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Liturgia - Preghiera - Adorazione - musica sacra

Ultimo Aggiornamento: 04/08/2013 10:35
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20/03/2013 19:58

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE

      

Insegnamenti sulla liturgia del Santo Padre (emerito) Benedetto XVI


Liturgia – Preghiera – Adorazione

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(Benedetto XVI)

 

 

Benedetto XVI, Incontro con i sacerdoti della diocesi di Albano, Castel Gandolfo, 31 agosto 2006

Quanto alla vita interiore, alla quale Lei ha accennato, direi che è essenziale per il nostro servizio di sacerdoti. Il tempo che ci riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio «lavoro» pastorale, è pregare anche per gli altri. Nel «Comune dei Pastori» si legge come caratterizzante per il Pastore buono che «multum oravit pro fratribus». Questo è proprio del Pastore, che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri, che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. Come si evidenzia così che questo dialogo con Dio è opera pastorale! 

Direi, quindi, che la Chiesa ci dà, quasi ci impone - ma sempre come una Madre buona - di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore. Occorre interiorizzare questa Parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa Parola, ascoltare poi il commento dei Padri della Chiesa o anche del Concilio, nella seconda Lettura dell'Ufficio delle Letture, e pregare con questa grande invocazione che sono i Salmi, con i quali siamo inseriti nella preghiera di tutti i tempi. Prega con noi - e noi preghiamo con esso - il popolo dell'antica Alleanza. Preghiamo con il Signore, che è il vero soggetto dei Salmi. Preghiamo con la Chiesa di tutti i tempi. Direi che questo tempo dedicato alla Liturgia delle Ore è tempo prezioso. La Chiesa ci dona questa libertà, questo spazio libero di vita con Dio, che è anche vita per gli altri. 

E così mi sembra importante vedere che queste due realtà - la Santa Messa celebrata realmente in colloquio con Dio e la Liturgia delle Ore - sono zone di libertà, di vita interiore, che la Chiesa ci dona e che sono una ricchezza per noi. In esse, come ho detto, incontriamo non solo la Chiesa di tutti i tempi, ma il Signore stesso, che parla con noi e aspetta la nostra risposta. Impariamo così a pregare inserendoci nella preghiera di tutti i tempi e incontriamo anche il popolo. Pensiamo ai Salmi, alle parole dei Profeti, alle parole del Signore e degli Apostoli, pensiamo ai commenti dei Padri. Oggi abbiamo avuto questo meraviglioso commento di san Colombano su Cristo fonte di «acqua viva» alla quale beviamo. Pregando incontriamo anche le sofferenze del popolo di Dio, oggi. Queste preghiere ci fanno pensare alla vita di ogni giorno e ci guidano all'incontro con la gente di oggi.
Ci illuminano in questo incontro, perché in esso non portiamo soltanto la nostra propria, piccola intelligenza, il nostro amore di Dio, ma impariamo, attraverso questa Parola di Dio, anche a portare Dio a loro. Questo essi aspettano: che portiamo loro l'«acqua viva», della quale parla oggi san Colombano. La gente ha sete. E cerca di rispondere a questa sete con diversi divertimenti.

Ma comprende bene che questi divertimenti non sono l'«acqua viva» della quale ha bisogno. Il Signore è la fonte dell'«acqua viva». Egli però dice, nel capitolo 7 di Giovanni, che chiunque crede diventa una «fonte», perché ha bevuto da Cristo. E questa «acqua viva» (v 38) diventa in noi acqua zampillante, fonte per gli altri. Così cerchiamo di berla nella preghiera, nella celebrazione della Santa Messa, nella lettura: cerchiamo di bere da questa fonte perché diventi fonte in noi. E possiamo meglio rispondere alla sete della gente di oggi avendo in noi l'«acqua viva», avendo la realtà divina, la realtà del Signore Gesù incarnatosi. Così possiamo rispondere meglio ai bisogni della nostra gente.








Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/03/2013 20:00



Benedetto XVI, Discorso nell’incontro con i vescovi della Svizzera, 9 novembre 2006

Per questo è un compito fondamentale della pastorale, insegnare a pregare ed impararlo personalmente sempre di più. Esistono oggi scuole di preghiera, i gruppi di preghiera; si vede che la gente lo desidera. Molti cercano la meditazione da qualche parte altrove, perché pensano di non poter trovare nel cristianesimo la dimensione spirituale. Noi dobbiamo mostrare loro di nuovo che questa dimensione spirituale non solo esiste, ma che è la fonte di tutto.

A questo scopo dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, del pregare insieme, dove si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni: come silenzioso ascolto di Dio, come ascolto che penetra nella sua Parola, penetra nel Suo silenzio, sonda il Suo operare nella storia e nella mia persona; comprendere anche il Suo linguaggio nella mia vita e poi imparare a rispondere nel pregare con le grandi preghiere dei Salmi dell'Antico e del Nuovo Testamento. Da noi stessi non abbiamo le parole per Dio, ma ci sono state donate delle parole: lo Spirito Santo stesso ha già formulato parole di preghiera per noi; possiamo entrarci, pregare con esse e così imparare poi anche la preghiera personale, sempre di più “imparare” Dio e così divenire certi di Lui, anche se tace -diventare lieti in Dio. Questo intimo essere con Dio e quindi l'esperienza della presenza di Dio è ciò che sempre di nuovo ci fa, per così dire, sperimentare la grandezza del cristianesimo e ci aiuta poi anche ad attraversare tutte le piccolezze, tra le quali, certamente, esso deve poi essere vissuto e -giorno per giorno, soffrendo ed amando, nella gioia e nella tristezza -essere realizzato. 

E da questa prospettiva si vede, secondo me, il significato della Liturgia anche come scuola, appunto, di preghiera, nella quale il Signore stesso ci insegna a pregare, nella quale preghiamo con la Chiesa, sia nella celebrazione semplice ed umile con solo pochi fedeli, sia anche nella festa della fede. L'ho percepito nuovamente proprio ora nei vari colloqui, quanto importante sia per i fedeli, da una parte, il silenzio nel contatto con Dio e, dall'altra, la festa della fede, quanto importante poter vivere la festa. Anche il mondo ha le sue feste. Nietzsche addirittura ha detto: Solo se Dio non esiste possiamo far festa. Ma ciò è un'assurdità: solo se Dio c'è ed Egli ci tocca, può esserci una vera festa. E sappiamo come queste feste della fede spalancano i cuori della gente e producono impressioni che aiutano per il futuro. Io l'ho visto nuovamente nelle mie visite pastorali in Germania, in Polonia, in Spagna, che lì la fede è vissuta come festa e che essa accompagna poi le persone e le guida.

