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Dal Magistero di Benedetto XVI - la dolcezza, le meditazioni, la gioia della fede

Ultimo Aggiornamento: 27/07/2015 16:31
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05/01/2014 09:34




«Caritas in veritate»

Paolo VI, Benedetto XVI e la matrice della dottrina sociale



di Robert P. Imbelli
La Caritas in veritate ha suscitato grande attenzione per le sue conseguenze sulle questioni finanziarie in un momento di crisi economica. Senza negare l'importanza di queste considerazioni, è essenziale non ignorare le sfide strettamente teologiche poste dall'enciclica. Secondo il Papa, infatti, gli interessi economici non possono essere separati da ciò che in definitiva è più importante per l'umanità: l'economia divina della salvezza.

La prima caratteristica dell'enciclica è il richiamo al fondamento della dottrina sociale della Chiesa, ovvero l'annuncio di Gesù Cristo. Una conseguenza dell'orientamento cristologico del testo è che questa dottrina è radicata nel Vangelo e non nella legge naturale. Non si vuole certo escludere l'appello alla legge naturale, tipico della riflessione cattolica sul sociale. Esistono infatti alcuni contesti specifici dove esso è opportuno e perfino necessario, ma il desiderio di trovare un terreno comune per tutte le persone di buona volontà può involontariamente sradicare la legge naturale dal fertile suolo che solo può nutrirla e sostenerla.

In altre parole, la legge naturale è una "astrazione" ottenuta partendo da un linguaggio cattolico di gran lunga più esaustivo e profondo, che esprime una visione dell'umanità e del mondo: quell'umanesimo integrale, tanto caro a Paolo VI e ora confermato da Benedetto XVI. Infatti, a meno che non venga invocato e utilizzato questo più ricco linguaggio cattolico, come fa il Papa in tutta la Caritas in veritate, si rischia di ridurre la religione all'etica, al rapporto personale, alla fraternità e alla promozione di una causa (per quanto giusta e desiderabile possa essere).

Una seconda caratteristica dell'enciclica è la necessità di fare ricorso a una visione integrale dell'uomo, come già nella Populorum progressio. Questo "vero umanesimo integrale" (n. 78) è una veste senza cuciture che intesse l'individuale e il sociale, il corpo e l'anima, l'interesse per la città terrena e la speranza nella città celeste. È degno di nota che Benedetto XVI riunisca in una visione globale testi magisteriali di Paolo VI troppo spesso trascurati dai cattolici: cioè la Populorum progressio, l'Humanae vitae e l'Evangelii nuntiandi, documenti che, insieme, rendono vigorosa testimonianza di una visione, aperta alla speranza, dell'essere umano e del suo destino.

Questa visione dell'uomo, tradizionalmente cattolica, è radicata in definitiva nella cristologia. La convinzione di Benedetto XVI riflette fedelmente l'insegnamento della Gaudium et spes, la quale afferma che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (n. 22).

L'enciclica lancia quindi una sfida ulteriore al pensiero e all'azione dei cattolici. Si tratta della necessità di promuovere una ricezione integrale del Vaticano ii e delle quattro Costituzioni conciliari: ognuna, infatti, illumina le altre. I sostenitori della Gaudium et spes e del suo interesse sociale devono svilupparne i fondamenti alla luce della Dei verbum.
A loro volta, i fautori della riforma liturgica, cominciata con la Sacrosanctum concilium, devono considerare il culto della Chiesa associato intimamente alla testimonianza richiesta dalla Lumen gentium sulla Chiesa "sacramento di salvezza" per tutto il mondo.

In un discorso nell'anniversario del crollo della Lehman Brothers, il presidente degli Stati Uniti ha detto che "è stato un fallimento della responsabilità". Naturalmente, nel caso di Wall Street Barack Obama non poteva usare la parola conversione. Il Papa invece può dire a gran voce quello che i politici possono soltanto sussurrare. Il necessario cambiamento strutturale non può sostituire la conversione autentica del cuore e della mente.

Ma siccome la conversione è un imperativo permanente, la dottrina sociale della Chiesa è completa solo quando è incarnata in una spiritualità che nutre il suo impegno per la carità nella verità. Questa spiritualità "pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono" e promuove la realizzazione della "gratuità presente nella sua vita in molteplici forme" (n. 34), e per i cattolici è sempre radicata nell'Eucaristia. Insomma, la dottrina sociale deriva e dipende dalla matrice liturgica ed ecclesiale e dalle sue affermazioni dogmatiche.

