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AVVENTO E NATALE CON BENEDETTO XVI

Ultimo Aggiornamento: 13/12/2014 17:00
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Sesso: Femminile
02/12/2014 18:23





Riepiloghiamo i precedenti lavori postati dal medesimo libro di Benedetto XVI "L'Infanzia di Gesù di Nazareth" il terzo della trilogia:

Benedetto XVI spiega le parole annunciate a Maria

Ratzinger Benedetto XVI ci accompagna nel Tempo di Avvento

La nascita di Gesù raccontata da Benedetto XVI

(ricordiamo di cliccare sulle immagini per ingrandirle)


4. Concepimento e nascita di Gesù secondo Matteo


Dopo la riflessione sulla narrazione lucana dell’Annunciazione dobbiamo ascoltare ancora la tradizione del Vangelo di Matteo riguardo allo stesso avvenimento.

Al contrario di Luca, Matteo ne parla esclusivamente dalla prospettiva di san Giuseppe che, in quanto discendente di Davide, funge da collegamento della figura di Gesù con la promessa fatta a Davide. Matteo ci informa innanzitutto del fatto che Maria era fidanzata con Giuseppe. Secondo il diritto giudaico allora vigente, il fidanzamento significava ormai un legame giuridico tra i due partner, così che Maria poteva essere chiamata moglie di Giuseppe, anche se l’atto del suo accoglimento in casa, che fondava la comunione matrimoniale, non era ancora avvenuto.

Da fidanzata, «la donna viveva ancora nella casa dei genitori e restava sotto la patria potestas. Dopo un anno si svolgeva poi l’accoglimento in casa ovvero la celebrazione del matrimonio» (Gnilka, Das Matthäusevangelium I/1, p. 17).

Ora Giuseppe dovette constatare che Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18).

Ma ciò che Matteo anticipa qui sulla provenienza del bambino, Giuseppe ancora non lo sa. Egli deve supporre che Maria abbia rotto il fidanzamento e secondo la Legge - deve abbandonarla; al riguardo, egli può decidere tra un atto giuridico pubblico e una forma privata: può portare Maria davanti a un tribunale o rilasciarle una lettera privata di ripudio. Giuseppe sceglie la seconda via, per non «accusarla pubblicamente» (1,19).

In questa decisione Matteo vede un segno che Giuseppe era «uomo giusto». La qualificazione di Giuseppe come uomo giusto (zaddik) va ben al di là della decisione di quel momento: offre un quadro completo di san Giuseppe e al contempo lo inserisce tra le grandi figure dell’Antica Alleanza - a cominciare da Abramo, il giusto. Se si può dire che la forma di religiosità presente nel Nuovo Testamento si riassume nella parola «fedele», l’insieme di una vita secondo la Scrittura si compendia, nell’Antico Testamento, nel termine «giusto».

Il Salmo 1 offre l’immagine classica del «giusto». Quindi possiamo considerarlo quasi come un ritratto della figura spirituale di san Giuseppe.Giusto, secondo questo Salmo, è un uomo che vive in intenso contatto con la Parola di Dio; che «nella legge del Signore trova la sua gioia» (v. 2).

È come un albero che, piantato lungo corsi d’acqua, porta costantemente il suo frutto. Con l’immagine dei corsi d’acqua, dei quali esso si nutre, s’intende naturalmente la Parola viva di Dio, in cui il giusto fa calare le radici della sua esistenza. La volontà di Dio per lui non è una legge imposta dall’esterno, ma «gioia».

 La legge gli diventa spontaneamente «vangelo», buona novella, perché egli la interpreta in atteggiamento di apertura personale e piena di amore verso Dio, e così impara a comprenderla e a viverla dal di dentro. Se il Salmo 1 considera come caratteristica dell’«uomo beato» il suo dimorare nella Torà, nella Parola di Dio, il testo parallelo in Geremia 17,7 chiama «benedetto» colui che «confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia».