 



Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/03/2013 20:02

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Benedetto XVI, Incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 22 febbraio 2007

Nella Liturgia il Signore ci insegna a pregare, prima dandoci la sua Parola, poi introducendoci nella Preghiera eucaristica alla comunione con il suo mistero di vita, di Croce e di Risurrezione. San Paolo ha detto una volta che “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26): noi non sappiamo come pregare, cosa dire a Dio.

Perciò Dio ci ha dato le parole della preghiera, sia nel Salterio, sia nelle grandi preghiere della sacra Liturgia, sia proprio nella Liturgia eucaristica stessa. Qui ci insegna a pregare. Noi entriamo nella preghiera formatasi nei secoli sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e ci uniamo al colloquio di Cristo con il  Padre. Quindi la Liturgia è soprattutto preghiera: prima ascolto e poi risposta, sia nel Salmo responsoriale sia nella preghiera della Chiesa, sia nella grande Preghiera eucaristica.

Noi la celebriamo bene se la celebriamo in atteggiamento «orante», unendoci al mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio col Padre. Se celebriamo l'Eucaristia in questo modo, come ascolto prima, poi come risposta, quindi come preghiera con le parole indicate dallo Spirito Santo, la celebriamo bene. E la gente viene attirata attraverso la nostra preghiera comune nel novero dei figli di Dio.

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20/03/2013 20:07

adorazione Benedetto XVI san Michele arcangelo

Benedetto XVI, Discorso nella visita all’Abbazia di Heiligenkreuz, 9 settembre 2007

Con piacere, nel mio pellegrinaggio alla Magna Mater Austriae, sono venuto anche nell’Abbazia di Heiligenkreuz, che non è solo una tappa importante sulla Via Sacra verso Mariazell, ma il più antico monastero cistercense del mondo restato attivo senza interruzione. Ho voluto venire a questo luogo ricco di storia, per attirare l’attenzione alla direttiva fondamentale di san Benedetto, secondo la cui Regula vivono anche i cistercensi. Benedetto dispone concisamente di “non anteporre nulla al divino Officio”.[1]  

Per questo in un monastero di impostazione benedettina, le lodi di Dio, che i monaci celebrano come solenne preghiera corale, hanno sempre la priorità. Certo -e grazie a Dio!-, non sono solo i monaci che pregano; anche altre persone pregano: bambini, giovani e anziani, uomini e donne, persone sposate e nubili -ogni cristiano prega, o almeno dovrebbe farlo! 

Nella vita dei monaci, tuttavia, la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! -Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1). Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.  

Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine.[2]

La nostra luce, la nostra verità, la nostra meta, il nostro appagamento, la nostra vita -tutto ciò non è una dottrina religiosa, ma una Persona: Gesù Cristo. Molto al di là delle nostre capacità di cercare e di desiderare Dio, siamo già prima stati cercati e desiderati, anzi, trovati e redenti da Lui! Lo sguardo degli uomini di ogni tempo e popolo, di tutte le filosofie, le religioni e le culture incontra infine gli occhi spalancati del Figlio di Dio crocifisso e risorto; il suo cuore aperto è la pienezza dell’amore. Gli occhi di Cristo sono lo sguardo del Dio che ama. L’immagine del Crocifisso sopra l’altare, il cui originale romano si trova nel Duomo di Sarzano, mostra che questo sguardo si volge ad ogni uomo. Il Signore, infatti, guarda nel cuore di ciascuno di noi. 

Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione -il vivere alla maniera degli angeli. Essendo, tuttavia, i monaci uomini con carne e sangue su questa terra, san Benedetto all’imperativo centrale dell’”ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora”. Secondo il concetto di san Benedetto come anche di san Bernardo, una parte della vita monastica, insieme alla preghiera, è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui, diventano buoni.  

Non solo i monaci dicono l’officium, ma la Chiesa dalla tradizione monastica ha derivato per tutti i religiosi, ed anche per sacerdoti e diaconi la recita del Breviario. Vale anche qui che le religiose e i religiosi, i sacerdoti e i diaconi -e naturalmente anche i Vescovi -nella quotidiana preghiera “ufficiale” si presentano davanti a Dio con inni e salmi, con ringraziamenti e domande senza scopi specifici. 

Cari confratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari fratelli e sorelle nella vita consacrata! Io so che ci vuole disciplina, anzi, a volte anche superamento di sé per recitare fedelmente il Breviario; ma mediante questo officium riceviamo allo stesso tempo molte ricchezze: quante volte nel fare ciò stanchezza e abbattimento si dileguano! E là dove Dio viene lodato ed adorato con fedeltà, la sua benedizione non manca. Con ragione si dice in Austria: “Tutto dipende dalla benedizione di Dio!”





Fraternamente CaterinaLD

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20/03/2013 20:09

Benedetto XVI, Omelia nella Veglia Pasquale, Basilica Vaticana, 22 marzo 2008

Nella Chiesa antica c’era la consuetudine, che il Vescovo o il sacerdote dopo l’omelia esortasse i credenti esclamando: “Conversi ad Dominum” -volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava innanzitutto che essi si volgevano verso Est -nella direzione del sorgere del sole come segno del Cristo che torna, al quale andiamo incontro nella celebrazione dell’Eucaristia.
Dove, per qualche ragione, ciò non era possibile, essi in ogni caso si volgevano verso l’immagine di Cristo nell’abside o verso la Croce, per orientarsi interiormente verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del volgersi della nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce vera. Era collegata con ciò poi l’altra esclamazione che ancora oggi, prima del Canone, viene rivolta alla comunità credente: “Sursum corda” -in alto i cuori, fuori da tutti gli intrecci delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angosce, della nostra distrazione -in alto i vostri cuori, il vostro intimo!

In ambedue le esclamazioni veniamo in qualche modo esortati ad un rinnovamento del nostro Battesimo: Conversi ad Dominum -sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci muoviamo così spesso con il nostro pensare ed agire. Sempre di nuovo dobbiamo volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo dobbiamo diventare dei “convertiti”, rivolti con tutta la vita verso il Signore. E sempre di nuovo dobbiamo lasciare che il nostro cuore sia sottratto alla forza di gravità, che lo tira giù, e sollevarlo interiormente in alto: nella verità e l’amore.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché in virtù della forza della sua parola e dei santi Sacramenti Egli ci orienta nella direzione giusta e attrae verso l’alto il nostro cuore. E lo preghiamo così: Sì, Signore, fa che diventiamo persone pasquali, uomini e donne della luce, ricolmi del fuoco del tuo amore.
Amen.