Qualcuno potrebbe obiettare: una simile lettura dell'enciclica non impedisce il dialogo con altre tradizioni e non rivela un atteggiamento settario? Credo di no. Può invece spronare quanti condividono le proposte e i valori della Caritas in veritate a considerare la base delle proprie convinzioni. In questo modo, il dialogo non potrà che essere più profondo (cfr. n. 55).

(L'Osservatore Romano 8 novembre 2009)



   




"Caritas in veritate"

L'enciclica della fraternità universale


di Rosino Gibellini
La Caritas in veritate si potrebbe definire l'enciclica della fraternità universale perché questa è la categoria teologica centrale nel discorso complesso di Benedetto XVI sulla realtà sociale del nostro mondo in via di globalizzazione. Il Papa si inserisce nella dottrina sociale della Chiesa con una modalità particolare, espressa, appunto, dalla categoria della fraternità universale. È stato osservato che Giovanni Paolo II parlava spesso di socialità, un tema che Benedetto XVI riconduce alla sua fonte teologica, e cioè la fraternità. Il terzo capitolo dell'enciclica (n. 34-42) s'intitola Fraternità, sviluppo economico e società civile e si può considerare il centro teologico del testo papale.

Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Joseph Ratzinger, che vi aveva dedicato il corso viennese del 1958, quando il giovane teologo era agli inizi della sua docenza nel seminario filosofico-teologico di Frisinga. Il corso sarà poi pubblicato nel 1960 (quando Ratzinger era già arrivato all'università di Bonn), con il titolo Die christliche Brüderlichkeit (München, 1960; nuova edizione, München, Kösel-Verlag, 2006; traduzione italiana, Roma, 1962; nuova traduzione, Brescia, Queriniana, 2005). La fraternità cristiana - si spiega in quel testo - è quella interna alla Chiesa: è "la reciproca fraternità dei cristiani" che invocano Dio, confidenzialmente, come Abba ("Padre nostro"), come Gesù ci ha insegnato. Ed è una fraternità aperta, perché la Chiesa è sempre - citando von Balthasar - "uno spazio aperto e un concetto dinamico"; essa "è infatti il movimento di penetrazione del regno di Dio nel mondo, nel senso di una totalità escatologica" (La fraternità cristiana, p. 100).
La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l'opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all'unità dell'umanità" (ivi, p. 94). La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è posta "al servizio del tutto", tramite agàpe ("amore") e diakonìa ("servizio").

Nel testo richiamato è bene evidenziata la differenza tra fraternità universale nell'illuminismo e nel cristianesimo. È vero che l'illuminismo ha ampliato il concetto di fratello, parlando di fraternità universale sulla base della comune natura umana. Ma una fraternità così estesa può diventare irrealistica e vaga espressione di umanitarismo, come evidenziano le parole del pur grande inno alla gioia di Schiller: "Abbracciatevi, moltitudini". La fraternità cristiana, invece, si apre all'altro, e si fa fraternità universale appunto nell'agàpe e nella diakonìa, abbattendo così, nella concretezza della vita, ogni barriera. È il tema ripreso nell'enciclica.

Nella Caritas in veritate si afferma infatti che la vera fraternità, operante oltre ogni barriera e confine, nasce dal dono, la cui logica è introdotta nel tessuto economico, sociale e politico: "La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone a essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio gratuità come espressione di fraternità" (n. 34).

Secondo il Papa, nel tempo della globalizzazione in cui ormai l'umanità è entrata, e in cui essa diventa "sempre più interconnessa" (n. 42), gli esseri umani hanno bisogno come singoli e come comunità di un criterio etico fondamentale. Questo criterio è una categoria teologica, quella della fraternità universale, che ci fa considerare membri della stessa "famiglia umana". Se si volesse citare una sola affermazione dell'enciclica, per andare al centro della visione che essa propone, si potrebbe scegliere questa: "La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione" (n. 42).

È questa la parte più strettamente teologica, sul cui registro sono da leggere le indicazioni concrete di etica sociale ed economica contenute nell'enciclica, che insieme propone come chiave di lettura la visione della "fraternità universale" e la logica conseguente della "relazionalità" e della "condivisione" come criterio fondamentale e come orientamento "teologico". Per essere "capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie al servizio di un vero umanesimo integrale" (n. 78).

