore. Nello stesso tempo il profumo copriva l’effetto sgradevole degli odori degli animali immolati e del sangue dei sacrifici.

Il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani, impure, le cose sacre: un simbolo dell’esigenza di purezza spirituale per avvicinarsi a Dio. Se la liturgia è fatta di simboli, questo è uno dei più importanti. I veli coprono le mani dei ministri, come gli angeli offerenti rappresentati nell’arte bizantina e romanica. In linea di principio, i vasi sacri, quando non in uso, sono sempre velati per alludere alla ricchezza che vi si nasconde.

Il velo del calice è un piccolo drappo del medesimo colore e stoffa della pianeta o casula, oppure sempre bianco, che serve a coprire tutto il calice, sull’altare o sulla credenza, dall’inizio della Messa all’offertorio; e poi dopo la purificazione che segue la comunione. Nel rito bizantino i veli sono due, per il calice e per il disco, ovvero la patena dei pani da consacrare. Nel rito romano, sebbene sia prescritto «lodevolmente» dall’Ordinamento generale del Messale di Paolo VI (n. 118), il velo che copre il calice è, nell’odierna prassi celebrativa, ordinariamente omesso.

Veniamo all’incensazione. Il sacerdote, all’inizio della Liturgia Eucaristica, messo l’incenso nel turibolo, lo benedice e poi incensa tutto l’altare, in onore del Signore. L’incenso viene benedetto, nella Messa in forma extraordinaria, con la preghiera: Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a dextris altaris incensi, et omnium electorum suorum, incensum istud dignetur Dominus benedicere, et in odorem suavitatis accipere – Per intercessione di san Michele arcangelo, che sta alla destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi santi, il Signore voglia benedire questo incenso e accoglierlo come profumo a Lui gradito. Questa benedizione è più solenne della prima, nella quale si dice: Ab illo benedicaris, in cuius honore cremaberis – Ti benedica Colui in onore del quale sarai bruciato. Qui sono invocati gli angeli perché il mistero dell’incenso non rappresenta altro che la preghiera dei santi presentata a Dio dagli angeli, come dice san Giovanni nell’Apocalisse (8,4): Et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo – E dalla mano dell’Angelo il fumo degli aromi ascende con la preghiera dei santi davanti a Dio.

Ancor prima però, come spiega Prosper Guéranger, «siccome il pane e il vino che ha offerti hanno cessato d’appartenere all’ordine delle cose comuni e usuali, [il sacerdote] li profuma con l’incenso, come fa per Cristo stesso, rappresentato dall’altare». Belle le parole che accompagnano l’incensazione prima in forma di triplice croce e poi di triplice cerchio sul pane e del calice: Incensum istud a Te benedictum ascendat ad Te Domine et descendat super nos misericordia tua – Ascenda a te, Signore, questo incenso da Te benedetto e discenda su di noi la tua misericordia. È tutto il senso della liturgia, che ascende a gloria della presenza divina e discende per la nostra salvezza – in latino, salvare vuol dire conservare – affinché siamo completamente noi stessi e possiamo vivere in eterno con Dio. Il sacerdote si inchina «in spirito di umiltà e con animo contrito» affinché il sacrificio si compia alla presenza di Dio in modo da essere gradito; poi invoca lo Spirito sulle offerte. Il sacerdote, rendendo il turibolo al diacono, gli rivolge un augurio che fa ugualmente a sé medesimo, dicendo: Accendat in nobis Dominus ignem sui amoris, et flammam aeternae caritatis – Il Signore accenda in noi il fuoco del suo amore e la fiamma dell’eterna carità.Il diacono, ricevendo il turibolo, bacia la mano del sacerdote e poi la parte superiore delle catene, invertendo l’ordine delle azioni che aveva compiuto presentandoglielo. Tutti questi usi sono orientali e la liturgia li conserva perché sono dimostrazioni di rispetto e riverenza.

Dunque, la Chiesa non ha escluso gli aromi dai suoi riti, anzi usa il balsamo per preparare il Crisma. L’incensazione simboleggia il sacrificio perfetto dei santi doni del pane e del vino, cioè Gesù Cristo, a cui sono unite le nostre persone in sacrificio spirituale, emananti profumo soave che sale al cielo (cf. Gen8,21; Ef5,2); così sono le preghiere dei santi (Ap5,8) e le virtù dei cristiani (2Cor2,15).