 

Fraternamente CaterinaLD

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20/03/2013 20:13

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Benedetto XVI, Prefazione al volume iniziale dei miei scritti, 29.VI.2008, in J. RATZINGER, Opera omnia. Teologia della Liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 5-9

Il Concilio Vaticano II iniziò i suoi lavori con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, che poi venne solennemente votato il 4 dicembre 1963 come primo frutto della grande assise della Chiesa, con il rango di una costituzione. Che il tema della liturgia si trovasse all’inizio dei lavori del Concilio e che la costituzione sulla liturgia divenisse il suo primo risultato venne considerato a prima vista piuttosto un caso. Papa Giovanni aveva convocato l'assemblea dei vescovi con una decisione da tutti condivisa con gioia, per ribadire la presenza del cristianesimo in una epoca di profondi cambiamenti, ma senza proporre un determinato programma. Dalla commissione preparatoria era stata messa insieme un’ampia serie di progetti. Ma mancava una bussola per poter trovare la strada in questa abbondanza di proposte. Fra tutti i progetti il testo sulla sacra liturgia sembrò quello meno controverso. Così esso apparve subito adatto: come una specie di esercizio, per così dire, con il quale i Padri potessero apprendere i metodi del lavoro conciliare. 

Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema "liturgia", si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema "Dio". Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina "Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (43, 3: "Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio") valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera. È forse utile qui ricordare che nel termine "ortodossia" la seconda metà della parola, "doxa", non significa "opinione", ma "splendore", "glorificazione": non si tratta di una corretta "opinione" su Dio, ma di un modo giusto di glorificarlo, di dargli una risposta. Poiché questa è la domanda fondamentale dell’uomo che comincia a capire se stesso nel modo giusto: come debbo io incontrare Dio? Così, l’apprendere il modo giusto dell’adorazione – dell’ortodossia – è ciò che ci viene donato soprattutto dalla fede. 

Quando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il progetto di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi il primo volume ad uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla liturgia. La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico. Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino. Proprio da qui debbono essere intesi i miei lavori sulla liturgia. Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia nell’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana. 

Questo volume raccoglie ora tutti i miei lavori di piccola e media dimensione con i quali nel corso degli anni, in occasioni e da prospettive diverse, ho preso posizione su questioni liturgiche. Dopo tutti i contributi nati in questo modo, sono stato spinto infine a presentare una visione d'insieme che è apparsa nell'anno giubilare 2000 sotto il titolo "Lo spirito della liturgia. Un'introduzione" e che costituisce il testo centrale di questo libro. 

Purtroppo, quasi tutte le recensioni si sono gettate su un unico capitolo: "L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia". I lettori delle recensioni hanno dovuto dedurne che l’intera opera abbia trattato solo dell’orientamento della celebrazione e che il suo contenuto si riduca a quello di voler reintrodurre la celebrazione della messa "con le spalle rivolte al popolo". In considerazione di questo travisamento ho pensato per un momento di sopprimere questo capitolo (di appena nove pagine su duecento) per poter ricondurre la discussione sul vero argomento che mi interessava e continua ad interessarmi nel libro. Questo sarebbe stato tanto più facilmente possibile per il fatto che nel frattempo sono apparsi due eccellenti lavori nei quali la questione dell’orientamento della preghiera nella Chiesa del primo millennio è stata chiarita in modo persuasivo. Penso innanzitutto all’importante piccolo libro di Uwe Michael Lang, "Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica” (traduzione italiana: Cantagalli, Siena, 2006), ed in modo del tutto particolare al grosso contributo di Stefan Heid, "Atteggiamento ed orientamento della preghiera nella prima epoca cristiana" (in "Rivista d’Archeologia Cristiana" 72, 2006), in cui fonti e bibliografia su tale questione risultano ampiamente illustrate e aggiornate. 

Il risultato è del tutto chiaro: l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo.

Ma con questo ho forse detto troppo di nuovo su questo punto, che rappresenta appena un dettaglio del mio libro, e che potrei anche tralasciare. L’intenzione fondamentale dell’opera era quella di collocare la liturgia al di sopra delle questioni spesso grette circa questa o quella forma, nella sua importante relazione che ho cercato di descrivere in tre ambiti che sono presenti in tutti i singoli temi. 

C'è innanzitutto l'intimo rapporto tra Antico e Nuovo Testamento; senza la relazione con l'eredità veterotestamentaria la liturgia cristiana è assolutamente incomprensibile. Il secondo ambito è il rapporto con le religioni del mondo. E si aggiunge infine il terzo ambito: il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa di più della semplice riunione di una cerchia più o meno grande di esseri umani; la liturgia viene celebrata dentro l'ampiezza del cosmo, abbraccia creazione e storia allo stesso tempo. Questo è ciò che si intendeva nell'orientamento della preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e così nella liturgia rimane sempre l'amore anche per la creazione e la responsabilità nei suoi confronti. 

Sarei lieto se questa nuova edizione dei miei scritti liturgici potesse contribuire a far vedere le grandi prospettive della nostra liturgia e a far relegare nel loro giusto posto certe grette controversie su forme esteriori. 

Infine, e soprattutto, sento il dovere di ringraziare. Il mio ringraziamento è dovuto innanzitutto al vescovo Gerhard Ludwig Muller, che ha preso nelle sue mani il progetto delle "Opera omnia" e ha creato le condizioni sia personali che istituzionali per la sua realizzazione. In modo del tutto particolare correi ringraziare il Prof. Dr. Rudolf Voderholzer, che ha investito tempo ed energie in misura straordinaria nella raccolta e nell'individuazione dei miei scritti. Ringrazio anche il Signor Dr. Christian Schaler, che lo assiste in maniera dinamica. Infine, il mio sincero ringraziamento va alla casa editrice Herder, che con grande amore e accuratezza si è assunta l'onere di questo difficile e faticoso lavoro. Possa tutto ciò contribuire a che la liturgia venga compresa in modo sempre più profondo e celebrata degnamente. "La gioia del Signore è la nostra forza" (Neemia 8,10). 

Roma, festa dei santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2008






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20/03/2013 20:15


Benedetto XVI, Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 215
L'intervista

Una volta Lei con parole drammatiche ha detto che il destino della fede e della Chiesa si decide “nel rapporto con la liturgia”. Un outsider potrebbe pensare: ma non è in fin dei conti una questione secondaria quali formule si utilizzino nella Messa, quale posizione si assumano e quali azioni si compiano?

La Chiesa diviene visibile agli uomini in molte cose: nella Caritas, nei progetti missionari, ma il luogo nel quale se ne fa realmente maggiore esperienza come Chiesa, é la liturgia. Ed è giusto che sia così. In fondo il senso della Chiesa e di permettere che ci volgiamo a Dio e di lasciare entrare Dio nel mondo. La liturgia è l’atto nel quale crediamo che Lui viene tra noi e noi lo tocchiamo. È l’atto nel quale si compie l’essenziale: entriamo in contatto con Dio. Egli viene a noi e noi veniamo illuminati da lui.