(L'Osservatore Romano 1 novembre 2009)



   




«Caritas in veritate»   Oltre la dottrina sociale


di Brian Griffiths of Fforestfach
Vicepresidente di Goldman Sachs International
I sostenitori del liberismo economico hanno accolto tiepidamente l'enciclica Caritas in veritate. Essi riconoscono il suo positivo sostegno al profitto, all'economia di mercato, alla globalizzazione, alla tecnologia e al commercio internazionale. Alcuni la considerano tuttavia un miscuglio di cose buone e cattive, perché esorta a maggiori aiuti internazionali, al rafforzamento del potere dei sindacati e alla gestione della globalizzazione da parte di istituzioni internazionali. Altri ritengono che sia un passo indietro rispetto alla Centesimus annus, perché non incensa gli imprenditori e la cultura imprenditoriale. Altri argomentano che, essendo le questioni sociali ed economiche divenute così complesse, il tempo delle encicliche papali che propugnano la dottrina sociale della Chiesa è ormai finito.

Dissento con forza. Questa enciclica è un documento straordinariamente incisivo. Ha posto con fermezza nell'agenda internazionale la fede cristiana quale visione del mondo. Affronta tutte le questioni chiave del nostro tempo - la crisi finanziaria, la povertà globale, l'ambiente, la globalizzazione, la tecnologia - e dimostra che la fede cristiana può offrire una prospettiva unica su ognuna di esse. Non mi viene in mente nessun altro scritto di un singolo cristiano né un testo di un'altra Chiesa che possa avere il suo impatto.

La grande forza dell'enciclica è la sua teologia. Attinge alle profonde riflessioni sull'insegnamento cristiano che Benedetto XVI ha elaborato in oltre sei decenni e dimostra l'importanza della fede cristiana oggi. Per esempio, riconosce che l'ambiente è un dono di Dio all'umanità e che noi ne siamo amministratori, ma, nello stesso tempo, rifiuta il panteismo e l'idea che la natura sia un intoccabile tabù. Afferma che il lavoro ha una dignità innata, derivante dal nostro essere creature di Dio, ma che è violata dalla crescente disoccupazione prodotta dalla crisi. L'economia di mercato crea prosperità, ma quando viene meno la fiducia, come ora a causa della crisi, la coesione sociale è minata.

La teologia dell'enciclica è soprattutto cristocentrica. La vita di Gesù è, infatti, l'esempio supremo di "amore pieno di verità". Riecheggiando Paolo VI, Benedetto XVI afferma che la vita "in Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" e che la fede cristiana, occupandosi dello sviluppo, non conta "su privilegi o posizioni di potere e neppure sui meriti dei cristiani, ma solo su Cristo... il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo". Mentre leggevo l'enciclica per la terza volta ho cominciato a capire che le sue intuizioni teologiche sono così profonde da dover essere letta non solo sul piano intellettuale, come formulazione di dottrina sociale, ma anche in maniera meditativa, perché offre una visione profonda della persona umana.

La Caritas in veritate porta la sua più grande sfida a una visione dominante del mondo, ispirata al liberismo economico e al libertarismo filosofico, che hanno elevato ad assoluto la libertà personale. L'enciclica respinge categoricamente la visione che la vita economica sia autonoma e che possa essere indipendente dalla morale. L'attuale crisi finanziaria è in parte il crollo di un sistema visto meccanicamente, ma è anche la continua rappresentazione di un dramma morale. La vita economica è composta da individui con una coscienza morale e responsabilità personali che hanno bisogno di una bussola morale che li guidi.

Di conseguenza essa non può essere concepita come qualcosa di impersonale e amorale, come un ordine spontaneo che lasciato a se stesso produrrà il bene comune. Per questo, la difesa del libero mercato da parte di economisti laici quali Friedrich Hayek e Milton Friedman è viziata dalla loro visione imperfetta della persona umana e dalla loro limitata comprensione del fondamento morale dei mercati.

L'enciclica è un argomento a favore dell'umanesimo cristiano. La persona umana che ha dignità, merita giustizia e porta l'immagine divina deve stare sempre al centro della vita economica. Il banco di prova di qualsiasi riforma è dunque il suo impatto sulle persone, sui loro rapporti e sulle loro comunità. Per questo l'enciclica non suggerisce un sistema economico alternativo al capitalismo. Sostiene, infatti, qualcosa di infinitamente più radicale: un'economia di mercato globale, pervasa di carità e di giustizia, rispettosa della verità del mondo creato da Dio e delle persone che ne portano l'immagine. "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune".

L'enciclica considera questo un progetto realistico e non un ideale impossibile. La crisi finanziaria ha creato un bivio per tutti noi, per le istituzioni finanziarie in cui lavoriamo e le società in cui viviamo. La Caritas in veritate è un'esortazione rivolta ai cristiani a rinnovare la propria visione di ciò che è possibile, a viverla con l'aiuto di Dio e, così facendo, a servire il mondo con amore.