Qui emerge, in modo più forte che non nel Salmo, il carattere personale della giustizia - il fidarsi di Dio, un atteggiamento che dà speranza all’uomo.

Anche se ambedue i testi non parlano direttamente del giusto, bensì dell’uomo beato o benedetto, possiamo tuttavia considerarli, con Hans-Joachim Kraus, come l’immagine autentica del giusto veterotestamentario e così, a partire da qui, imparare anche che cosa Matteo voglia dirci quando presenta san Giuseppe come «uomo giusto».

Questa immagine dell’uomo, che ha le sue radici nelle acque vive della Parola di Dio, sta sempre nel dialogo con Dio e perciò porta costantemente frutto, questa immagine diventa concreta nell’evento descritto, come pure in tutto ciò che, in seguito, si racconta di Giuseppe di Nazaret. Dopo la scoperta che Giuseppe ha fatto, si tratta di interpretare ed applicare la legge in modo giusto. Egli lo fa con amore: non vuole esporre Maria pubblicamente all’ignominia. Le vuole bene, anche nel momento della grande delusione.

Non incarna quella forma di legalità esteriorizzata che Gesù denuncia in Matteo 23 e contro la quale lotta san Paolo. Egli vive la legge come vangelo, cerca la via dell’unità tra diritto e amore. E così è interiormente preparato al messaggio nuovo, inatteso e umanamente incredibile, che gli verrà da Dio. Mentre l’angelo «entra» da Maria (Lc 1,28), a Giuseppe appare solo nel sogno - in un sogno, però, che è realtà e rivela realtà.

Ancora una volta si mostra a noi un tratto essenziale della figura di san Giuseppe: la sua percettività per il divino e la sua capacità di discernimento.Solo ad una persona intimamente attenta al divino, dotata di una peculiare sensibilità per Dio e per le sue vie, il messaggio di Dio può venire incontro in questa maniera. E la capacità di discernimento è necessaria per riconoscere se si era trattato solo di un sogno, oppure se veramente il messaggero di Dio era venuto da lui e gli aveva parlato. Il messaggio che gli viene partecipato è sconvolgente e richiede una fede eccezionalmente coraggiosa. 



È possibile che Dio abbia veramente parlato? Che Giuseppe, nel sogno, abbia ricevuto la verità - una verità che va al di là di tutto ciò che ci si può attendere? Può essere che Dio abbia agito in questo modo in un essere umano? È possibile che Dio abbia realizzato in questo modo l’inizio di una nuova storia con gli uomini?

Matteo aveva detto prima che Giuseppe stava «considerando interiormente» (enthymethéntos) la questione della giusta reazione alla gravidanza di Maria. Possiamo dunque immaginare come egli lotti ora nel suo intimo con questo messaggio inaudito del sogno: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa.

Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Giuseppe viene interpellato esplicitamente come figlio di Davide, e con ciò è indicato, al tempo stesso, il compito che, in questo evento, gli è assegnato: in quanto destinatario della promessa fatta a Davide, egli deve farsi garante della fedeltà di Dio.

«Non temere» di accettare questo compito, che davvero può suscitare timore. «Non temere» - questo aveva detto l’angelo dell’Annunciazione anche a Maria.

Con la stessa esortazione dell’angelo, Giuseppe ora è coinvolto nel mistero dell’Incarnazione di Dio. Alla comunicazione circa il concepimento del bambino per virtù dello Spirito Santo, segue poi un incarico: Maria «darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Insieme con l’invito di prendere con sé Maria come sua moglie, Giuseppe riceve l’ordine di dare un nome al bambino e così di adottarlo giuridicamente come figlio suo. È lo stesso nome che l’angelo aveva indicato anche a Maria come nome del bambino: Gesù. Il nome Gesù (Yeshua) significa: YHWH è salvezza.

