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Gesù di Nazaret di Benedetto XVI Libro I testi in capitoli da scaricare

Ultimo Aggiornamento: 08/06/2014 20:17
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14/05/2014 19:51


     Il Battesimo di Gesù al Giordano di Benedetto XVI


"L'insegnamento di Gesù non proviene da un apprendimento umano, qualunque possa essere. Viene dall'immediato contatto con il Padre, dal dialogo «faccia a faccia», dalla visione di Colui che è «nel seno del Padre». È parola del Figlio. Senza questo fondamento interiore sarebbe temerarietà. Così la giudicarono i sapienti al tempo di Gesù, proprio perché non vollero accoglierne il fondamento interiore: il vedere e conoscere faccia a faccia.
Per comprendere Gesù sono fondamentali gli accenni ricorrenti al fatto che Egli si ritirava «sul monte» e lì pregava per notti intere, «da solo» con il Padre. Questi brevi accenni diradano un po' il velo del mistero, ci permettono di gettare uno sguardo dentro l'esistenza filiale di Gesù, di scorgere la fonte sorgiva delle sue azioni, del suo insegnamento e della sua sofferenza. Questo «pregare» di Gesù è il parlare del Figlio con il Padre in cui vengono coinvolte la coscienza e la volontà umane, l'anima umana di Gesù, di modo che la «preghiera» dell'uomo possa divenire partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre". (1)

 

Nota

 

1) Benedetto XVI - Introduzione un primo sguardo sul mistero di Gesù - Gesù di Nazaret, Libro I

 

*****

 

Torniamo al racconto del battesimo. Luca aveva già fornito due importanti dati temporali nei racconti dell'infanzia. Circa l'inizio della vita del Battista ci dice che esso si deve datare «al tempo di Erode, re della Giudea» (1,5). Mentre il dato temporale concernente il Battista resta così all'interno della storia ebraica, il racconto dell'infanzia di Gesù comincia con le parole: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto...» (2,1).

Sullo sfondo, cioè, appare la grande storia universale, rappresentata dall'impero romano. Luca riprende questo filo introducendo il racconto del battesimo, l'inizio dell'attività pubblica di Gesù. Con solennità e precisione ci dice: «Nell'anno decimo quinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa...» (3,1s). Ancora una volta, con la citazione dell'imperatore romano, viene indicata la collocazione temporale di Gesù all'interno della storia universale: l'attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico prima o poi, che può significare insieme sempre e mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta - con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito.

 

Non si tratta, tuttavia, solo di datazione: l'imperatore e Gesù personificano due diversi ordini della realtà, che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che nel loro confronto recano in sé la miccia di un conflitto che riguarda le questioni fondamentali dell'umanità e dell'esistenza umana. «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12,17), dirà Gesù più tardi esprimendo così l'essenziale compatibilità delle due sfere. Ma se l'impero interpreta se stesso come divino, come è già implicito nell'autopresentazione di Augusto come portatore della pace mondiale e salvatore dell'umanità, allora il cristiano deve «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29); allora i cristiani diventano «martiri», testimoni di Cristo, che è morto Egli stesso sotto Ponzio Pilato come «il testimone fedele» (Ap 1,5). Con la citazione del nome di Ponzio Pilato, già dall'inizio l'attività di Gesù è collocata sotto l'ombra della croce. La croce si annuncia anche nei nomi di Erode, Anna, Caifa.

Ma si può scorgere ancora qualcos'altro dall'accostamento di imperatore e principi, tra i quali è divisa la Terra Santa. Tutti questi principati dipendono dalla Roma pagana. Il regno di Davide è crollato, la sua «casa» è caduta (cfr. Am 9,11s); il discendente, che secondo la Legge è il padre di Gesù, è un artigiano della provincia della Galilea, abitata da una popolazione prevalentemente pagana. Ancora una volta Israele vive nell'oscurità di Dio, le promesse fatte ad Abramo e a Davide sembrano sprofondate nel silenzio di Dio.

 

Ancora una volta vale il lamento: non abbiamo più profeti, sembra che Dio abbia abbandonato il suo popolo. Ma proprio per questo il Paese era in pieno fermento.

Movimenti, speranze e aspettative contrastanti determinavano il clima politico e religioso. Più o meno al tempo della nascita di Gesù, Giuda il Galileo aveva incitato a una rivolta, soffocata nel sangue dai romani. Il suo partito, gli zeloti, continuava a esistere, pronto al terrore e alla violenza per ripristinare la libertà di Israele; è possibile che uno o due dei dodici Apostoli di Gesù - Simone lo Zelota e forse anche Giuda Iscariota - provenissero da quella corrente. I farisei, che incontriamo di continuo nei Vangeli, cercavano di vivere seguendo con estrema precisione i dettami della Torah e di evitare l'adattamento alla cultura unitaria ellenistico- romana, che andava imponendosi quasi da sé nei territori dell'impero romano e ora minacciava di appiattire Israele sullo stile di vita dei popoli pagani del resto del mondo. I sadducei, che appartenevano in gran parte all'aristocrazia e alla classe sacerdotale, cercavano di vivere un giudaismo illuminato, consono allo standard spirituale del tempo, e quindi di trovare un compromesso anche con il potere romano. I sadducei sono scomparsi dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), mentre lo stile di vita dei farisei ha trovato forma durevole nel giudaismo plasmato dalla Mishnah e dal Talmud.

 

Se nei Vangeli osserviamo gli aspri contrasti tra Gesù e i farisei, e se la sua morte in croce fu l'esatto contrario del programma degli zeloti, non possiamo tuttavia dimenticare che trovarono la via a Cristo uomini di ogni corrente e che la prima comunità cristiana comprendeva non pochi sacerdoti ed ex farisei.

Una casuale scoperta, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avviato a Qumran degli scavi e portato alla luce dei testi che da alcuni studiosi vengono collegati con un movimento più ampio, gli esseni, conosciuto precedentemente solo in base a fonti letterarie. Era un gruppo che si era staccato dal tempio erodiano e dal suo culto e aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione, e aveva costituito un ricco patrimonio di scritti e di rituali propri, in particolare anche con abluzioni liturgiche e preghiere comunitarie.

Ci colpisce la devota serietà di questi scritti: sembra che Giovanni il Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia, fossero vicini a questa comunità. In ogni caso i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatto con l'annuncio cristiano. Non è da escludere che Giovanni il Battista abbia vissuto per qualche tempo in questa comunità e abbia in parte ricevuto da essa la sua formazione religiosa.

 

Tuttavia, l'entrata in scena del Battista portava con sé qualcosa di veramente nuovo. Il battesimo a cui egli invita si distingue dalle solite abluzioni religiose. Non è ripetibile e deve essere attuazione concreta di una svolta che determina in modo nuovo e per sempre la vita intera. È legato a un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all'annuncio del giudizio di Dio e all'annuncio del più Grande che verrà dopo Giovanni. Il quarto Vangelo ci dice che il Battista «non conosceva» questo più Grande a cui voleva preparare la via (cfr. Gv 1,30-33). Ma sa di essere inviato per preparare la via al misterioso Altro, sa che la sua intera missione è orientata verso di Lui.