Qualcuno osserverà che, da quanto il velo del tempio si è squarciato, non abbiamo più bisogno di alcun velo, e da quando si è offerto il sacrificio di Cristo non abbiamo più bisogno di incenso. In verità non dovremmo nemmeno più aver bisogno di alcun edificio sacro, perché Cristo è il nuovo tempio. Il punto è che, con la venuta di Gesù, il profano non è scomparso del tutto: però è continuamente incalzato dal sacro che è dinamico, in via di compimento: «Perciò dobbiamo ritrovare il coraggio del sacro,il coraggio della distinzione di ciò che è cristiano; non per creare steccati, ma per trasformare, per essere realmente dinamici» (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, Milano 2002, p 127).

***

Formazione dottrinale e Comunione sotto le due specie

  

Nella forma ordinaria della Messa, la distribuzione della Comunione sotto le due specie è un’opzione che è diventata di uso quotidiano in molti Paesi e, sebbene non dappertutto, anche in Europa. L’Istruzione Redemptionis Sacramentum (RS), promulgata nel 2004, illustra il contesto di simile pratica: «Al fine di manifestare ai fedeli con maggior chiarezza la pienezza del segno nel convivio eucaristico, sono ammessi alla Comunione sotto le due specie nei casi citati nei libri liturgici anche i fedeli laici, con il presupposto e l’incessante accompagnamento di una debita catechesi circa i principi dogmatici fissati in materia dal Concilio Ecumenico Tridentino» (RS, n. 100).

Le lodevoli intenzioni spesso urtano contro la pietra d’inciampo catechetica ora menzionata. Senza dubbio, la Santa Comunione sotto le due specie illustra l’intenzione di Cristo, che noi mangiamo il suo Corpo e beviamo il suo Sangue. Tuttavia, il desiderio della Comunione sotto le due specie non sempre si è accompagnato con la fedeltà alle norme dei libri liturgici e con il supporto alla dovuta formazione, per evitare che ci fossero abusi nei confronti dell’Eucaristia o equivoci a livello dottrinale. Mentre molti hanno recepito che l’Eucaristia è «fonte e culmine» della vita cristiana, la trasmissione dei principi dogmatici del Concilio di Trento è stata spesso vista come fuori moda. L’Istruzione RS ha perciò affermato chiaramente che la coerenza con i libri liturgici e con gli insegnamenti di Trento è intrinseca alla «pienezza del segno».

RS rimuove ogni ambiguità circa la pratica eucaristica e «intende condurre a questa conformità dei sentimenti nostri con quelli di Cristo, espressi nelle parole e nei riti della liturgia» (RS, n. 5). Non di rado, l’essenziale deficit di consapevolezza eucaristica si rivela quando, per mancanza di formazione, i ministri straordinari della Comunione fanno riferimento al «distribuire il vino». Proprio questa terminologia suggerisce che il principio dogmatico di Trento non è stato assorbito all’interno del percorso di preparazione. Forse qualcuno ha potuto sentire parlare di «sostanza» e «accidenti» nel contesto della sua educazione religiosa passata, ma magari deve aver pensato che, nel frattempo, in qualche modo la Chiesa è andata avanti. Per le generazioni moderne, il Concilio di Trento potrebbe non essere stato neppure citato all’interno della formazione dottrinale, la quale invece sottolinea che «il popolo può ricevere il Corpo senza il Sangue, senza che ne derivi alcun inconveniente, perché il sacerdote offre e consuma il Sangue a nome di tutti; inoltre perché […] in ciascuna delle due specie Cristo è contenuto per intero» (san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 80, a. 12, ad 3). Perciò, sotto la specie del pane è presente anche, per «concomitanza», il preziosissimo Sangue.

Lo scopo, allora, di ricevere la Santa Comunione sotto le due specie non è che i fedeli ricevano più grazia di quando comunicano sotto una sola specie, bensì che essi siano messi nella condizione di apprezzare al vivo il valore del segno. È triste constatare che questa distinzione non sempre è stata fatta chiaramente e perciò alcuni, quando non si è offerta loro la Comunione sotto entrambe le specie, hanno manifestato un senso di perplessità, persino di violazione di un loro diritto, o almeno la percezione che la Santa Comunione sotto una sola specie fosse, in qualche misura, mancante.