(L'Osservatore Romano 24 ottobre 2009)


   


La visita del Papa alla diocesi di Viterbo

Da Agostino a Bonaventura



Il desiderio di visitare Viterbo e Bagnoregio - è il sedicesimo incontro con una diocesi italiana - Benedetto XVI l'ha portato sempre con sé. Per via di san Bonaventura, il Dottore serafico, figura capitale nella sua formazione culturale. Quando nel 2007 Papa Ratzinger si inginocchiò a Pavia ai piedi delle spoglie mortali di sant'Agostino, un altro dei suoi fari nel personale itinerario teologico, era facile prevedere che, presto o tardi, sarebbe andato a visitare Bagnoregio, patria di Bonaventura, eminente seguace di Agostino.
Il grande Padre africano, il teologo francescano e Tommaso d'Aquino formano tre direttori di orchestra che interpretano con diversa sensibilità la stessa sinfonia. Sommi maestri che hanno cercato di capire il rapporto tra fede e ragione, tra fede e storia; in altri termini, quale rapporto ci possa essere tra Dio e l'uomo, tra la realtà invisibile e quella visibile e come cambi il senso della vita personale e sociale aprendo la propria anima e il proprio intelletto alla contemplazione di Dio.

La filosofia - scriveva san Bonaventura - è una via per arrivare alle altre scienze, ma chi si vuole fermare cade nelle tenebre. Andare oltre la conoscenza di ragione aprendosi, almeno come interrogativo plausibile, alla conoscenza della fede ha rappresentato un filo costante nella riflessione dei Padri della Chiesa. E per san Bonaventura Cristo rimane la via di tutte le scienze.

Sprazzi di vita di Joseph Ratzinger, prima che diventasse Papa, aiutano a capire la genesi lontana dell'odierna visita pastorale a Viterbo e Bagnoregio.
Il 13 novembre 2000 il cardinale Ratzinger si presentò alla Pontificia Accademia delle scienze di cui era divenuto membro, richiamando brevemente la sua formazione teologica, determinata dal movimento biblico, liturgico ed ecumenico. E mise a fuoco due figure eminenti, Agostino e Bonaventura, sulle quali si era concentrato negli studi prima della "meravigliosa opportunità di presenziare al concilio Vaticano ii come esperto". Un tempo "molto gratificante della mia vita - ricordava Ratzinger - nel quale mi fu possibile essere parte di tale riunione, non solo tra vescovi e teologi, ma anche tra continenti, culture diverse e distinte scuole di pensiero e di spiritualità nella Chiesa".

È sotto gli occhi di tutti come i temi cari ai Padri della Chiesa siano quelli prediletti dal magistero ordinario di Benedetto XVI e come egli, proprio passando attraverso la scuola del concilio, sappia dare eco al linguaggio patristico rivitalizzandolo nel mondo globalizzato e ipertecnico di oggi.

Una direzione di marcia che, dal primo incontro con Agostino e Bonaventura, ha poi sempre mantenuto. Non arroccandosi, ma dialogando con le scienze moderne, convinto che la ricerca della verità senza pregiudizi porti a una maggiore comprensione umana e a un'apertura alla trascendenza.

Sulla scia dei Padri, Benedetto XVI non tiene per sé l'elaborazione teologica e l'esperienza cristiana conseguente, ma le condivide con i fedeli e anche con quanti semplicemente si interrogano sul senso del vivere e del morire, amare e sperare. Il vescovo di Viterbo, Lorenzo Chiarinelli, ha invitato il Papa in una città - che in tempi ormai remoti fu sede pontificia - per confermare la Chiesa diocesana nella fede. E questo significa dare più spazio nella vita quotidiana allo Spirito, leggere la storia con gli occhi di Dio, cominciando cioè dalla fine, quando tutte le cose si ritroveranno purificate e pacificate.

La sensibilità del Papa per la spiritualità - vista come primario impegno della Chiesa, concretata nell'anno di riflessione sulla Parola di Dio nell'anniversario paolino e, ora, con un anno sacerdotale per tornare alle radici del ministero pastorale - non è un'espressione di timore della vita che ferve nella città secolare, ma mostra la sua convinzione che solo una vita animata dalle ragioni e dall'esperienza della fede cristiana possa dare credibilità alla Chiesa e alla sua predicazione su Dio. Di Lui non si può fare a meno perché egli è più intimo a noi di quanto non lo siamo a noi stessi. Difficile, pure volendo, accantonarlo e isolarlo, dal momento che Dio non è avversario dell'uomo. Come insegna Bonaventura e come ripete in molti modi Benedetto XVI.


(L'Osservatore Romano 6 settembre 2009)

   







[Modificato da Caterina63 05/01/2014 09:39]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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