In essa siamo ammaestrati e ci viene data forza in una duplice forma: da un lato, ascoltando la sua parola, così cone Lo sentiamo parlare veramente, Egli ci indica la strada da seguire; dall’altro per il fatto che  Egli stesso si dona a noi nel Pane transustanziato. Naturalmente le parole possono essere diverse, differenti le posizioni del corpo. Per esempio nella Chiesa d’Oriente vi sono alcuni gesti diversi dai nostri. In India, un identico gesto che abbiamo in comune ha in parte un altro significato. Quel che conta è che al centro ci sia veramente la Parola di Dio e la realtà del sacramento; che Dio non venga da noi investigato nei pensieri e nelle parole in modo freddo ed esasperato, è che la liturgia non divenga un’auto-rappresentazione. 

La liturgia è qualcosa di dato, di prestabilito?

Sì. Non siamo noi a fare qualcosa, non noi mostriamo la nostra creatività, dunque tutto quello che sapremmo fare. Perché la liturgia non è uno show, non è un teatro, non è uno spettacolo, ma trae la sua vita da un Altro. E questo deve anche divenire evidente. Per questo la forma liturgica prestabilita è così importante. Questa forma può essere riformata nello specifico, ma non è ogni volta producibile dalla comunità. Come detto, si tratta non di un produrre da sé. Si tratta di uscire da sé per darsi a Lui e farsi toccare da Lui. In questo senso è  importante non solo l’espressine ma anche il carattere comunitario e unitario di questa forma. Essa può variare nei diversi riti ma deve sempre avere ciò che ci precede e che proviene dalla pienezza della fede della Chiesa, dalla pienezza della sua tradizione, dalla pienezza della sua vita e non scaturisca semplicemente dalla moda dal momento. 

Nella liturgia, dobbiamo restare nella passività?

No, perché proprio questa impostazione ci sfida a lasciarci trarre fuori da noi, dalle semplice situazione del momento; ad abbandonarci alla pienezza delle fede, comprenderla, prenderne intimamente parte conferendo anche alla Celebrazione eucaristica quella forma decorosa per la quale diventa bella, diviene una gioia.

Questo è accaduto in misura particolare in Baviera, ad esempio attraverso la grande fioritura della musica sacra oppure attraverso l’esplosione di gioia nel Roccocò bavarese. È importante che al tutto si conferisca anche una forma bella, ma sempre al servizio di quello che ci precede, e non come qualcosa che innanzitutto dovremmo fare.



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20/03/2013 20:20

in ginocchio

Benedetto XVI, Discorso nel Convegno promosso dalla Fondazione “Romano Guardini”, Sala Clementina, 29 ottobre 2010

Nell’accompagnare la gioventù, Guardini cercò anche un nuovo accesso alla liturgia. La riscoperta della liturgia era per lui una riscoperta dell’unità fra spirito e corpo nella totalità dell’unico essere umano, poiché l’atto liturgico è sempre allo stesso tempo un atto corporale e spirituale. Il pregare viene dilatato attraverso l’agire corporale e comunitario, e così si rivela l’unità di tutta la realtà.
La liturgia è un agire simbolico. Il simbolo come quintessenza dell’unità tra lo spirituale e il materiale va perso dove ambedue si separano, dove il mondo viene spaccato in modo dualistico in spirito e corpo, in soggetto e oggetto. Guardini era profondamente convinto che l’uomo è spirito in corpo e corpo in spirito e che, pertanto, la liturgia e il simbolo lo conducono all’essenza di se stesso, in definitiva lo portano, tramite l’adorazione, alla verità.

 

Benedetto XVI, “Lectio divina” nell’Incontro con i parroci della diocesi di Roma, 10 marzo 2011

Infine, l’ultimo capoverso: “Dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò” (v. 36). Alla fine, il discorso diventa preghiera e Paolo si inginocchiò. San Luca ci ricorda che anche il Signore nell’Orto degli Ulivi pregava in ginocchio, e ci dice che anche santo Stefano, nel momento del martirio, si è inginocchiato per pregare. Pregare in ginocchio vuol dire adorare la grandezza di Dio nella nostra debolezza, grati che il Signore ci ami proprio nella nostra debolezza.
Dietro ciò appare la parola di san Paolo nella Lettera ai Filippesi, che è la trasformazione cristologica di una parola del profeta Isaia, il quale dice, nel capitolo 45, che tutto il mondo, il cielo, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchierà davanti al Dio di Israele (cfr Is 45,23). E san Paolo concretizza: Cristo è sceso dal cielo alla croce, l’obbedienza ultima. E in questo momento si realizza questa parola del Profeta: davanti al Cristo crocifisso l’intero cosmo, i cieli, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchia (cfr Fil 2,10-11). Egli è realmente l’espressione della vera grandezza di Dio. L’umiltà di Dio, l’amore fino alla croce, ci dimostra chi è Dio.

Davanti a Lui noi siamo in ginocchio, adorando. Essere inginocchiati non è più espressione di servitù, ma proprio della libertà che ci dà l’amore di Dio, la gioia di essere redenti, di porsi insieme, con il cielo e la terra, con tutto il cosmo, ad adorare Cristo, essere uniti a Cristo e così essere redenti.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/03/2013 20:23

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Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana nella presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2011

Un terzo elemento, che in modo sempre più naturale e centrale fa parte delle Giornate Mondiali della Gioventù e della spiritualità da esse proveniente, è l’adorazione. Rimane indimenticabile per me il momento durante il mio viaggio nel Regno Unito, quando, in Hydepark, decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani, hanno risposto con un intenso silenzio alla presenza del Signore nel Santissimo Sacramento, adorandolo.
La stessa cosa è avvenuta, in misura più ridotta, a Zagabria e, di nuovo, a Madrid dopo il temporale che minacciava di guastare l’insieme dell’incontro notturno, a causa del mancato funzionamento dei microfoni. Dio è onnipresente, sì. Ma la presenza corporea del Cristo risorto è ancora qualcosa d’altro, è qualcosa di nuovo. Il Risorto entra in mezzo a noi. E allora non possiamo che dire con l’apostolo Tommaso: Mio Signore e mio Dio! L’adorazione è anzitutto un atto di fede - l’atto di fede come tale.
Dio non è una qualsiasi possibile o impossibile ipotesi sull’origine dell’universo. Egli è lì. E se Egli è presente, io mi inchino davanti a Lui.
Allora, ragione, volontà e cuore si aprono verso di Lui e a partire da Lui. In Cristo risorto è presente il Dio fattosi uomo, che ha sofferto per noi perché ci ama. Entriamo in questa certezza dell’amore corporeo di Dio per noi, e lo facciamo amando con Lui. Questo è adorazione, e questo dà poi un’impronta alla mia vita. Solo così posso anche celebrare l’Eucaristia in modo giusto e ricevere rettamente il Corpo del Signore.