Le conferenze episcopali e i vescovi diocesani, in particolare, hanno un ruolo chiave a livello locale, nell’assicurare che la Santa Comunione sia distribuita con riverenza ed evitando ogni fraintendimento. RS al n. 101 dice con chiarezza che va evitato anche il più piccolo pericolo che le specie consacrate siano profanate. E il n. 106 manifesta preoccupazione a riguardo di «qualunque cosa che possa risultare irrispettosa di così grande mistero». Mentre le parole «profanazione» e «irrispettoso» indicano diversi livelli di abuso eucaristico, entrambi i livelli sono però menzionati espressamente, affinché siano evitati. Bisogna avere ogni cura per evitare, ad esempio, la condivisione del calice lì dove le circostanze creano ambiguità nella ricezione, oppure la situazione logistica non garantisce la sicurezza di quanto in esso è contenuto. RS al n. 102 ricorda ancora che, lì dove non si può stimare la quantità di vino da consacrare in una celebrazione, a motivo della presenza di un gran numero di fedeli, il calice non va condiviso. Anche metodi alternativi, quali l’uso di un cucchiaio o di una cannuccia, potrebbero essere ugualmente difficili da auspicare, lì dove simili modalità non facessero parte dell’uso locale. Per quanto riguarda, poi, la Comunione per intinzione, si stabilisce: «Non si permetta al comunicando di intingere da sé l’Ostia nel calice, né di ricevere in mano l’Ostia intinta» (RS, n. 104).

Le prossime traduzioni della terza edizione del Messale Romano rappresentano – come hanno scritto le conferenze episcopali di Inghilterra e Galles, in una lettera pastorale congiunta di questo mese – «un momento di grazia speciale». C’è da sperare che anche l’auspicata catechesi approfondita sulla Messa ritorni sulla mentalità e sul modo con cui è ricevuta la Santa Comunione. Sembra restrittivo suggerire che la Comunione ricevuta con fervore sotto una sola specie è più fruttuosa di una Comunione tiepida ricevuta sotto entrambe, quando obiettivi concreti rivolti alla formazione dottrinale, alla cura e riverenza nella celebrazione liturgica, e la previdenza organizzativa potrebbero fare davvero tanto per riconoscere e affrontare le sfide che sono emerse. Il salmista dichiara l’imperativo di tale catechesi in profondità: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alle generazioni future le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3-4). Sant’Ambrogio svela ciò che gli uomini di fede ottengono da questa conoscenza: «Perché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, proclamiamo la morte del Signore. Se proclamiamo la morte del Signore, proclamiamo il perdono dei peccati. Se, ogni volta che il suo Sangue viene sparso, esso è sparso in remissione dei peccati, io devo sempre riceverlo in modo che esso possa rimettere i miei peccati. Siccome io pecco sempre, dovrei sempre ricevere la medicina» (De sacramentis, IV, 6, 28: PL 16, 464).

 

 

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Le disposizioni integrative del Cæremoniale Episcoporum
al
Missale Romanum

 

All’interno della rubrica «Spirito della Liturgia», desideriamo quest’oggi focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti, riguardanti il rito della Celebrazione eucaristica, che non appaiono regolamentati nel Missale Romanum (= MR, editio typica tertia del 2008). Né le disposizioni liturgiche previste dall’Ordinamento Generale del Messale Romano (= OGMR), né le rubriche ad esso annesse descrivono infatti alcuni dettagli celebrativi che, seppur secondari, non sono del tutto irrilevanti.

È lecito perciò chiedersi se tali lacunae possano essere arbitrariamente colmate dall’estro creativo del presbitero che celebra l’Eucaristia, o vi siano piuttosto indicazioni specifiche, contenute in altre legittime fonti documentali normative, alle quali si possa ricorrere per attingere il venerando patrimonio liturgico della Chiesa. Collocandoci nel solco della Tradizione, non è difficile dare risposta al quesito. È giusto infatti presumere, come vincolanti, le disposizioni normative più dettagliate che il Cæremoniale Episcoporum (= CE, editio typica, reimpressio emendata del 2008) impartisce riguardo alla Missa stationalis, la Celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo diocesano alla presenza del suo presbiterio e degli altri ministri, con la partecipazione del popolo di Dio. Il fondamento legittimo di tale praesumptio risiede nel fatto che la Messa officiata dal Vescovo diocesano nella propria diocesi, speciale epifania della cattolicità della Chiesa particolare (cf. Sacrosanctum Concilium[= SC] n. 41), per risplendere di nobile semplicità (cf. SC n. 34) deve manifestare una peculiare esemplarità celebrativa, costituendo così un modello a cui le altre Liturgie eucaristiche che si celebrano in diocesi possano ispirarsi (cf. Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 39).