Il messaggero di Dio, che parla a Giuseppe nel sogno, chiarisce in che cosa consiste questa salvezza: «Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati». Con ciò, da una parte, è dato un alto compito teologico, poiché solo Dio stesso può perdonare i peccati.

Il Bambino viene così messo in relazione immediata con Dio, viene collegato direttamente con il potere santo e salvifico di Dio. Dall’altra parte, però, questa definizione della missione del Messia potrebbe apparire anche deludente. L’attesa comune della salvezza è orientata soprattutto verso la concreta situazione penosa di Israele: verso la restaurazione del regno davidico, verso la libertà e l’indipendenza di Israele e con ciò, naturalmente, anche verso il benessere materiale di un popolo in gran parte impoverito.

La promessa del perdono dei peccati appare troppo poco e insieme troppo: troppo, perché si invade la sfera riservata a Dio stesso; troppo poco, perché sembra che non sia presa in considerazione la sofferenza concreta di Israele e il suo reale bisogno di salvezza.

In fondo, già in queste parole è anticipata tutta la controversia sulla messianicità di Gesù: ha veramente redento Israele o forse non è rimasto tutto come prima?

È la missione, così come Egli l’ha vissuta, la risposta alla promessa o non lo è?

Sicuramente non corrisponde all’attesa immediata della salvezza messianica da parte degli uomini, che si sentivano oppressi non tanto dai loro peccati, quanto piuttosto dalle loro sofferenze, dalla loro mancanza di libertà, dalla miseria della loro esistenza.

Gesù stesso ha sollevato in modo drastico la questione circa la priorità del bisogno umano di redenzione, quando i quattro uomini che, a causa della folla, non poterono far entrare il paralitico attraverso la porta, lo calarono giù dal tetto e Glielo posero davanti. L’esistenza stessa del sofferente era una preghiera, un grido che chiedeva salvezza, un grido a cui Gesù, in pieno contrasto con l’attesa dei portatori e del malato stesso, rispose con le parole:«Figlio, ti sono perdonati i peccati» (Mc 2,5). Proprio questo la gente non si aspettava.

Proprio questo non rientrava nell’interesse della gente.

Il paralitico doveva poter camminare, non essere liberato dai peccati.

Gli scribi contestavano la presunzione teologica delle parole di Gesù; il malato e gli uomini intorno erano delusi, perché Gesù sembrava ignorare il vero bisogno di quest’uomo. Io ritengo tutta la scena assolutamente significativa per la questione circa la missione di Gesù, così come viene descritta per la prima volta nella parola dell’angelo a Giuseppe. Qui viene accolta sia la critica degli scribi che l’attesa silenziosa della gente. Che Gesù sia in grado di perdonare i peccati, lo mostra adesso comandando al malato di prendere la sua barella per andare via guarito.

Con questo, però, rimane salvaguardata la priorità del perdono dei peccati quale fondamento di ogni vera guarigione dell’uomo. 



L’uomo è un essere relazionale. Se è disturbata la prima, la fondamentale relazione dell’uomo - la relazione con Dio -, allora non c’è più alcun’altra cosa che possa veramente essere in ordine. Di questa priorità si tratta nel messaggio e nell’operare di Gesù: Egli vuole, in primo luogo, richiamare l’attenzione dell’uomo al nocciolo del suo male e mostrargli: se non sarai guarito in questo, allora, nonostante tutte le cose buone che potrai trovare, non sarai guarito veramente.

In tal senso, nella spiegazione del nome di Gesù data a Giuseppe nel sogno sta già una chiarificazione fondamentale su come sia da concepire la salvezza dell’uomo e in che cosa consista, pertanto, il compito essenziale del portatore della salvezza.

L’annuncio dell’angelo a Giuseppe circa la concezione e nascita verginali di Gesù, in Matteo viene integrato da altre due affermazioni.