In tutti e quattro i Vangeli questa sua missione è descritta con un passo di Isaia: «Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio"» (Is 40,3). Marco aggiunge un ulteriore passo risultante dalla fusione tra Malachia 3,1 e Esodo 23,20 che, in un altro contesto, incontriamo anche in Matteo (11,10) e in Luca (1,76; 7,27): «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada» (Mc 1,2). Tutti questi testi dell'Antico Testamento parlano dell'intervento salvifico di Dio, che esce dalla sua imperscrutabilità per giudicare e salvare; a Lui bisogna aprire la porta, preparare la strada. Con la predicazione del Battista queste antiche parole di speranza erano diventate realtà: si annunciava qualcosa di grande.

 

Possiamo immaginare la straordinaria impressione che dovettero destare la figura e l'annuncio del Battista nell'atmosfera accesa di quel momento della storia di Gerusalemme. Finalmente c'era di nuovo un profeta, qualificato come tale anche dalla sua vita. Finalmente si annuncia di nuovo un agire di Dio nella storia. Giovanni battezza con l'acqua, ma il più Grande, Colui che battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco, è già alle porte. Così non dobbiamo affatto considerare un'esagerazione le parole di san Marco: «Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme.

E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (1,5). Del battesimo di Giovanni fa parte la confessione: il riconoscimento dei peccati. Il giudaismo del tempo conosceva confessioni di carattere più convenzionale e generico, ma anche l'ammissione personale dei peccati, in cui dovevano essere elencate le singole azioni peccaminose (Gnilka I, p. 68). Si tratta davvero di superare l'esistenza peccaminosa condotta fino a quel momento, di iniziare una vita nuova, mutata.

 

Lo svolgimento del battesimo ne è simbolo. Da un lato, nell'immergersi nell'acqua c'è il simbolismo della morte, dietro il quale sta quello del diluvio che annienta e distrugge. L'oceano nel pensiero degli antichi appariva come la costante minaccia del cosmo, della terra: le acque originarie che possono seppellire ogni vita. Nell'immersione il fiume poteva assumere in sé anche questa simbologia. Ma, in quanto corrente, è soprattutto simbolo di vita: i grandi fiumi - Nilo, Eufrate, Tigri - sono i grandi dispensatori di vita. Anche il Giordano è fonte di vita per la sua terra, lo è ancor oggi. Vi è in gioco la purificazione, la liberazione dal sudiciume del passato, che pesa sulla vita e la altera; si tratta di un nuovo inizio, e cioè di morte e risurrezione, di ricominciare la vita da capo e in modo nuovo. Si potrebbe quindi dire che si tratta di rinascita. Tutto ciò verrà espressamente sviluppato solo nella teologia battesimale cristiana, ma è già incoativamente presente nella discesa nel Giordano e nella risalita dalle sue acque.

 

Abbiamo appena udito che tutta la Giudea e Gerusalemme accorrevano a farsi battezzare. Ma adesso sopraggiunge qualcosa di nuovo: «In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni» (Mc 1,9). Di pellegrini provenienti dalla Galilea non si era ancora parlato; tutto sembrava limitato al territorio della Giudea. Ma il fatto veramente nuovo non è che Gesù venga da un'altra area geografica, da lontano, per così dire. Il fatto veramente nuovo è che Egli - Gesù - vuole farsi battezzare, che entra nella grigia moltitudine dei peccatori in attesa sulla riva del Giordano. Del battesimo faceva parte la confessione dei peccati (l'abbiamo appena udito). Esso stesso era una confessione delle proprie colpe e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù poteva farlo?

 

Come poteva confessare dei peccati? Come staccarsi dalla vita precedente per una nuova? È una domanda che i cristiani si dovettero porre. La disputa tra il Battista e Gesù, di cui ci parla Matteo, dava voce anche a una loro domanda a Gesù: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?» (Mt 3,14). Matteo ci racconta: «Ma Gesù gli disse: "Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia".

Allora Giovanni acconsentì» (Mt 3,15). Il senso di questa risposta, che suona enigmatica, non è facile da decifrare. In ogni caso nella parola arti - per ora - c'è una certa riserva: in una determinata situazione provvisoria vale un determinato modo di agire. Per interpretare la risposta di Gesù è decisivo il significato che si attribuisce alla parola «giustizia»: si deve adempiere ogni «giustizia». Nel mondo in cui vive Gesù, «giustizia» è la risposta dell'uomo alla Torah, l'accettazione della piena volontà divina, è prendere su di sé «il giogo del regno di Dio», secondo la formulazione giudaica. Il battesimo di Giovanni non è previsto dalla Torah, ma con la sua risposta Gesù lo riconosce come espressione del sì incondizionato alla volontà di Dio, come obbediente assunzione del suo giogo.

 

Poiché nella discesa in questo battesimo sono contenute una confessione di colpa e una richiesta di perdono per un nuovo inizio, vi è in questo sì alla piena volontà di Dio in un mondo segnato dal peccato anche un'espressione di solidarietà con gli uomini, che si sono resi colpevoli, ma tendono verso la giustizia.

 

Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l'intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro.

 

Scendendo nell'acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta costantemente come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (cfr. 3,21). A partire dalla croce e dalla risurrezione divenne chiaro per i cristiani che cosa era accaduto: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell'intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori.

La inizia con l'anticipazione della croce. Egli è, per così dire, il vero Giona, che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (cfr. Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare «ogni giustizia» si rivela solo nella croce: il battesimo è l'accettazione della morte per i peccati dell'umanità, e la voce dal cielo «Questi è il Figlio mio prediletto» (Mc 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione.

 

Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola «battesimo» designa la sua morte (cfr.Mc 10,38; Lc 12,50).

Solo a partire da qui si può capire il battesimo cristiano. L'anticipazione della morte sulla croce, che era avvenuta nel battesimo di Gesù, e l'anticipazione della risurrezione, annunciata dalla voce dal cielo, ora sono diventate realtà. Così il battesimo con acqua di Giovanni riceve pienezza di significato dal battesimo di vita e di morte di Gesù. Accettare l'invito al battesimo significa ora portarsi al luogo del battesimo di Gesù e così nella sua identificazione con noi ricevere la nostra identificazione con Lui. Il punto della sua anticipazione della morte è ora diventato per noi il punto della nostra anticipazione della risurrezione insieme con Lui. Nella sua teologia del battesimo (cfr. Rm 6), Paolo ha sviluppato questa relazione intrinseca senza parlare espressamente del battesimo di Gesù al Giordano.

 

Nella sua liturgia e teologia dell'icona la Chiesa orientale ha ulteriormente spiegato e approfondito questa interpretazione del battesimo di Gesù. Essa vede un legame profondo tra il contenuto della festa dell'Epifania (proclamazione della filiazione divina per mezzo della voce dal cielo: per l'Oriente l'Epifania è la festa del battesimo) e la Pasqua. Nella parola di Gesù a Giovanni - «poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,15) - essa vede l'anticipazione della parola pronunciata nel Getsemani: «Padre [...] non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39); i canti liturgici del 3 gennaio corrispondono a quelli del

Mercoledì santo, quelli del 4 gennaio al Giovedì santo, quelli del 5 gennaio a quelli del Venerdì e del Sabato santo.