Proviamo ora ad esaminare nel concreto alcune disposizioni liturgiche del rito della Messa, previste dal CE e complementari rispetto alle norme contenute nel MR. Un primo aspetto attiene all’incensazione. L’OGMR descrive l’incensazione ai nn. 276-277. Il CE aggiunge che l’incenso sia puro e di soave odore e, nel caso si aggiungesse altra materia, si abbia cura che la quantità di incenso sia di gran lunga maggiore (cf. n. 85). Il CE descrive poi altri dettagli interessanti riguardanti l’incensazione alle note 74-75 dei nn. 90-91.

Un secondo aspetto riguarda ilmodo di tenere le mani durante la Liturgia eucaristica. Il MR prescrive infatti che in certi momenti della Messa il celebrante rivolga a Dio le orazioni allargando le mani. Il CE specifica che le mani siano leggermente alzate ed allargate (cf. n. 104). In esso poi viene precisato minuziosamente che, con l’espressione «mani giunte», si intende che i palmi delle mani siano aperti e congiunti, tenuti davanti al petto, con il pollice della mano destra posto sopra il sinistro a mo’ di croce (cf. CE nota 80 al n. 107). Viene inoltre indicato che, oltre alle prescrizioni già contenute nei vari libri liturgici, il celebrante tiene le mani giunte quando, già vestito dei paramenti sacri, si avvia per celebrare la Messa; mentre prega in ginocchio; mentre si reca dall’altare alla sede, o dalla sede all’altare (cfr. CE n. 107). Così pure i concelebranti e gli altri ministri mantengono le mani giunte quando procedono o stanno in piedi, a meno che non abbiano qualcosa da portare (ibidem).

Nel Cerimoniale viene poi indicato il modo in cui il celebrante si segna e benedice. Quando si segna, egli volge verso di sé il palmo della mano destra, e con tutte le dita congiunte e distese fa il segno di croce dalla fronte al petto e dalla spalla sinistra alla destra. Quando benedice altre persone o qualche oggetto, volge il mignolo verso colui che deve essere benedetto, e benedicendo distende tutta la mano destra con tutte le dita ugualmente congiunte e distese (cf. CE nota 81 al n. 108). Inoltre, quando durante la Messa il celebrante è seduto, pone i palmi delle mani sulle ginocchia (cf. CE n. 109).

Viene poi precisato che, durante la Preghiera eucaristica, al momento dell’epiclesi prima della consacrazione, i concelebranti stendano le mani sulle offerte in modo tale che i palmi siano aperti e rivolti sopra le offerte (cf. CE nota 79 al n. 106). Al momento della consacrazione poi, proferendo le parole del Signore, essi tengono la mano destra stesa e rivolta a lato (ibidem), orientandola verso il pane e il calice (cf. CE n. 106).

Vi sono ancora altri dettagli che vengono disciplinati dal CE. Presentiamo una lista di alcuni di essi:

1) La riverenza, sotto forma di inchino profondo, viene rivolta al celebrante quando ci si accosta a lui, ce ne si allontana o gli si passa dinanzi (cf. CE n. 76).

2) Nel momento in cui il ministro ordinato proclama il Vangelo, tutti i fedeli partecipanti all’azione liturgica sono rivolti verso di lui (cf. CE n. 141).

3) Il diacono, o altro ministro, dopo che il celebrante abbia incensato le offerte, lo incensa stando al lato dell’altare (cf. CE n. 149).

4) Prima che inizi la Preghiera eucaristica, il diacono, se il calice e la pisside sono coperti, li scopre, e dall’epiclesi fino all’elevazione del calice resta in ginocchio. Inoltre, uno dei diaconi immette incenso nel turibolo e incensa l’Ostia e il Calice alle due elevazioni (cf. CE n. 155).

5) I concelebranti con il vescovo, prima della Comunione, gli si avvicinano uno dopo l’altro, genuflettono e ricevono da lui con riverenza il Corpo di Cristo. Tuttavia i concelebranti possono restare al loro posto e ricevere lì il Corpo di Cristo (cf. CE n. 163).