Innanzitutto l’evangelista mostra che con ciò si compie quanto aveva predetto la Scrittura. Questo fa parte della struttura fondamentale del suo Vangelo: fornire per tutti gli eventi essenziali una «prova dalla Scrittura» - rendere evidente che parole della Scrittura hanno atteso tali eventi, li hanno preparati dall’interno.

Così Matteo mostra che, nella storia di Gesù, le parole antiche diventano realtà. Ma mostra, al tempo stesso, che la storia di Gesù è vera, proveniente cioè dalla Parola di Dio, sostenuta e tessuta da essa. Dopo la citazione biblica, Matteo porta a termine la narrazione. Riferisce che Giuseppe si alzò dal sonno e fece ciò che gli era stato comandato dall’angelo del Signore. Prese con sé Maria, sua sposa, ma non la «conobbe» prima che ella avesse dato alla luce il Figlio. Così si sottolinea, ancora una volta, che il Figlio non è generato da lui, ma dallo Spirito Santo. Infine, l’evangelista aggiunge: «Egli lo chiamò Gesù» (Mt 1,25).

Ancora una volta, Giuseppe ci viene qui presentato molto concretamente come «uomo giusto»: il suo essere interiormente vigilante per Dio - un atteggiamento grazie al quale può accogliere e comprendere il messaggio - diventa spontaneamente obbedienza. Se prima aveva fatto congetture con le proprie capacità, ora sa che cosa deve fare come cosa giusta. Da uomo giusto egli segue il comando di Dio, come dice il Salmo 1.


Ora, però, dobbiamo ascoltare la prova scritturistica presentata da Matteo, che - come poteva essere diversamente? - è diventata oggetto di ampie discussioni esegetiche.

Il versetto suona così: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,22s; cfr. Is 7,14). Cerchiamo di comprendere, anzitutto nel suo originario contesto storico, questa frase del profeta, diventata attraverso Matteo un grande e fondamentale testo cristologico, per vedere poi in che maniera si rispecchi in essa il mistero di Gesù Cristo. Eccezionalmente possiamo fissare la datazione di questo versetto di Isaia in modo molto preciso: si colloca nell’anno 733 a.C. Il re assiro Tiglat-Pilèser III, con una campagna militare improvvisa, aveva respinto l’inizio di un’insurrezione degli Stati siro-palestinesi.

Ora, i re Rezin di Damasco/Siria e Pekach di Israele si unirono in una coalizione contro la grande potenza assira. Poiché non erano riusciti a persuadere il re Acaz di Giuda ad aderire alla loro alleanza, decisero di scendere in campo contro il re di Gerusalemme per includere il suo Paese nella loro coalizione. Acaz e il suo popolo - ben comprensibilmente - sono colti da paura di fronte all’alleanza nemica; il cuore del re e del popolo si agita «come si agitano gli alberi della foresta per il vento» (Is 7,2).

Ciononostante, Acaz - evidentemente un politico che calcola con prudenza e freddezza - rimane nella linea già presa: non vuole aderire ad un’alleanza anti-assira alla quale, di fronte all’enorme prevalenza della grande potenza, chiaramente non dà alcuna chance.

Stipula invece un patto di protezione con l’Assiria - cosa che, da un lato, gli garantisce la sicurezza e salva il suo Paese dalla distruzione, dall’altro, però, esige come prezzo l’adorazione delle divinità statali della potenza protettrice. Di fatto, fu dopo la stipulazione del patto, concluso da Acaz con l’Assiria malgrado l’avvertimento del profeta Isaia, che si arrivò alla costruzione di un altare secondo il modello assiro nel Tempio di Gerusalemme (cfr. 2 Re 16,11ss; cfr. Kaiser, Der Prophet Jesaja, p. 73).

Nel momento a cui si riferisce la citazione di Isaia riportata da Matteo non si era ancora giunti fino a questo punto. Una cosa, però, era chiara: se Acaz avesse stipulato il patto con il grande re assiro, ciò avrebbe significato che egli, come uomo politico, si fidava più del potere del re che non della potenza di Dio, la quale, evidentemente, non gli pareva sufficientemente reale. 