 

Liturgia – Preghiera – Adorazione

Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa in Cena Domini, 5 aprile 2012

Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa - come essi aggiungono - “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini - una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.

Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre ... lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.

Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente.
I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 15:55

benedetto xvi musica sacra

LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AL GRAN CANCELLIERE DEL PONTIFICIO ISTITUTO
DI MUSICA SACRA IN OCCASIONE DEL 100° ANNIVERSARIO
DI FONDAZIONE DELL’ISTITUTO

 

Al venerato Fratello
il Cardinale Zenon Grocholewski
Gran Cancelliere del Pontificio Istituto di Musica Sacra

Cento anni sono trascorsi da quando il mio santo predecessore Pio X fondò la Scuola Superiore di Musica Sacra, elevata a Pontificio Istituto dopo un ventennio dal Papa Pio XI. Questa importante ricorrenza è motivo di gioia per tutti i cultori della musica sacra, ma più in generale per quanti, a partire naturalmente dai Pastori della Chiesa, hanno a cuore la dignità della Liturgia, di cui il canto sacro è parte integrante (cfr Conc. Ecum. Vat II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 112). Sono dunque particolarmente lieto di esprimere le mie vive felicitazioni per tale traguardo e di formulare a Lei, venerato Fratello, al Preside e all’intera comunità del Pontificio Istituto di Musica Sacrai miei voti cordiali.

Codesto Istituto, che dipende dalla Santa Sede, fa parte della singolare realtà accademica costituita dalle Università Pontificie romane. In modo speciale esso è legato all’Ateneo Sant’Anselmo e all’Ordine benedettino, come attesta anche il fatto che la sua sede didattica sia stata posta, a partire dal 1983, nell’abbazia di San Girolamo in Urbe, mentre la sede legale e storica rimane presso Sant’Apollinare. Al compiersi del centenario, il pensiero va a tutti coloro – e solo il Signore li conosce perfettamente – che hanno in qualsiasi modo cooperato all’attività della Scuola Superiore, prima, e quindi del Pontificio Istituto di Musica Sacra: dai Superiori che si sono succeduti alla sua guida, agli illustri Docenti, alle generazioni di allievi. Al rendimento di grazie a Dio, per i molteplici doni elargiti, si accompagna la riconoscenza per quanto ciascuno ha dato alla Chiesa, coltivando l’arte musicale al servizio del culto divino.

Per cogliere chiaramente l’identità e la missione del Pontificio Istituto di Musica Sacra, occorre ricordare che il Papa san Pio X lo fondò otto anni dopo aver emanato il Motu proprio Tra le sollecitudini, del 22 novembre 1903, col quale operò una profonda riforma nel campo della musica sacra, rifacendosi alla grande tradizione della Chiesa contro gli influssi esercitati dalla musica profana, specie operistica. Tale intervento magisteriale aveva bisogno, per la sua attuazione nella Chiesa universale, di un centro di studio e di insegnamento che potesse trasmettere in modo fedele e qualificato le linee indicate dal Sommo Pontefice, secondo l’autentica e gloriosa tradizione risalente a san Gregorio Magno. Nell’arco degli ultimi cento anni, codesta Istituzione ha pertanto assimilato, elaborato e trasmesso i contenuti dottrinali e pastorali dei Documenti pontifici, come pure del Concilio Vaticano II, concernenti la musica sacra, affinché possano illuminare e guidare l’opera dei compositori, dei maestri di cappella, dei liturgisti, dei musicisti e di tutti i formatori in questo campo.

Un aspetto fondamentale, a me particolarmente caro, desidero mettere in rilievo a tale proposito: come, cioè, da san Pio X fino ad oggi si riscontri, pur nella naturale evoluzione, la sostanziale continuità del Magistero sulla musica sacra nella Liturgia. In particolare, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, alla luce della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, hanno voluto ribadire il fine della musica sacra, cioè "la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli" (n. 112), e i criteri fondamentali della tradizione, che mi limito a richiamare: il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi. A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, "vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio", tenendo sempre ben presente che questi due concetti - che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano - si integrano a vicenda perché "la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso" (Discorso al Pontificio Istituto Liturgico, 6 maggio 2011).

Tutto questo, venerato Fratello, forma, per così dire, il "pane quotidiano" della vita e del lavoro nel Pontificio Istituto di Musica Sacra. Sulla base di questi solidi e sicuri elementi, a cui si aggiunge un’esperienza ormai secolare, vi incoraggio a portare avanti con rinnovato slancio e impegno il vostro servizio nella formazione professionale degli studenti, perché acquisiscano una seria e profonda competenza nelle varie discipline della musica sacra. Così, codesto Pontificio Istituto continuerà ad offrire un valido contributo per la formazione, in questo campo, dei Pastori e dei fedeli laici nelle varie Chiese particolari, favorendo, anche, un adeguato discernimento della qualità delle composizioni musicali utilizzate nelle celebrazioni liturgiche. Per queste importanti finalità potete contare sulla mia costante sollecitudine, accompagnata dal particolare ricordo nella preghiera, che affido alla celeste intercessione della Beata Vergine Maria e di santa Cecilia, mentre, auspicando copiosi frutti dalle celebrazioni centenarie, di cuore imparto a Lei, al Preside, ai Docenti, al personale e a tutti gli allievi dell’Istituto, una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 13 maggio 2011

 

BENEDICTUS PP. XVI




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/08/2013 10:35

La Liturgia nel pensiero di Benedetto XVI
"La Chiesa ha nei suoi confronti un debito di gratitudine per la chiarezza di pensiero, l'invito alla bellezza e la promozione della liturgia"


di Giles D. Dimock da The Institute for Sacred Architecture, vol 23 - spring 2013
trad. it. di d. G. Rizzieri del(28/07/2013), da Sito della Diocesi di Porto Santa Rufina
 
 
 
 
 
La Liturgia nel pensiero di Benedetto XVI
 
"La Chiesa nei suoi confronti un debito di gratitudine per la chiarezza di pensiero, l'invito alla bellezza e la promozione della liturgia"
 
 
 
di Giles D. Dimock
 
Benedetto XVI ama la liturgia, intesa come la dimensione nella quale il nostro essere viene assimilato al Mistero divino della salvezza, e ha promosso tale visione durante il pontificato con i suoi scritti, con la predicazione e il suo magistero. La sua spiritualità sembra avere non solo un'impronta agostiniana, ma mostra anche un'influenza dell'originario movimento liturgico tedesco, favorito in gran parte dai Benedettini verso i quali egli ha sempre avuto una grande devozione. In questo articolo, esamineremo il suo sviluppo liturgico da giovane in Germania fino al suo operato sulla cattedra di Pietro, per il quale siamo tutti grati.
 