Si tratta solo di alcuni esempi, utili a ricordare che il Culto divino non può sottostare all’arbitrio, ma è al contrario regolato dalla Chiesa, che lo custodisce e lo celebra. L’osservanza delle norme liturgiche non è segno di legalismo e rigidità. Essa aiuta ad incarnare sempre di nuovo la cattolicità della sacra Liturgia e a celebrarla «in unione con tutta la Chiesa» (Canone Romano, «Communicantes»).


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L’elevazione dell’Ostia e del Calice alla consacrazione eucaristica

 

A pochi giorni dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa.

L’introduzione nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle mani, per pronunciare le parole del Signore.

Sin dalla prima metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159). Già nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies, aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua: mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220).

Ma Jungmann, pur citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.).

La riforma liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione dell’Ostia e del Calice. Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il significato del gesto in sé. Dobbiamo al contrario riconoscere che l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni. La contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel sacramento. In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis, n. 66.

Rileggiamo il testo del Pontefice: «Mentre la riforma [post-conciliare] muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’adorazione del Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo”».

Il fatto che durante il primo millennio cristiano non vi fosse l’uso di elevare l’Ostia alla vista dei fedeli, non significa che tale gesto vada contro la purezza della fede: significa soltanto che esso all’epoca non era stato ancora sviluppato, e che verrà introdotto in seguito, come valida manifestazione della stessa fede eucaristica dei Padri. Ai Padri, infatti, non sono affatto estranei né il senso di adorazione verso l’Eucaristia, né l’importanza del guardare con gli «occhi della fede». I limiti di questo breve articolo non ci consentono di dilungarci. Basterà perciò ricordare un testo che negli ultimi decenni è divenuto piuttosto noto, in quanto attesta l’uso del primo millennio di ricevere la Comunione sul palmo della mano da parte dei fedeli. In questo testo delle Cathechesi mistagogiche, san Cirillo di Gerusalemme imparte alcune raccomandazioni a coloro che comunicano, affinché non vadano dispersi i frammenti eucaristici. L’attenzione si sofferma in genere su questo aspetto. Non si nota, pertanto, che egli accenna anche al tema del guardare l’Ostia consacrata prima di portarla alla bocca e che parla di questo guardare come di un sacramentale, un’azione che santifica l’uomo purificandone lo sguardo. Ecco parte del testo: «Quando tu ti avvicini [a ricevere la Comunione], non andare con le giunture delle mani rigide, né con le dita separate; ma facendo della sinistra un trono alla destra, dal momento che questa sta per ricevere il re, e facendo cavo il palmo, ricevi il Corpo di Cristo, rispondendo “amen”. Poi, santificando con cura gli occhi con il contatto del santo corpo, prendi facendo attenzione a non perderne nulla…» (V, 21). Come minimo, si può dire che al tempo dei Padri non esisteva l’elevazione delle Specie consacrate, ma che se vi fosse stata, essi non l’avrebbero osteggiata.

La Institutio Generalis del Messale di Paolo VI (qui nell’ediz. 2008) valorizza il guardare l’Ostia consacrata durante la Messa: al n. 222 essa prescrive che, al momento dell’elevazione, «i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’Ostia consacrata e il Calice» (n. 222 e ugualmente ai nn. 227, 230 e 233). Per quanto riguarda la «forma straordinaria» del Rito Romano, l’Ordo servandus del Messale di Giovanni XXIII stabilisce che il celebrante, rialzatosi dalla prima genuflessione rivolta all’Ostia appena consacrata, «alza l’Ostia in alto e tenendo fissi su di essa gli occhi (cosa che fa anche all’elevazione del Calice), la presenta con riverenza al popolo affinché l’adori» (VIII, 5).

Lungi dal rappresentare una degenerazione della fede eucaristica, l’elevazione dell’Ostia e del Calice consacrati fu un vero progresso nella storia della Celebrazione eucaristica, progresso che va salvaguardato e valorizzato mediante l’opportuna catechesi liturgica e il modo corretto di compiere il gesto da parte dei sacerdoti. D’altro canto, sarebbe incomprensibile ai nostri giorni opporsi ad una pratica che permette ai fedeli una maggiore partecipazione attiva ai sacri riti.

L’innesto dell’elevazione dell’Ostia e del Calice nel Canone è un segno del fatto che la liturgia della Chiesa non è un oggetto da dissezionare sul tavolo della “sala operatoria” degli esperti, bensì è soggetto vivo della fede e della preghiera ecclesiali: «Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”» (Benedetto XVI, Discorso nel 50° di fondazione del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 06.05.2011).


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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