 

L'iconografia riprende queste corrispondenze. L'icona del battesimo di Gesù riproduce l'acqua come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura, che a sua volta è l'immagine iconografica dell'Ade, gli inferi, l'inferno. La discesa di Gesù in questo sepolcro liquido, in questo inferno, che lo contiene tutto, è anticipazione della discesa agli inferi: «Essendo sceso nelle acque, legò il Forte» (cfr. Lc 11,22), dice Cirillo di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo scrive: «L'immersione e l'emersione sono immagine della discesa agli inferi e della risurrezione». I tropari della liturgia bizantina aggiungono ancora un ulteriore riferimento simbolico: «Il Giordano un tempo ritornò indietro a causa del mantello di Eliseo, e le acque si divisero lasciando un passaggio asciutto, vera immagine del battesimo, mediante il quale noi attraversiamo il corso della vita» (Evdokimov, pp. 275-76).

 

Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L'ingresso nei peccati degli altri è discesa all'«inferno» - non solo, come in Dante, da spettatore, ma com-patendo e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell'abisso. È discesa nella casa del male, lotta con il Forte che tiene prigioniero l'uomo (e quanto è vero che tutti noi siamo tenuti prigionieri dalle potenze senza nome, che ci manipolano!). Questo Forte, invincibile con le sole forze della storia universale, viene sopraffatto e legato dal più Forte che, essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo - nulla tralasciando nella discesa nell'identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la «svolta» dell'essere, che produce una nuova qualità dell'essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra.

Il sacramento - il Battesimo - appare quindi come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo intrapresa da Gesù nella svolta della vita che è avvenuta nella sua discesa e risalita.

 

Con questa interpretazione e assimilazione ecclesiale dell'avvenimento del battesimo di Gesù ci siamo allontanati troppo dalla Bibbia? In questo contesto conviene ascoltare il quarto Vangelo, secondo il quale Giovanni il Battista, nel vedere Gesù, pronunciò le seguenti parole: «Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).

Ci si è arrovellati molto su queste parole, che nel rito romano vengono pronunciate prima della distribuzione dell'Eucaristia. Che cosa significa «agnello di Dio»? Perché Gesù viene chiamato «agnello» e perché questo «agnello» porta via i peccati del mondo, li vince fino a togliere loro sostanza e realtà?

 

Joachim Jeremias ha messo a disposizione i mezzi decisivi per comprendere in modo corretto questa parola e poterla considerare - anche dal punto di vista storico - come vera parola del Battista. Anzitutto sono riconoscibili in essa due allusioni veterotestamentarie. Il canto del servo di Dio in Isaia 53,7 paragona il servo sofferente a un agnello che viene condotto al macello: «Come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, [egli] non aprì la sua bocca». Ancora più importante è il fatto che Gesù fu crocifisso durante una festa di Pasqua ebraica e dovette dunque sembrare proprio il vero agnello pasquale, in cui si compiva quello che era stato il significato dell'agnello pasquale nell'uscita dall'Egitto: liberazione dalla mortale tirannia egizia e via libera all'esodo, al cammino verso la libertà della promessa. A partire dalla Pasqua la simbologia dell'agnello è divenuta fondamentale per la comprensione di Cristo. La troviamo in Paolo (cfr. 1 Cor 5,7), in Giovanni (cfr. 19,36), nella Prima Lettera di Pietro (1,19) e nell'Apocalisse (per esempio 5,6).

Jeremias sottolinea inoltre che l'unica parola ara- maica talja' significa sia «agnello» sia «giovanetto», «servitore» (GLNT I 919). Così le parole del Battista possono aver indicato anzitutto il servo di Dio, che con le sue penitenze vicarie «porta» i peccati del mondo; ma nello stesso tempo esse lo facevano riconoscere come il vero agnello pasquale, che espiando cancella i peccati del mondo. «Paziente come un agnello offerto in sacrificio, il Salvatore è andato a morte per gli altri sulla croce; con la forza espiatrice della sua morte innocente ha cancellato la colpa di tutta l'umanità» (GLNT I 921).

Se nell'angustia dell'oppressione egizia il sangue dell'agnello pasquale era divenuto decisivo per la liberazione di Israele, Egli, il Figlio che è divenuto servo - il pastore che è diventato agnello - si fa garante non più soltanto per Israele, ma per la liberazione del «mondo», per l'intera umanità.

 

Con ciò ho toccato il tema dell'universalità della missione di Gesù.

Israele non esiste solo per se stesso: la sua elezione è la via attraverso la quale Dio vuole arrivare a tutti. Incontreremo ripetutamente il tema dell'universalità quale centro autentico della missione di Gesù. Con la frase dell'agnello di Dio che porta i peccati del mondo, nel quarto Vangelo tale tema è presente subito all'inizio del cammino di Gesù.

L'espressione «agnello di Dio» interpreta il carattere - se così possiamo dire - di teologia della croce del battesimo di Gesù, della sua discesa nelle profondità della morte. Tutti e quattro i Vangeli riferiscono, anche se in maniera diversa, che nel momento in cui Gesù salì dall'acqua «il cielo si squarciò» (Mc), «si aprirono i cieli» (Mt e Lc), lo Spirito discese su di Lui «come una colomba», mentre dal cielo risuonava una voce: essa, secondo Marco e Luca, si rivolge a Gesù: «Tu sei...»; secondo Matteo, invece, dice di Lui: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,18).

L'immagine della colomba può ricordare l'aleggiare dello Spirito sulle acque, del quale parla il racconto della creazione (cfr. Gn 1,2); attraverso la piccola parola «come» (come una colomba) essa funge da «immagine di ciò che in sostanza non è descrivibile» (Gnilka I, p. 78). Quanto alla «voce», la incontreremo di nuovo in occasione della trasfigurazione di Gesù, dove però è aggiunto l'imperativo: «Ascoltatelo!». Quando ne parleremo, dovremo dedicare a queste parole una riflessione più approfondita.

 

Qui desidero solo sottolineare brevemente tre aspetti.

 

Anzitutto vi è l'immagine del cielo squarciato: sopra Gesù il cielo è aperto. La sua comunione di volontà con il Padre, l'«intera giustizia» che adempie, apre il cielo, che per natura è il luogo in cui si adempie perfettamente la volontà di Dio. A ciò si aggiunge poi la proclamazione da parte di Dio, il Padre, della missione di Cristo, che però non annuncia un fare, ma il suo essere: Egli è il Figlio prediletto, su cui sta il beneplacito di Dio. Infine vorrei far notare che qui, insieme con il Figlio, incontriamo anche il Padre e lo Spirito Santo: si preannuncia il mistero di Dio Trinità, che naturalmente può svelare se stesso nella sua profondità solo nel corso dell'intero cammino di Gesù. In questo senso, tuttavia, si delinea un arco che unisce quest'inizio del cammino di Gesù alle parole con le quali il Risorto invierà i suoi discepoli nel «mondo»: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).

Il Battesimo che i discepoli di Gesù amministrano da quel momento in poi è l'ingresso nel battesimo di Gesù, l'ingresso nella realtà che Egli con esso ha anticipato. Così si diventa cristiani.