In ultima analisi, quindi, si trattava qui non di un problema politico, ma di una questione di fede.

Isaia, in tale contesto, dice al re che non deve aver paura di fronte a «quei due avanzi di tizzoni fumanti», Siria ed Israele (Efraim), e che quindi non c’è alcun motivo per il patto di protezione con l’Assiria: deve puntare sulla fede e non su un calcolo politico. In modo del tutto inusuale, invita Acaz a chiedere un segno da Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto.

La risposta del re ebraico sembra devota: non vuole tentare Dio e non vuole chiedere alcun segno (cfr. Is 7,10-12). Il profeta che parla da parte di Dio non si lascia mettere in imbarazzo. Egli sa che la rinuncia del re a un segno non è - come sembra - un’espressione di fede, ma, al contrario, un indice del fatto che non vuol essere disturbato nella sua «realpolitik».

A questo punto, il profeta annuncia che ora il Signore stesso darà un segno: «Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele [Dio con noi]» (Is 7,14).

Qual è il segno che con ciò viene promesso ad Acaz? Matteo, e con lui tutta la tradizione cristiana, vi vede un annuncio della nascita di Gesù dalla Vergine Maria - Gesù che, veramente, non porta il nome di Emmanuele, bensì è l’Emmanuele, come cerca di illustrare l’intero racconto dei Vangeli. Quest’uomo - ci mostrano i Vangeli - è Egli stesso la permanenza di Dio con gli uomini. È vero uomo e, insieme, Dio, vero Figlio di Dio.

Ma Isaia ha compreso così il segno annunciato?

Su questo, da una parte, anzitutto si obietta - e con ragione - che, appunto, ad Acaz viene annunciato un segno, che in quel momento gli sarebbe stato dato per portarlo alla fede nel Dio di Israele quale vero padrone del mondo. Quindi, il segno dovrebbe essere cercato ed individuato nel contesto storico contemporaneo in cui è stato annunciato dal profeta.

Conformemente, l’esegesi, con grande acribia e con tutte le possibilità dell’erudizione storica, è andata alla ricerca di una spiegazione storica contemporanea allo svolgersi dei fatti - ed ha fallito. Rudolf Kilian, nel suo commento ad Isaia, ha descritto brevemente i tentativi essenziali di questo genere. Ne mostra quattro tipi principali. Il primo dice: con il termine «Emmanuele» ci si riferisce al Messia. L’idea del Messia, però, si è pienamente sviluppata solo nel periodo dell’esilio e poi successivamente.

Qui potrebbe quindi essere trovata tutt’al più un’anticipazione di questa figura; una corrispondenza storica contemporanea non è individuabile.

La seconda ipotesi suppone che il «Dio con noi» sia un figlio del re Acaz, forse Ezechia - una tesi che non trova alcun riscontro.

La terza teoria immagina che si tratti di uno dei figli del profeta Isaia, i quali ambedue portano nomi profetici: Seariasùb: «un resto ritornerà», e Maher-salal-cas-baz: «pronto bottino - veloce saccheggio» (cfr. Is 7,3; 8,3).

Ma anche questo tentativo non risulta convincente.

Una quarta tesi s’impegna per un’interpretazione collettiva: Emmanuele sarebbe il nuovo Israele e la ‘almah («vergine») sarebbe «nient’altro che la figura simbolica di Sion».

Ma il contesto del profeta non offre alcun indizio per una tale concezione, anche perché neppure questo potrebbe essere un segno storico contemporaneo. Kilian conclude la sua analisi dei vari tipi di interpretazione così: «Come esito di questa visione d’insieme, risulta dunque che neanche uno dei tentativi di interpretazione riesce veramente a convincere. Intorno alla madre e al figlio resta il mistero, almeno per il lettore di oggi, ma presumibilmente anche per l’ascoltatore di allora, forse addirittura per il profeta stesso» (Jesaja, p. 62).