 
 

La giovinezza

 
Il pensiero liturgico di Benedetto XVI si può ritrovare in gran parte nella sua autobiografia "La mia vita", che ne descrive la vita fino alla sua venuta a Roma. Qui leggiamo il grande effetto che la liturgia ebbe su di lui quando era ragazzo nella sua chiesa parrocchiale, soprattutto la spogliazione della chiesa durante il sobrio tempo quaresimale. Fu ancor più introdotto ai santi misteri quando i genitori gli regalarono un messalino per i bambini simile al loro messale tascabile.

 
Al suo ingresso in seminario, scoprì il nuovo personalismo di Martin Buber insieme all'insegnamento di San Tommaso, la cui "logica cristallina" era "troppo racchiusa in sé, almeno nella rigida neo-scolastica" con cui veniva presentata. All'università, fu influenzato  da Michael Schmaus che aveva abbandonato la neo-scolastica per il nuovo movimento liturgico che presentava la fede come un ritorno alle Sacre Scritture e ai Padri della Chiesa. Mi piace inserire qui una nota personale: mi sento in piena sintonia con lui, poiché anch'io lasciai una formazione tomistica estremamente rigida per studiare la liturgia, e più tardi riscoprii la grande sapienza del nostro fratello maggiore, San Tommaso. Era ormai nell'aria la "nuova teologia". Un suo professore era influenzato dalla "teologia del mistero" di Dom Odo Casel, OSB, mentre un altro vedeva nella Messa il momento centrale di ogni giorno, e lo studio della Sacra Scrittura era considerato l'anima della teologia... tutti temi che sarebbero stati ripresi dal Vaticano II.
 
Tuttavia agli inizi, il giovane Joseph Ratzinger aveva delle riserve: un certo "razionalismo e storicismo unilaterali" del movimento liturgico nel quale alcuni vedevano "valida soltanto una forma della liturgia", cioè quella della Chiesa primitiva. Non così invece per De Lubac, il cui insegnamento sull'unità della Chiesa sostenuta dall'Eucaristia influì profondamente il suo pensiero.
 
 
 

Il Vaticano II

 
Il racconto di Ratzinger sulla considerazione della liturgia al Vaticano II - al quale partecipò come 'peritus' - è interessante. Egli afferma che lo schema liturgico al Concilio non avrebbe suscitato controversie poiché nessuno si aspettava grandi cambiamenti. Ma avvenne che dalla Francia e dalla Germania ci furono pressioni per riformare la Messa secondo la forma più pura del Rito Romano in conformità alle riforme di Pio XI e Pio XII. Una Messa secondo tali linee fu respinta da un sinodo di Padri conciliari nel 1967, ma ciò nonostante divenne il modello operativo per la nuova Messa. La Sacrosanctum Concilium decretò di mantenere il latino e che i fedeli possano cantare l'Ordinario della Messa in latino, e allo stesso modo i chierici possano pregare l'Ufficio. Ben presto ciò divenne una questione controversa (Vittorio Messori, "Rapporto sulla Chiesa", intervista con il Cardinale Ratzinger).
 
 
 

Il Messale di Paolo VI

 
La reazione di Ratzinger all'introduzione del Messale di Paolo VI fu in qualche modo negativa, ma non del tutto. La proibizione del Messale di Pio V lo rattristò (in realtà solo un rifacimento del Messale del Rito Romano usato fin dal tempo di San Gregorio Magno). Ritenne che questa fosse una breccia nella prassi, per cui vediamo qui già un'anticipazione del Motu Proprio che avrebbe emanato da Papa. Sosteneva che molto di quanto doveva essere mantenuto fosse stato cancellato e che molti tesori fossero scomparsi nella nuova liturgia creata da una commissione, e spesso celebrata in modo trascurato e priva di qualità artistiche. Per cui chi critica l'attuale liturgia come banale in una comunità autocelebrativa, non necessariamente è integralista. La sua critica riguarda il fatto che "la liturgia non è celebrata in modo che il dato del grande mistero di Dio in mezzo a noi mediante l'azione della Chiesa risplenda". La Chiesa ci dona il rituale, ma non può generare la potenza, l'energia operante in tali riti, è infatti il totalmente Altro che agisce. Noi possiamo partecipare di fatto e realmente e personalmente spesso in profondo silenzio. Partecipiamo al Mistero che rimane incomprensibile.

 
Nel suo libro "La festa della fede", Joseph Ratzinger afferma di essere riconoscente per il nuovo Messale di Paolo VI in quanto contiene nuove preghiere e prefazi, molti dei quali provenienti da altri riti occidentali: il gallicano, il mozarabico e l'ambrosiano. Considera fuorvianti le preghiere all'offertorio della vecchia Messa, in quanto tendevano a identificare l'offerta del Sacrificio di Cristo con questa parte della Messa, invece che alla consacrazione stessa. Ratzinger criticava soprattutto il modo non tradizionale di interpretare la nuova liturgia, con una ermeneutica di discontinuità piuttosto che di continuità. Si rallegrò perciò dell'indulto di Papa Giovanni Paolo II che egli forse volle proseguire con il suo Motu Proprio.
 
 
 

Il sacrificio

 
Un grande tema teologico caro a Ratzinger concerne la convinzione che "l'Eucaristia è più di un convito fraterno". Primariamente è il sacrificio della Chiesa in cui il Signore prega con noi e si dona a noi. In "Feast of Faith", il futuro Papa chiarisce che se l'Eucaristia ha "il contesto di una cena", la "Eucharistia è la preghiera di anamnesi o sacrificio verbale nel quale il sacrificio di Cristo si rende presente". Pertanto, non è mai inutile parteciparvi, anche chi non può ricevere la comunione, come i divorziati e i cattolici risposati. Tale sacrificio è una festa in cui trascendiamo noi stessi in qualcosa di più grande... entriamo nella gioia cosmica della Risurrezione, il Mysterium Paschale. Nel suo libro "God is near Us", egli vede l'Eucaristia come la fonte di vita dal fianco aperto di Cristo in sacrificio, pienamente presente a tutti noi sparsi nel mondo e ai santi in cielo.
 