 

Un'ampia corrente della teologia liberale ha interpretato il battesimo di Gesù come un'esperienza vocazionale: qui Egli, che fino a quel momento aveva condotto una vita del tutto normale nella provincia di Galilea, avrebbe fatto un'esperienza sconvolgente; qui avrebbe raggiunto la consapevolezza di uno speciale rapporto con Dio e della sua missione religiosa, consapevolezza maturata sulla base delle attese allora dominanti in Israele, a cui Giovanni aveva dato nuova forma, e grazie alla commozione personale provocata in Lui dall'avvenimento del battesimo. Ma niente di ciò si trova nei testi. Per quanto colta sia la veste che si può dare a questa teoria, essa è più riconducibile al genere del romanzo su Gesù che alla vera interpretazione dei testi. Questi non ci permettono di guardare nell'intimo di Gesù. Egli è al di sopra delle nostre psicologie (Romano Guardini).

Ci fanno, invece, sapere in che rapporto sta Gesù con «Mosè e i Profeti». Ci fanno conoscere l'intima unità del suo cammino dal primo momento della sua vita fino alla croce e alla risurrezione.

 

Gesù non appare come un uomo geniale con le sue emozioni, insuccessi e successi - in tal modo, come individuo di un'epoca storica passata, Egli resterebbe in definitiva a una distanza insuperabile rispetto a noi. Egli invece sta di fronte a noi come «il Figlio prediletto», che se da un lato è il totalmente Altro, proprio per questo può anche diventare contemporaneo di tutti noi, per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno lo sia a se stesso (cfr. sant'Agostino, Confessioni, III, 6, 11).

 

Testo tratto da: Gesù di Nazaret - 2007 - di J.Ratzinger - Benedetto XVI (Libro primo della trilogia su Gesù)

 

 

Sia lodato Gesù Cristo.

Sempre sia lodato.



 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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08/06/2014 20:17

"Matteo e Luca narrano di tre tentazioni in cui si rispecchia la lotta interiore di Gesù per la sua missione, ma nello stesso tempo affiora anche la domanda su ciò che conta davvero nella vita degli uomini. Qui appare chiaro il nocciolo di ogni tentazione: rimuovere Dio, che di fronte a tutto ciò che nella nostra vita appare più urgente sembra secondario, se non superfluo e fastidioso. Mettere ordine da soli nel mondo, senza Dio, contare soltanto sulle proprie capacità, riconoscere come vere solo le realtà politiche e materiali e lasciare da parte Dio come illusione, è la tentazione che ci minaccia in molteplici forme".

 

La discesa dello Spirito su Gesù con cui si conclude la scena del battesimo ha il significato di una sorta di investitura formale nell'incarico. Per questo motivo, i Padri, non a torto, hanno visto in questo evento un'analogia con l'unzione mediante la quale re e sacerdoti venivano investiti del loro incarico in Israele. La parola «Cristo-Messia» significa «l'Unto»: nell'antica Alleanza l'unzione era considerata il segno visibile dell'elargizione dei doni richiesti dall'ufficio, dell'elargizione dello Spirito di Dio per l'incarico. Da ciò in Isaia 11,2 si sviluppa la speranza di un autentico «Unto», la cui «unzione» consiste appunto nel fatto che su di lui si posa lo Spirito del Signore, «spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore». Secondo il racconto di san Luca, Gesù ha presentato se stesso e la sua missione nella sinagoga di Nazaret con una frase simile di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione» (Lc 4,18; cfr. Is 61,1). La conclusione della scena del battesimo ci dice che Gesù ha ricevuto questa «unzione» autentica, che Egli è l'Unto atteso: che in quell'ora gli furono formalmente conferite la dignità regale e quella sacerdotale per la storia e al cospetto di Israele.

 

Da quel momento in poi Cristo è investito di tale incarico.

I tre Vangeli sinottici  raccontano, non senza nostra sorpresa, che la prima disposizione dello Spirito lo conduce nel deserto «per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).

L'azione è preceduta dal raccoglimento e questo raccoglimento è, necessariamente, anche una lotta interiore per l'incarico, una lotta contro i travisamenti di esso, che si presentano come i suoi veri adempimenti. È una discesa nei pericoli che minacciano l'uomo, poiché solo così l'uomo caduto può essere risollevato. Stando al nucleo originario della sua missione, Gesù deve entrare nel dramma dell'esistenza umana, attraversarlo fino in fondo, per ritrovare così «la pecorella smarrita», caricarsela sulle spalle e ricondurla a casa.

La discesa di Gesù «agli inferi» di cui parla il Credo non si è compiuta solo nella sua morte e dopo la sua morte, ma fa sempre parte del suo cammino: Egli deve riprendere tutta la storia a partire dai suoi inizi - da «Adamo» -, percorrerla e soffrirla fino in fondo per poterla trasformare. Soprattutto la Lettera agli Ebrei ha posto l'accento sul fatto che la missione di Gesù, la sua solidarietà con tutti noi, prefigurata nel battesimo, implica che Egli si esponga alle minacce e ai pericoli dell'essere uomo: «Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,17s). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (4,15). Il racconto delle tentazioni è pertanto in stretto rapporto con quello del battesimo, in cui Gesù si rende solidale con i peccatori.

Accanto a esso c'è la lotta del monte degli Ulivi, l'altra grande lotta interiore di Gesù per la sua missione. Ma le «tentazioni» accompagnano l'intero cammino di Gesù e il racconto delle tentazioni appare da questo punto di vista - esattamente come il battesimo - un'anticipazione, in cui si condensa la lotta di tutto il suo cammino.

 

Nel suo breve resoconto delle tentazioni (cfr. 1,13), Marco ha posto in risalto il parallelo con Adamo - con l'accettazione sofferta del dramma umano come tale: Gesù «stava con le fiere e gli angeli lo servivano». Il deserto - immagine opposta del giardino - diventa il luogo della riconciliazione e della salvezza; le fiere, che rappresentano la forma più concreta della minaccia derivante all'uomo dalla ribellione della creazione e dal potere della morte, diventano amiche come in Paradiso.

 

È ripristinata la pace annunciata da Isaia per il tempo del Messia: «Il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto...» (11,6). Laddove il peccato è vinto, laddove si ristabilisce l'armonia dell'uomo con Dio, segue la riconciliazione della creazione, la creazione dilaniata torna a essere luogo di pace, come dirà Paolo, il quale parla dei gemiti della creazione, che «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19).

Le oasi della creazione, che sono nate per esempio attorno ai monasteri benedettini in Occidente, non sono forse anticipazioni di questa riconciliazione della creazione che viene dai figli di Dio mentre, al contrario, Chernobyl, per esempio, non è forse l'espressione sconvolgente della creazione asservita nell'oscurità di Dio? Marco conclude il suo breve racconto delle tentazioni con una frase che si può interpretare come un'allusione al Salmo 91,11s: «E gli angeli lo servivano». La frase si trova anche alla fine del più esteso racconto delle tentazioni redatto da Matteo e solo lì, in base al contesto più ampio, diventa pienamente comprensibile.

 

Matteo e Luca narrano di tre tentazioni in cui si rispecchia la lotta interiore di Gesù per la sua missione, ma nello stesso tempo affiora anche la domanda su ciò che conta davvero nella vita degli uomini. Qui appare chiaro il nocciolo di ogni tentazione: rimuovere Dio, che di fronte a tutto ciò che nella nostra vita appare più urgente sembra secondario, se non superfluo e fastidioso. Mettere ordine da soli nel mondo, senza Dio, contare soltanto sulle proprie capacità, riconoscere come vere solo le realtà politiche e materiali e lasciare da parte Dio come illusione, è la tentazione che ci minaccia in molteplici forme.