Quindi, che cosa dobbiamo dire? L’affermazione circa la vergine che dà alla luce l’Emmanuele, analogamente al grande carme del Servo di YHWH in Isaia 53, è una parola in attesa. Nel suo contesto storico non si trova alcun riscontro. Resta così una questione aperta: non è parola rivolta soltanto ad Acaz. Neppure è rivolta soltanto a Israele. È rivolta all’umanità. Il segno che Dio stesso annuncia non viene offerto per una determinata situazione politica, ma riguarda l’uomo e la sua storia nel suo insieme.

Non dovevano forse i cristiani sentire questa parola come parola per loro? Non dovevano forse, colpiti dalla parola, arrivare alla certezza: la parola, che sempre stava lì in modo così strano e aspettava di essere decifrata, ora è divenuta realtà? Non dovevano essere convinti: nella nascita di Gesù dalla Vergine Maria, Dio ci ha donato ora questo segno?

L’Emmanuele è venuto. Marius Reiser ha riassunto l’esperienza che fecero i lettori cristiani circa questa parola nella frase: «Il vaticinio del profeta è come un buco di serratura miracolosamente predisposto, nel quale la chiave Cristo entra perfettamente» (Bibelkritik, p. 328). Sì, io credo che proprio oggi, dopo tutta la ricerca affannosa dell’esegesi critica, possiamo condividere, in modo del tutto nuovo, lo stupore per il fatto che una parola dell’anno 733 a.C., rimasta incomprensibile, al momento del concepimento di Gesù Cristo si è avverata - che Dio, in effetti, ci ha dato un grande segno che riguarda il mondo intero.



5. Il parto verginale - mito o verità storica?

Alla fine, però, dobbiamo ora domandarci con tutta serietà: ciò che i due evangelisti Matteo e Luca, in modi diversi e in base a tradizioni diverse, ci riferiscono sul concepimento di Gesù per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, è una realtà storica, un reale evento storico, oppure è una pia leggenda che, a modo suo, vuole esprimere ed interpretare il mistero di Gesù?

Soprattutto a partire da Eduard Norden († 1941) e Martin Dibelius († 1947) si è cercato di far derivare la narrazione della nascita verginale di Gesù dalla storia delle religioni e, apparentemente, è stata fatta una particolare scoperta nei racconti circa la generazione e la nascita dei faraoni egiziani. Un secondo ambito di idee affini si è trovato nell’antico giudaismo, nuovamente in Egitto, in Filone d’Alessandria († dopo il 40 d.C.).

Questi due ambiti di idee, tuttavia, sono molto diversi tra di loro. Nella descrizione della generazione divina dei faraoni, in cui la divinità si avvicina corporalmente alla madre, si tratta, in ultima analisi, della legittimazione teologica del culto al sovrano, di una teologia politica che vuole collocare il re nella sfera del divino e così legittimare la sua pretesa divina.

La descrizione che Filone fa della generazione dei figli dei Patriarchi da un seme divino, invece, ha un carattere allegorico.

«Le mogli dei Patriarchi [...] diventano allegorie delle virtù. In quanto tali, restano incinte da Dio e partoriscono per i loro mariti le virtù da esse impersonate» (Gnilka, Das Matthäusevangelium I/1, p. 25). Fino a che punto, al di là dell’allegoria, si consideri la cosa anche in modo concreto, è difficile da valutare. Una lettura attenta rende evidente che, né nel primo né nel secondo caso, si ha un vero parallelismo con la narrazione della nascita verginale di Gesù.