 
 

L'adorazione

 
Se Cristo è presente in modo reale nell'Eucaristia con il suo corpo risorto, noi rispondiamo non solo ricevendolo, ma pure adorandolo con gesti e posture, con la genuflessione e con il silenzio. La riscoperta dell'aspetto di convito non elimina la necessità dell'adorazione. Si è dimenticato, egli dice, che adorare è intensificare la comunione, tanto è vero che la processione del Corpus Christi è una intensificazione della processione di comunione, un camminare con il Signore. In "Feast of Faith", racconta la storia di questa processione: il Signore come capo di Stato, visita le strade di ogni villaggio, una processione trionfale di Cristo Vincitore nella sua lotta contro la morte.
E' una bella pratica anche se non è di origine patristica ma medievale, la Chiesa infatti è sempre viva e sia la Chiesa del Medio Evo che quella dell'era barocca svilupparono una profondità liturgica che deve essere bene esaminata prima di abbandonarla. Nel libro "Spirit of the Liturgy", il nostro autore sottolinea che il dibattito medievale sulla transustanziazione ha dato origine ai tabernacoli di ogni sorta, esposizione, ostensori, processioni: "tutti errori medievali" secondo alcuni, Ratzinger però non è affatto d'accordo. Egli fa risalire la custodia eucaristica alla Chiesa primitiva che la riservava per i malati, e attribuisce all'evangelizzazione francescana e domenicana l'enfasi sull'Eucaristia mediante le colombe eucaristiche, le nicchie per i vasi sacri, e le torri sacramentarie costruite per custodire l'Eucaristia.

Afferma che questa devozione medievale fu "un meraviglioso risveglio spirituale" e che "una chiesa senza la presenza eucaristica è morta", il che mi ritrova perfettamente d'accordo. Concludiamo questo paragrafo con la sua osservazione sul fatto che se l'Eucaristia è il centro della vita della Chiesa, ciò presuppone gli altri sacramenti a cui si riferiscono. Presuppone anche preghiera personale, familiare, extra liturgica come la Via Crucis, il Rosario e in particolare la devozione alla Madonna.
 
 
 

L'architettura

 
Il nostro autore ha una prospettiva ben definita sull'architettura sacra. Nel suo "Introduzione allo spirito della Liturgia", cita Bouyer per il concetto che come la sinagoga rifletteva la presenza di Dio a Gerusalemme, così le prime chiese erano volte verso oriente dove sorge il sole, segno di Cristo Sole di giustizia che esce "come sposo dalla stanza nuziale" (Salmo 19). Camminiamo verso Cieli nuovi e terra nuova e verso Cristo luce del mondo. L'immagine di Cristo in questo modo si fonde presto con l'immagine della croce sull'abside orientale della chiesa, secondo Ratzinger. L'altare sotto la croce nell'abside è "il luogo dove si apre il cielo" e dove noi siamo condotti alla gloria eterna. Seguendo Bouyer, sottolinea come nelle prime chiese siriane i fedeli si riunivano dapprima attorno al presbiterio per la Liturgia della Parola, e poi si accostavano all'altare e all'oriente per l'Eucaristia, volti insieme al celebrante nella stessa direzione, "conversi ad Dominum", guardando ad oriente.

A Roma, la basilica di San Pietro a causa della topografia della collina vaticana, era volta non a oriente ma ad occidente, e l'altare al centro della navata si volgeva a oriente attraverso le porte principali. Quando San Gregorio Magno fece portare avanti l'altare sulla tomba di San Pietro, pose le basi per il successivo sviluppo della Messa 'versus populum'. Altre chiese a Roma copiarono San Pietro per la sua direzione verso il popolo (ma non si hanno riscontri fuori Roma), e ciò divenne l'ideale del rinnovamento liturgico anche se non fu esplicitamente menzionato nella Sacrosanctum Concilium del Vaticano II. Ratzinger mantiene la forte convinzione che sia più importante il mandato che tutti si volgano ad Dominum, piuttosto che sacerdote e fedeli si pongano l'uno di fronte agli altri. Riorientare tante chiese sarebbe un compito improbo e costoso, per cui egli propone di appendere una croce sospesa sull'altare o di collocarla sull'altare stesso, in modo che tutti sarebbero orientati ad Dominum invece che l'uno verso gli altri. Coloro che hanno partecipato a Messe papali in San Pietro o hanno assistito a quelle celebrate dal Papa nella sua visita in altri Paesi, ricordano che la croce (crocifisso) era sempre sull'altare davanti al Papa, e spesso anche le candele.
 
 
 

La bellezza

 
Ratzinger è assai attratto dalla bellezza come irradiazione della verità e dichiara in "Feast of Faith" che i cristiani devono fare della chiesa edificio un luogo in cui la bellezza sia di casa, e con drammaticità afferma che senza bellezza il mondo diventa l'ultimo cerchio dell'inferno. I teologi che non "amano l'arte, la poesia, la musica e la natura possono essere pericolosi (perché) la cecità e la sordità verso il bello non sono incidentali, ma si riflettono necessariamente nella teologia". Le immagini sacre sono necessarie e tutte le forme storiche di arte dalla cristianità primitiva al barocco pongono i principi dell'arte sacra nel futuro. Non si deve buttare via tutta l'arte che si è formata da San Gregorio Magno in poi. La solennità e la bellezza sono ricchezze di tutti (compresi i poveri) che le desiderano ardentemente e che sanno perfino privarsi del necessario pur di tributare onore a Dio.
 
 
 

La musica

 
Musicista egli stesso, Benedetto XVI si è molto impegnato ad incoraggiare la buona musica sacra, dedicando perfino un libro all'argomento "A new song for the Lord". Suo fratello Georg sacerdote era direttore della corale della grande cattedrale di Regensburg, il cui nome è sinonimo della grande tradizione del bel canto e della eccellente polifonia. Benedetto pensa che in nome della partecipazione popolare, abbiamo dato alla gente "musica di servizio", vale a dire banale e monotona, al suo minimo denominatore comune. La liturgia semplice non deve essere banale, perché la vera semplicità viene solo da una ricchezza spirituale, culturale e storica.

La Chiesa deve suscitare la voce del cosmo, magnificarne la gloria facendo sì che esso diventi anche glorioso, bello, abitabile e amato. Egli cita San Tommaso d'Aquino nella II-IIae della Summa q 91, a I, resp. 1 poiché il gaudio nel Signore, la gioia condivisa per essere alla Sua presenza, è l'effetto della nostra lode che ci fa ascendere a Dio per essere condotti a un senso di riverenza, essendo "l'orazione vocale necessaria non per Dio, ma per l'orante". L'uomo vuole cantare, afferma Sant'Agostino, perché "amare è cantare", ma anche l'ascolto è una forma di partecipazione: "ascoltare la grande musica è partecipazione interiore così come ascoltare il coro che canta grandi brani di musica corale rallegra il cuore ed eleva lo spirito", e l'assemblea può unirsi alla bella e semplice musica.
 
 

L'esortazione apostolica Sacramentum Caritatis

 
Nell'Esortazione Apostolica sull'Eucaristia 'Sacramentum Caritatis' (pubblicata dopo il Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia dell'ottobre 2005), Benedetto XVI, nel suo primo magistero pontificio sulla liturgia, articola - secondo il suo modo originale - la classica fede cattolica sulla Eucaristia come mistero e sacrificio. Viene trattata la relazione della SS.ma Trinità con questo mistero e in particolare lo Spirito Santo, la relazione della Chiesa con l'Eucaristia, e il rapporto con gli altri sacramenti. Infine si rapporta l'Eucaristia alla escatologia e alla Beata Vergine Maria.
 