 

Della natura della tentazione fa parte la sua apparenza morale: non ci invita direttamente a compiere il male, sarebbe troppo rozzo. Fa finta di indicarci il meglio: abbandonare finalmente le illusioni e impiegare efficacemente le nostre forze per migliorare il mondo. Si presenta, inoltre, sotto la pretesa del vero realismo. Il reale è ciò che si constata: potere e pane. A confronto le cose di Dio appaiono irreali, un mondo secondario di cui non c'è veramente bisogno.

È in gioco Dio: è vero o no che Lui è il reale, la realtà stessa? È Lui il Buono o dobbiamo inventare noi stessi ciò che è buono? La questione di Dio è la questione fondamentale, che ci conduce al bivio dell'esistenza umana. Che cosa deve fare il salvatore del mondo o che cosa non deve fare? È questa la domanda sottesa alle tentazioni di Gesù.

 

Le tre tentazioni sono identiche in Matteo e Luca, solo la loro successione è diversa. Seguiamo la successione di Matteo per la coerenza nel grado ascendente con cui è costruita. Gesù «dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame» (Mt 4,2). Al tempo di Gesù il numero 40 era già ricco di contenuto simbolico per Israele. Ricorda anzitutto i quarant'anni passati nel deserto da Israele, che furono il tempo della sua tentazione ma anche il tempo di una particolare vicinanza di Dio. Viene poi da pensare ai quaranta giorni che Mosè trascorse sul monte Sinai prima di poter ricevere la parola di Dio, le sacre tavole dell'Alleanza. Il ricordo può estendersi poi al racconto rabbinico secondo cui Abramo, sulla strada per il monte Oreb dove avrebbe dovuto sacrificare il figlio, non prese né cibo né bevanda per quaranta giorni e quaranta notti, nutrendosi dello sguardo e delle parole dell'angelo che lo accompagnava.

 

I Padri, forse divertendosi un po' ad ampliare la simbologia numerica, hanno anche visto nel 40 il numero cosmico, il numero di questo mondo in assoluto: le quattro estremità del mondo circoscrivono il tutto e il 10 è il numero dei comandamenti. Il numero cosmico moltiplicato per il numero dei comandamenti diventa espressione simbolica della storia di questo mondo. Gesù ripercorre, per così dire, l'esodo di Israele, e poi gli errori e i disordini di tutta la storia. I quaranta giorni di digiuno abbracciano il dramma della storia, che Gesù assume in sé e sopporta fino in fondo.

«Se sei Figlio di Dio, di' che questi sassi diventino pane» (Mt 4,3) - così comincia la prima tentazione. «Se sei Figlio di Dio...» - sentiremo ancora queste parole da coloro che scherniranno Gesù sotto la croce: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40).

Il Libro della Sapienza ha già previsto questa situazione: «Se il giusto è figlio di Dio, Egli l'assisterà» (2,18). Qui derisione e tentazione si sovrappongono: Cristo deve dar prova della sua pretesa per diventare credibile. Questa richiesta di prove pervade tutto il corso della vita di Gesù: gli viene continuamente obiettato di non aver dato prove sufficienti di sé; egli dovrebbe compiere il grande miracolo che, eliminando ogni ambiguità e ogni opposizione, metterebbe in chiaro a chiunque, in modo irrefutabile, chi e che cosa Egli è o non è.

E questa richiesta rivolgiamo anche noi a Dio, a Cristo e alla sua Chiesa nel corso della storia: se esisti, o Dio, allora devi mostrarti; allora devi squarciare la nube del tuo nascondimento e darci la chiarezza, a cui abbiamo diritto. Se tu, Cristo, sei veramente il Figlio, e non uno degli illuminati che sono apparsi continuamente nella storia, allora devi mostrarlo più chiaramente di quanto fai. E allora devi dare alla tua Chiesa, se proprio deve essere la tua, un grado di evidenza diverso da quello che di fatto possiede.

 

Ritorneremo su questo punto quando parleremo della seconda tentazione, di cui esso costituisce il vero centro. La prova dell'esistenza di Dio che il tentatore propone nella prima tentazione consiste nel trasformare in pane le pietre del deserto. All'inizio si tratta della fame di Gesù stesso - così l'ha vista Luca: «Di' a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3). Ma Matteo interpreta la tentazione in modo più ampio, così come già durante la vita terrena di Gesù e in seguito lungo tutta la storia gli veniva e gli viene proposta sempre di nuovo.

 

Che cosa vi è di più tragico, che cosa contraddice maggiormente la fede in un Dio buono e la fede in un redentore degli uomini che la fame dell'umanità? Il primo criterio di identificazione del redentore davanti al mondo e per il mondo non dovrebbe essere quello di dare il pane e mettere fine alla fame di ogni uomo?

 

Quando il popolo d'Israele vagava nel deserto Dio l'aveva nutrito mandando il pane dal cielo, la manna. Si credeva di poter riconoscere in questo un'immagine del tempo messianico: non doveva e non deve il salvatore del mondo dimostrare la propria identità dando da mangiare a tutti? Il problema dell'alimentazione del mondo - e, più in generale: i problemi sociali - non sono forse il primo e autentico criterio al quale deve essere commisurata la redenzione? Può qualcuno che non soddisfa questo criterio chiamarsi a buon diritto redentore? Il marxismo ha fatto proprio di questo ideale - in modo comprensibilissimo - il cuore della sua promessa di salvezza: avrebbe fatto sì che ogni fame fosse placata e che «il deserto diventasse pane»...

 

«Se tu sei Figlio di Dio...» - quale sfida!

E non si dovrà dire la stessa cosa alla Chiesa?

 Se vuoi essere la Chiesa di Dio, allora preoccupati anzitutto del pane per il mondo - il resto viene dopo.

 

È difficile rispondere a questa sfida, proprio perché il grido degli affamati ci penetra e deve penetrarci tanto profondamente nelle orecchie e nell'anima. La risposta di Gesù non si può capire solo alla luce del racconto delle tentazioni.

Il tema del pane permea tutto il Vangelo e deve essere visto in tutta la sua estensione. Ci sono altri due grandi racconti sul pane nella vita di Gesù. Uno è la moltiplicazione dei pani per le migliaia di persone che avevano seguito il Signore nel luogo deserto. Perché ora viene fatto quello che prima era stato respinto come tentazione?

 

La gente era venuta per ascoltare la parola di Dio e per farlo aveva lasciato perdere tutto il resto.

 

E così, come persone che hanno aperto il proprio cuore a Dio e agli altri in reciprocità, possono ricevere il pane nel modo giusto. Questo miracolo suppone tre elementi: in precedenza vi è stata la ricerca di Dio, della sua parola, del giusto orientamento di tutta la vita. Il pane viene inoltre implorato da Dio. E infine un elemento fondamentale del miracolo è la disponibilità reciproca a condividere. Ascoltare Dio diventa vivere con Dio, e conduce dalla fede all'amore, alla scoperta dell'altro. Gesù non è indifferente di fronte alla fame degli uomini, ai loro bisogni materiali, ma li colloca nel giusto contesto e dà loro il giusto ordine.