La stessa cosa vale per testi provenienti dall’ambiente greco-romano, che si credeva di poter citare come modelli pagani della narrazione del concepimento di Gesù per opera dello Spirito Santo: per l’unione tra Zeus ed Alcmena, dalla quale sarebbe nato Ercole; per quella tra Zeus e Danae, dalla quale sarebbe nato Perseo ecc. La differenza delle concezioni è così profonda che, in effetti, non si può parlare di veri paralleli. Nei racconti dei Vangeli rimangono pienamente conservate l’unicità dell’unico Dio e l’infinita differenza tra Dio e la creatura.

Non esiste alcuna confusione, non c’è alcun semidio.

La Parola creatrice di Dio, da sola, opera qualcosa di nuovo. Gesù, nato da Maria, è totalmente uomo e totalmente Dio, senza confusione e senza divisione, come preciserà il Credo di Calcedonia nell’anno 451. Le narrazioni in Matteo e Luca non sono miti ulteriormente sviluppati.

Secondo la loro concezione di fondo, sono saldamente collocati nella tradizione biblica di Dio Creatore e Redentore.

Quanto al loro contenuto concreto, però, provengono dalla tradizione familiare, sono una tradizione trasmessa che conserva l’accaduto. Vorrei considerare come l’unica vera spiegazione di quei racconti ciò che Joachim Gnilka, riferendosi a Gerhard Delling, esprime sotto forma di domanda: «Il mistero della nascita di Gesù [...] forse è stato premesso al Vangelo in un secondo tempo, o non si dimostra in ciò piuttosto che il mistero era noto?

Solo che non si voleva farne troppe parole e renderlo un avvenimento a portata di mano» (Das Matthäusevangelium I/1, p. 30). Mi sembra normale che solo dopo la morte di Maria il mistero potesse diventare pubblico ed entrare nella comune tradizione del cristianesimo nascente.

Ora poteva essere anche inserito nello sviluppo della dottrina cristologica e collegato con la professione che riconosceva in Gesù il Cristo, il Figlio di Dio - ma non nel senso che da un’idea sarebbe stata sviluppata una narrazione, trasformando un’idea in un fatto, bensì viceversa: l’avvenimento, un fatto ora reso noto, diventava oggetto di riflessione, alla ricerca della sua comprensione.

Dall’insieme della figura di Gesù Cristo cadeva una luce su questo evento e, inversamente, a partire dall’evento si capiva anche più profondamente la logica di Dio.

Il mistero dell’inizio illuminava ciò che seguiva e, inversamente, la fede in Cristo già sviluppata aiutava a comprendere l’inizio, la sua densità di significato. Così si è sviluppata la cristologia. Forse è opportuno menzionare a questo punto un testo che, come un presagio del mistero del parto verginale, ha fatto riflettere la cristianità occidentale fin dai primi tempi.

Penso alla quarta egloga di Virgilio che fa parte delle Bucoliche (poesie pastorali), composte all’incirca quarant’anni prima della nascita di Gesù. In mezzo ai versi giocosi sulla vita di campagna, risuona lì all’improvviso un tono molto diverso: viene annunciato l’avvento di un nuovo grande ordine del mondo a partire da ciò che è «integro» (ab integro). «Iam redit et virgo - già ritorna la vergine.» Una nuova progenie discende dall’alto del cielo. Nasce un Bambino con cui finisce la progenie «di ferro».

Che cosa viene promesso lì? Chi è la vergine? Chi è il bambino di cui si parla? Anche qui - come nel caso di Isaia 7,14 - gli studiosi hanno cercato identificazioni storiche che, però, sono finite altrettanto nel vuoto.


Dunque, che cosa viene detto?

Il quadro immaginativo dell’insieme proviene dall’antica raffigurazione del mondo: sullo sfondo sta la dottrina del ciclo degli eoni e del potere del destino. Ma queste idee antiche acquisiscono un’attualità vivace mediante l’attesa secondo cui sarebbe ormai arrivata l’ora di una grande svolta degli eoni.