E' da sottolineare la sua interpretazione dell'ars celebrandi dell'Eucaristia e l'enfasi che pone al rito stesso, ricordando che questo è il modo migliore per garantire una actuosa participatio (SC 38). Ci sollecita inoltre al rispetto dei libri liturgici, ai colori liturgici dei paramenti, all'arredo e al luogo sacro per l'arte, le parole, i movimenti del corpo e i silenzi che nella liturgia "hanno una varietà di registri di comunicazione che consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l'essere umano" (SC 40). Pone in luce l'architettura della chiesa e la sua disposizione per la celebrazione dei sacri misteri, e proponendo la collocazione del tabernacolo, che deve essere segnalato da una lampada e facilmente visibile da tutti nella chiesa. Si possono usare vecchi altari maggiori oppure un altare centrale nel presbiterio, purché non vi stia davanti la cattedra del celebrante. Si possono usare cappelle per la custodia eucaristica, secondo il giudizio dell'Ordinario (SC 69).

La musica liturgica deve essere bella nel rispetto del grande patrimonio ecclesiale. Tratta anche la struttura della Messa, la liturgia della Parola e l'omelia. Sottolinea l'esigenza di una buona predicazione basata sui testi del Lezionario, senza temere di usare le quattro colonne del Catechismo: il Credo, i Sacramenti, i 10 Comandamenti, e la Preghiera (SC 46). Nella liturgia eucaristica, invita a sapersi controllare nello scambiarsi il segno della pace (in un'altra occasione, ha proposto di spostare il segno della pace al termine della Liturgia della Parola 'cfr. S. Giustino'). Ricorda la partecipazione attiva interiore (SC 52)e l'adorazione eucaristica (SC 66-68). Solleva la questione di grandi concelebrazioni che possono distogliere dall'attenzione, l'unità del sacerdozio e l'obbligo di studiare il latino per quelli che si preparano al sacerdozio in modo da poter celebrare e cantare in latino (SC 62).
 
 
 
 
Il motu proprio Summorum Pontificum

 
Papa Benedetto XVI ci ha dunque offerto una splendida teologia dell'Eucaristia nella Sacramentum Caritatis e ha altresì indicato una nuova direzione alla vita liturgica della Chiesa con il suo Motu Proprio che ha reso disponibile la Messa in latino di San Pio V.
 
Benedetto XVI nel documento sottolinea il ruolo dei Papi nell'assicurare rituali degni da offrire alla suprema Maestà e le Chiese particolari concorrono con la Chiesa universale non solo nella dottrina ma anche nei segni sacramentali e nelle consuetudini universalmente accettate dalla tradizione apostolica, che devono essere osservati non soltanto per evitare gli errori ma pure per trasmettere l'integrità della fede, perché lex orandi statuit lex credendi (San Prospero di Aquitania). Elogia poi San Gregorio Magno che contribuì a codificare il Rito Romano e inviò il grande Ordine di San Benedetto in tutta Europa. E rende omaggio al santo domenicano, Papa Pio V, per il rinnovamento di quel medesimo rito al tempo del Concilio di Trento.
 
Menziona la radicale riforma del Messale Romano di Papa Paolo VI e la sua traduzione in vernacolare, come pure la terza edizione tipica di Papa Giovanni Paolo II. Tuttavia, nota che "non sono pochi" gli affezionati al vecchio rito e quello stesso Papa lo aveva permesso a certe condizioni nel 1984 (Quattuor Adhinc Annis) e successivamente i vescovi esortarono ad essere generosi nel permetterlo ai devoti del vecchio rito nel 1988 (Ecclesia Dei). Considerando come ci fosse ancora necessità, dopo aver consultato il Concistoro dei Cardinali nel 2000, Papa Benedetto pubblicò il Motu Proprio Summorum Pontificum il 7 luglio 2007, con il quale autorizza i sacerdoti a celebrare la Messa del Messale del Beato Giovanni XXIII.

Le disposizioni sono le seguenti:

 
Nella lettera accompagnatoria il Papa esprime il timore di alcuni secondo i quali questa concessione sarebbe un voltare le spalle al Vaticano II. Afferma che la forma ordinaria per i cattolici continuerà ad essere il rito corrente. Alcuni ritengono che questo porterà disunione nella Chiesa. Il Papa chiarisce che l'uso del vecchio rito richiede formazione liturgica, conoscenza del Messale e del latino, cosa non possibile per tutti. Un uso che sarà perciò limitato. Osserva che il duplice uso del Rito Romano sarà mutualmente arricchente, con nuovi santi e prefazi per il vecchio Messale e maggiore riverenza per la Messa nel nuovo Messale. Esprime la speranza che ciò porti una più grande unità nella Chiesa, soprattutto da parte dei dissidenti a destra, come è già avvenuto.

 
Il Papa ritorna sulla continuità della tradizione della Chiesa, che aveva già ricordato negli auguri natalizi alla Curia nel 2005. Non sorprende la continuità nel suo approccio con la liturgia. Il nuovo Maestro delle celebrazioni pontificie, Mons. Guido Marini, ha estratto ricchezze della tradizione che erano state dimenticate e di cui oggi ci possiamo riappropriare. Nelle Messe papali vengono indossate magnifiche casule, e in altri momenti permane il più fluente gotico. Vecchi troni e altri paramenti pontifici vengono rispolverati, non per un ritorno al trionfalismo ma come oggetti che manifestano la bellezza al servizio della liturgia. La ristrutturazione della Congregazione per il Culto Divino ha assegnato ora un ufficio per promuovere l'arte, l'architettura e la musica liturgica. Il direttore di questo nuovo ufficio è l'abate Michael Zelinski, OSB, esperto in canto gregoriano. Sono da attendersi cose egregie in futuro.

 
Abbiamo dunque percorso il pensiero liturgico di Joseph Ratzinger nel suo sviluppo dall'adolescenza alle esperienze da seminarista e da perito al Vaticano II, da professore universitario, Arcivescovo di Monaco, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e infine da Papa, e tutto con una costante coerenza di principio. Vedremo come la sua teologia e l'indirizzo pastorale toccherà la liturgia della Chiesa e il suo desiderio di continuità, ma credo che prometta bene e certamente costituisce la sua eredità alla Chiesa del futuro. Abbiamo un gran debito di gratitudine a Papa Benedetto per la chiarezza di pensiero, l'invito alla bellezza e la promozione della liturgia, e ora egli prega per noi.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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