 

Questo secondo racconto sul pane rimanda in anticipo al terzo e ne costituisce la preparazione: l'Ultima Cena, che diventa l'Eucaristia della Chiesa e il miracolo permanente di Gesù sul pane. Gesù stesso è diventato il chicco di grano che morendo produce molto frutto (cfr. Gv 12,24). Egli stesso è diventato pane per noi, e questa moltiplicazione dei pani durerà in modo inesauribile fino alla fine dei tempi. Così ora comprendiamo la parola di Gesù, che Egli prende dall'Antico Testamento (cfr. Dt 8,3), per respingere il tentatore: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). A questo proposito c'è una frase del gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l'adorazione mai

tradita».

 

 

Laddove questo ordine dei beni non viene rispettato, ma rovesciato, non ne consegue più la giustizia, non si bada più all'uomo che soffre, ma si creano dissesto e distruzione anche nell'ambito dei beni materiali. Laddove Dio è considerato una grandezza secondaria, che si può temporaneamente o stabilmente mettere da parte in nome di cose più importanti, allora falliscono proprio queste presunte cose più importanti. Non lo dimostra soltanto l'esito negativo dell'esperienza marxista.

Gli aiuti dell'Occidente ai Paesi in via di sviluppo, basati su princìpi puramente tecnico materiali, che non solo hanno lasciato da parte Dio, ma hanno anche allontanato gli uomini da Lui con l'orgoglio della loro saccenteria, hanno fatto del Terzo Mondo il Terzo Mondo in senso moderno. Tali aiuti hanno messo da parte le strutture religiose, morali e sociali esistenti e introdotto la loro mentalità tecnicistica nel vuoto.

 

Credevano di poter trasformare le pietre in pane, ma hanno dato pietre al posto del pane. È in gioco il primato di Dio. Si tratta di riconoscerlo come realtà, una realtà senza la quale nient'altro può essere buono.

 

Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio. Se il cuore dell'uomo non è buono, allora nessuna altra cosa può diventare buona. E la bontà di cuore può venire solo da Colui che è Egli stesso la Bontà, il Bene.

Naturalmente si può chiedere perché Dio non abbia creato un mondo in cui la sua presenza fosse più manifesta; perché Cristo non abbia lasciato dietro di sé un ben altro splendore della sua presenza, che colpisse chiunque in modo irresistibile. Questo è il mistero di Dio e dell'uomo, che non possiamo penetrare.

 

Noi viviamo in questo mondo nel quale appunto Dio non ha l'evidenza di una cosa che si possa toccare con mano, ma può essere cercato e trovato solo attraverso lo slancio del cuore, l'«esodo» dall'«Egitto». In questo mondo dobbiamo opporci alle illusioni di false filosofie e riconoscere che non viviamo di solo pane, ma anzitutto dell'obbedienza alla parola di Dio. E solo dove si vive questa obbedienza nascono e crescono quei sentimenti che permettono di procurare anche pane per tutti.

 

Veniamo alla seconda tentazione di Gesù, il cui significato esemplare sotto diversi aspetti è il più difficile da comprendere. La tentazione è da intendersi come una sorta di visione, in cui però è riassunta una realtà, una particolare minaccia per l'uomo e per l'incarico di Gesù.

 

Anzitutto c'è qualcosa di strano. Per attirare Gesù nella sua trappola il diavolo cita la Sacra Scrittura. Cita il Salmo 91,11s che parla della protezione che Dio garantisce all'uomo fedele: «Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (vv. 11s). Queste parole assumono ulteriore importanza per il fatto che vengono pronunciate nella Città Santa, nel luogo santo.

In realtà, il Salmo citato è legato al tempio; colui che lo recita si attende protezione nel tempio, poiché la dimora di Dio deve essere un particolare luogo di protezione divina. In quale altro luogo l'uomo che crede in Dio dovrebbe potersi sapere più al sicuro che non nel sacro recinto? (maggiori particolari in Gnilka, Das Matthausevangelium I, p. 88s.)

 

Il diavolo si rivela conoscitore della Scrittura, sa citare il Salmo con esattezza.

 

L'intero colloquio della seconda tentazione si configura come un dibattito tra due esperti della Scrittura: il diavolo vi appare come teologo, osserva a questo proposito Joachim Gnilka. Vladimir Solov'ev ha ripreso questo tema nel suo Racconto dell'Anticristo: l'Anticristo riceve la laurea honoris causa in teologia dall'Università di Tubinga; è un grande esperto della Bibbia. Con questo racconto Solov'ev ha voluto esprimere in modo drastico il suo scetticismo nei confronti di un certo tipo di esegesi erudita del suo tempo. Non si tratta di un no all'interpretazione scientifica della Bibbia in quanto tale, bensì di un avvertimento massimamente salutare e necessario di fronte alle strade sbagliate che essa può prendere.

 

L'interpretazione della Bibbia può effettivamente diventare uno strumento dell'Anticristo. Non è solo Solov'ev che lo dice, è quanto afferma implicitamente il racconto stesso delle tentazioni. I peggiori libri distruttori della figura di Gesù, smantellatori della fede, sono stati intessuti con presunti risultati dell'esegesi.

 

Oggi la Bibbia viene assoggettata da molti al criterio della cosiddetta visione moderna del mondo, il cui dogma fondamentale è che Dio non può affatto agire nella storia - che dunque tutto ciò che riguarda Dio deve essere collocato nell'ambito del soggettivo. Allora la Bibbia non parla più di Dio, del Dio vivente, ma parliamo solo noi stessi e decidiamo che cosa Dio può fare e che cosa vogliamo o dobbiamo fare noi. E

l'Anticristo ci dice allora, in atteggiamento di grande erudito, che un'esegesi che legga la Bibbia nella prospettiva della fede nel Dio vivente, prestandogli ascolto, è fondamentalismo; solo la sua esegesi, l'esegesi ritenuta autenticamente scientifica, in cui Dio stesso non dice niente e non ha niente da dire, è al passo con i tempi.

La disputa teologica tra Gesù e il diavolo è una disputa che riguarda ogni epoca e ha come oggetto la corretta interpretazione biblica, la cui domanda ermeneutica fondamentale è la domanda circa l'immagine di Dio. La disputa sull'interpretazione è in ultima istanza una discussione su chi è Dio. Questa discussione intorno all'immagine di Dio, di cui si tratta nella disputa sulla corretta interpretazione della Scrittura, si decide però concretamente nell'immagine di Cristo: Egli, che è rimasto senza potere mondano, è davvero il Figlio del Dio vivente?

 

Così l'interrogativo circa la struttura del curioso dialogo scritturistico tra Cristo e il tentatore conduce direttamente al cuore della questione contenutistica. Di che cosa si tratta? Questa tentazione è stata messa in relazione con il motivo del panem et circenses: dopo il pane deve essere offerto qualcosa di sensazionale. Dal momento che, evidentemente, all'uomo non basta soddisfare solo la fame del corpo, colui che non vuole permettere a Dio di entrare nel mondo e negli uomini deve offrire il prurito di esperienze eccitanti, il cui brivido sostituisca la commozione religiosa e la reprima. Ma non può essere che di ciò si parli in questo passo, dato che nella tentazione, a quanto pare, non sono previsti degli spettatori. Il punto in questione si palesa nella risposta di Gesù che è presa di nuovo dal Deuteronomio (6,16): «Non tenterete il Signore vostro Dio». Nel Deuteronomio questo è un accenno alla vicenda di Israele che rischiava di morire di sete nel deserto. Si arriva alla ribellione contro Mosè, che diventa una ribellione contro Dio.