Ciò che fino a quel momento era stato soltanto uno schema lontano, all’improvviso si rende presente. Nell’epoca di Augusto, dopo tutti gli sconvolgimenti a causa di guerre e di guerre civili, il Paese è attraversato da un’ondata di speranza: ora dovrebbe finalmente iniziare un grande periodo di pace, dovrebbe spuntare un nuovo ordine del mondo.

Di questa atmosfera di attesa della novità fa parte anche la figura della vergine, immagine della purezza, dell’integrità, della partenza «ab integro». E ne fa parte l’attesa del bambino, del «germoglio divino» (deum suboles). Per questo si può forse dire che la figura della Vergine e quella del Bambino divino fanno, in qualche modo, parte delle immagini primordiali della speranza umana, che emergono in momenti di crisi e di attesa, senza che vi siano in prospettiva figure concrete.

Torniamo ai racconti biblici sulla nascita di Gesù dalla Vergine Maria, che aveva concepito il bambino per opera dello Spirito Santo. Questo, allora, è vero? O forse sono state applicate alle figure di Gesù e di sua Madre idee archetipiche?

Chi legge i racconti biblici e li confronta con le tradizioni affini, delle quali poc’anzi si è parlato brevemente, vede subito la profonda differenza. Non solo il confronto con le idee egizie, di cui abbiamo parlato, ma anche il sogno della speranza, che incontriamo in Virgilio, ci conduce in mondi di carattere molto diverso. In Matteo e Luca non troviamo nulla di una svolta cosmica, nulla di contatti fisici tra Dio e gli uomini: ci viene raccontata una storia molto umile e, tuttavia, proprio per questo, di una grandezza sconvolgente.


È l’obbedienza di Maria ad aprire la porta a Dio. La Parola di Dio, il suo Spirito, crea in lei il Bambino.


Lo crea attraverso la porta della sua obbedienza. Così Gesù è il nuovo Adamo, un nuovo inizio «ab integro» - dalla Vergine che è pienamente a disposizione della volontà di Dio. In questo modo avviene una nuova creazione che, tuttavia, si lega al «sì» libero della persona umana di Maria. Forse si può dire che i sogni segreti e confusi dell’umanità di un nuovo inizio si sono realizzati in questo avvenimento - in una realtà come solo Dio poteva creare.

Quindi, è vero ciò che diciamo nel Credo: «Credo [...] in Gesù Cristo, suo [di Dio] unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine»?

La risposta senza riserve è: sì.

Karl Barth ha fatto notare che nella storia di Gesù ci sono due punti nei quali l’operare di Dio interviene immediatamente nel mondo materiale: la nascita dalla Vergine e la risurrezione dal sepolcro, in cui Gesù non è rimasto e non ha subìto la corruzione. Questi due punti sono uno scandalo per lo spirito moderno.

A Dio viene concesso di operare sulle idee e sui pensieri, nella sfera spirituale - ma non sulla materia. Ciò disturba. Lì non è il suo posto. Ma proprio di questo si tratta: che cioè Dio è Dio, e non si muove soltanto nel mondo delle idee. In questo senso, in ambedue i punti si tratta dello stesso essere-Dio di Dio. È in gioco la domanda: gli appartiene anche la materia?

Naturalmente non si possono attribuire a Dio cose insensate o irragionevoli o in contrasto con la sua creazione.

Ma qui non si tratta di qualcosa di irragionevole e di contraddittorio, bensì proprio di qualcosa di positivo: del potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l’essere. Perciò questi due punti - il parto verginale e la reale risurrezione dal sepolcro - sono pietre di paragone per la fede. Se Dio non ha anche potere sulla materia, allora Egli non è Dio. Ma Egli possiede questo potere, e con il concepimento e la Risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Redentore. Per questo, il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria sono un elemento fondamentale della nostra fede e un segnale luminoso di speranza.

 


Joseph Ratzinger - Benedetto XVI - L’infanzia di Gesù - RIZZOLI


    


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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