 

Dio deve dimostrare di essere Dio. Questa ribellione contro Dio viene così descritta nella Bibbia: «Misero alla prova il Signore dicendo: "Il Signore è in mezzo a noi sì o no?"» (Es 17,7). Si tratta dunque di ciò a cui abbiamo già accennato prima: Dio deve sottoporsi a un esperimento. Viene «provato» così come si provano le merci. Deve sottostare alle condizioni che noi riteniamo necessarie per ottenere una certezza. Se Egli ora non garantisce la protezione promessa nel Salmo 91, allora non è Dio. Allora ha smentito la sua parola e così facendo ha smentito se stesso.

 

Abbiamo qui davanti a noi in tutta la sua ampiezza il grande interrogativo di come si possa conoscere Dio e come si possa non conoscerlo, di come l'uomo possa stare in rapporto con Lui e come possa smarrirlo. La presunzione, che vuole fare di Dio un oggetto e imporgli le nostre condizioni sperimentali da laboratorio, non può trovare Dio. Infatti si basa già sul presupposto che noi neghiamo Dio in quanto Dio, perché ci poniamo al di sopra di Lui. Perché mettiamo da parte l'intera dimensione dell'amore, dell'ascolto interiore, e riconosciamo come reale solo ciò che è sperimentabile, che ci è stato posto nelle mani. Chi la pensa in questo modo fa di se stesso Dio e degrada così facendo non solo Dio, ma il mondo e se stesso.

 

A partire da questa scena sul pinnacolo del tempio si apre anche lo sguardo sulla croce. Cristo non si è gettato dal pinnacolo del tempio. Non è saltato nell'abisso. Non ha messo alla prova Dio. Ma è sceso nell'abisso della morte, nella notte dell'abbandono, nell'essere in balìa che è proprio degli inermi. Ha osato questo salto come atto dell'amore di Dio verso gli uomini. E perciò sapeva che, saltando, alla fine avrebbe potuto soltanto cadere nelle mani benevole del Padre. Così si palesa il vero senso del Salmo 91, il diritto a quell'estrema e illimitata fiducia di cui in esso si parla: chi segue la volontà di Dio sa che in mezzo a tutti gli orrori che può incontrare non perderà mai un'ultima protezione. Sa che il fondamento del mondo è l'amore e che quindi anche là dove nessun uomo può o vuole aiutarlo, egli può andare avanti riponendo la sua fiducia in Colui che lo ama. Tale fiducia, a cui ci autorizza la Scrittura e alla quale il Signore, il Risorto, ci invita, è però qualcosa di completamente diverso dalla sfida avventurosa a Dio che vuole fare di Lui il nostro servo.

 

Veniamo alla terza e ultima tentazione, il culmine di tutto il racconto. Il diavolo conduce il Signore in visione su un alto monte.

 

Gli mostra tutti i regni della terra e il loro splendore e gli offre il dominio del mondo. Non è proprio questa la missione del Messia? Non deve essere proprio Lui il re del mondo che riunisce tutta la terra in un grande regno della pace e del benessere? Come la tentazione del pane ha due singolari corrispettivi nella storia di Gesù - la moltiplicazione dei pani e l'Ultima Cena, così accade anche qui.

 

Il Signore risorto raduna i suoi «sul monte» (cfr. Mt 28,16). E in quel momento dice effettivamente: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (28,18). Due aspetti qui sono nuovi e diversi: il Signore ha potere in cielo e in terra. E solo chi ha tutto questo potere ha il potere autentico, il potere salvifico. Senza il cielo, il potere terreno resta sempre ambiguo e fragile. Solo il potere che si pone sotto il criterio e sotto il giudizio del cielo, cioè di Dio, può diventare potere a fin di bene. E solo il potere che sta sotto la benedizione di Dio può essere affidabile.

 

A questo aspetto si aggiunge l'altro: Gesù ha questo potere in quanto risorto, che significa: questo potere presuppone la croce, presuppone la sua morte. Presuppone l'altro monte - il Golgota - dove muore appeso alla croce, deriso dagli uomini e abbandonato dai suoi. Il regno di Cristo è diverso dai regni della terra e dal loro splendore, che Satana gli dispiega dinanzi. Questa gloria è, come indica il significato della parola greca dóxa, apparenza che si dissolve.

 

Il regno di Cristo non ha questo genere di splendore. Cresce attraverso l'umiltà della predicazione in coloro che acconsentono a farsi suoi discepoli, che vengono battezzati nel nome del Dio Trino e osservano i suoi comandamenti (cfr. Mt 28,19s).

 

Ma torniamo alla tentazione. Il suo vero contenuto diventa visibile, quando constatiamo come prenda sempre nuova forma nel corso della storia. L'impero cristiano cercò ben presto di trasformare la fede in un fattore politico per l'unità dell'impero. Il regno di Cristo doveva dunque prendere la forma di un regno politico e del suo splendore. La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazione - assicurare la fede mediante il potere - si è ripresentata continuamente, in forme diverse, e la fede ha sempre corso il rischio di essere soffocata proprio dall'abbraccio del potere. La lotta per la libertà della Chiesa, la lotta perché il regno di Gesù non può essere identificato con alcuna struttura politica, deve essere condotta in tutti i secoli. La fusione tra fede e potere politico, infatti, ha sempre un prezzo: la fede si mette al servizio del potere e deve piegarsi ai suoi criteri.

 

L'alternativa, che qui è in gioco, appare in forma provocatoria nel racconto della Passione del Signore. Al culmine del processo Pilato fa scegliere tra Gesù e Barabba. Uno dei due verrà liberato. Ma chi era Barabba? Di solito abbiamo nell'orecchio solo le parole del Vangelo di Giovanni: «Barabba era un brigante» (18,40). Ma la parola greca per «brigante», nella situazione politica di quel tempo, in Palestina poteva assumere un significato specifico. In quel caso voleva dire qualcosa come «combattente della resistenza».

Barabba aveva partecipato a una sommossa (cfr. Mc 15,7) e - in questo contesto - era inoltre accusato di omicidio (cfr. Lc 23, 19.25). Quando Matteo dice che Barabba era un «prigioniero famoso», ciò indica che egli era stato uno dei combattenti più in vista della resistenza, probabilmente il vero capo di quella rivolta (cfr. Mt 27,16).

 

In altre parole, Barabba era una figura messianica. La scelta tra Gesù e Barabba non è casuale: due figure messianiche, due forme di messianesimo si confrontano. Questo fatto diventa ancor più evidente se consideriamo che Bar-Abbas significa «figlio del padre». È una tipica denominazione messianica, il nome religioso di uno dei capi eminenti del movimento messianico. L'ultima grande guerra messianica degli ebrei fu condotta nel 132 da Bar-Kochba, «Figlio della stella». È la stessa composizione del nome; rappresenta la stessa intenzione.

Da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l'uomo in questione si chiamava «Gesù Barab- bas» - Gesù figlio del padre.

 

Si pone come una sorta di alter ego di Gesù, che rivendica la stessa pretesa, in modo però completamente diverso.

 

La scelta è quindi tra un Messia che capeggia una lotta, che promette libertà e il suo proprio regno, e questo misterioso Gesù, che annuncia come via alla vita il perdere se stessi. Quale meraviglia che le masse abbiano preferito Barabba? (Per maggiori dettagli si veda l'importante libro di Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, Torino 1992, pp. 52-62.)

 

Se noi oggi dovessimo scegliere, Gesù di Nazaret, il Figlio di Maria, il Figlio del Padre, avrebbe qualche possibilità? Ma noi conosciamo davvero Gesù? Lo capiamo? Non dobbiamo forse impegnarci a conoscerlo in un modo completamente nuovo, ieri come oggi?

 

Il tentatore non è così rozzo da proporci direttamente di adorare il diavolo. Ci propone soltanto di deciderci per ciò che è razionale, per la priorità di un mondo pianificato e organizzato, in cui Dio, come questione privata, può avere un suo posto, ma non deve interferire nei nostri propositi essenziali.

 

Solov'ev attribuisce all'Anticristo un libro, La via aperta alla pace e al benessere del mondo, che diventa per così dire la nuova Bibbia e ha come contenuto essenziale l'adorazione del benessere e della pianificazione razionale.

 

La terza tentazione di Gesù si rivela così come quella fondamentale - concerne la domanda su che cosa debba fare un salvatore del mondo. Essa pervade tutta la vita di Gesù. In un decisivo punto di svolta del suo cammino essa emerge ancora una volta apertamente. Pietro aveva pronunciato a nome dei discepoli la confessione di fede in Gesù Messia-Cristo, il Figlio del Dio vivente, dando con ciò espressione a quella fede che costruisce la Chiesa e inaugura la nuova comunità di fede fondata su Cristo. Ma proprio in questo momento cruciale, in cui a confronto con «l'opinione della gente» si manifesta la conoscenza distintiva e decisiva di Gesù e comincia così a formarsi la sua nuova famiglia, ecco farsi avanti il tentatore: il pericolo di volgere tutto al contrario. Il Signore spiega subito che il concetto di Messia è da comprendere a partire dal messaggio profetico nella sua interezza: non significa potere mondano, ma la croce e la comunità completamente diversa che nasce attraverso la croce.

Pietro però non l'aveva inteso in questi termini: «Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: "Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai"». Solo se leggiamo queste parole sullo sfondo del racconto delle tentazioni, come il loro ritorno nel momento decisivo, comprendiamo la risposta incredibilmente dura di Gesù: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,22s).

 

Ma non continuiamo tutti a dire ininterrottamente a Gesù che il suo messaggio porta a contraddire le opinioni predominanti e così rischia l'insuccesso, la sofferenza, la persecuzione? L'impero cristiano o il papato mondano oggi non costituiscono più una tentazione, ma interpretare il cristianesimo come una ricetta per il progresso e riconoscere il comune benessere come il vero scopo di ogni religione e così anche di quella cristiana, questa è la forma nuova della medesima tentazione. Essa appare oggi sotto le vesti della domanda: Ma che cosa ha portato Gesù, se non ha fatto emergere un mondo migliore? Non deve forse essere questo il contenuto della speranza messianica?

 

Nell'Antico Testamento si sovrappongono ancora indistinte due linee di speranza: l'attesa di un mondo sano, in cui il lupo giace accanto all'agnello (cfr. Is 11,6), in cui i popoli del mondo si mettono in cammino verso il monte Sion e per il quale vale la profezia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci» (Is 2,4; Mic 4,1-3). Accanto a questa c'è però la prospettiva del servo di Dio sofferente, di un Messia, che salva attraverso il disprezzo e la sofferenza. Durante tutto il suo cammino e di nuovo nelle conversazioni dopo la Pasqua, Gesù dovette mostrare ai suoi discepoli che Mosè e i Profeti parlavano di Lui, l'esteriormente privo di potere, il sofferente, il crocifisso, il risorto; dovette mostrare che le promesse si compivano proprio così. «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!» (Lc 24,25), disse il Signore ai discepoli di Emmaus, e la stessa cosa deve ripetere continuamente anche a noi, nel corso di tutti i secoli, perché anche noi pensiamo sempre che se voleva essere il Messia avrebbe dovuto portare l'età dell'oro.

 

Ma anche a noi Gesù dice quello che ha obiettato a Satana e quello che ha detto a Pietro e che ha spiegato di nuovo ai discepoli di Emmaus: nessun regno di questo mondo è il regno di Dio, la condizione di salvezza dell'umanità in assoluto. Il regno umano resta regno umano e chi sostiene di poter edificare il mondo salvato asseconda l'inganno di Satana, fa cadere il mondo nelle sue mani.

 

Qui sorge però la grande domanda che ci accompagnerà per tutto questo libro: ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato?

La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio.

 

Quel Dio, il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i Profeti - quel Dio che solo in Israele aveva mostrato il suo volto e che, pur sotto molteplici ombre, era stato onorato nel mondo delle genti - questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio vero Egli ha portato ai popoli della terra.

Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza; la fede, la speranza e l'amore.

 

Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco. Sì, il potere di Dio nel mondo è silenzioso, ma è il potere vero, duraturo. La causa di Dio sembra trovarsi continuamente come in agonia. Ma si dimostra sempre come ciò che veramente permane e salva. I regni del mondo, che Satana poté allora mostrare al Signore, nel frattempo sono tutti crollati. La loro gloria, la loro dóxa, si è dimostrata apparenza. Ma la gloria di Cristo, la gloria umile e disposta a soffrire, la gloria del suo amore non è tramontata e non tramonta.

Dalla lotta contro Satana Gesù esce vincitore: alla divinizzazione menzognera del potere e del benessere, alla promessa menzognera di un futuro che garantisce tutto a tutti mediante il potere e l'economia, Egli ha contrapposto la natura divina di Dio, Dio quale vero bene dell'uomo. All'invito ad adorare il potere, il Signore oppone con le parole del Deuteronomio, lo stesso libro che aveva citato anche il diavolo: «Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto» (Mt 4,10; cfr. Dt 6,13). Il comandamento fondamentale di Israele è anche il comandamento fondamentale dei cristiani: si deve adorare solo Dio. Vedremo più avanti, quando rifletteremo sul Discorso della montagna, che proprio questo sì incondizionato alla prima tavola del Decalogo include anche il sì alla seconda tavola: il rispetto dell'uomo, l'amore per il prossimo. Come Marco, anche Matteo conclude il racconto della tentazione con le parole: «Ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano» (Mt 4,11; Mc 1,13). Ora si compie il Salmo 91,11: gli angeli lo servono. Egli si è rivelato come Figlio e perciò il cielo è aperto sopra di Lui, il nuovo Giacobbe, capostipite di un Israele divenuto universale (cfr. Gv 1,51; Gn 28,12).

 

Testo tratto da: Gesù di Nazaret - 2007 - di J.Ratzinger - Benedetto XVI (Libro primo della trilogia su Gesù)




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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