Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 826
Sesso: Femminile
11/08/2013 19:44




continua l'Ebraismo...

La parola “Testamento” non è stata imposta dall’esterno alle Scritture, ma è stata tratta da esse: il titolo che i cristiani danno ai due libri non si propone solo di descrivere a posteriori il senso essenziale del libro, ma di mettere in evidenza il filo interiore della stessa Scrittura e di nominare esplicitamente il termine fondamentale che costituisce la chiave per il tutto. Abbiamo dunque in questa parola un certo tentativo di esprimere in maniera sintetica l’ “essenza del cristianesimo” con un termine derivato da una delle sue fonti fondamentali.

Ma la scelta della parola latina Testamentum è stata davvero corretta? Questa traduzione rende in maniera appropriata i vocaboli usati nei testi ebraico e greco o porta in una direzione sbagliata? La problematica della traduzione emerga chiaramente dal contrasto tra la più antica versione latina e quella di san Girolamo. Mentre la prima usa il termine Testamentum, Girolamo ha optato per i termini foedus o pactum. Come titolo del libro si è imposto “Testamento”, ma, quando parliamo di ciò che si intende sul piano del contenuto, seguiamo Girolamo e parliamo di antica e nuova alleanza, tanto nella teologia quanto nella liturgia.
Ma che cosa è giusto? Sull’etimologia della parola ebraica berit non vi è unanimità tra gli esperti; il significato inteso dagli autori biblici può essere compreso solo dal contesto contenutistico dei testi. Un’importante indicazione per la comprensione della parola sta nel fatto che i traduttori greci della Bibbia ebraica, in 267 passi sui 287 in cui compare, hanno reso la parola berit con διαθήκη, dunque non con la parola σπονδή o συνθήκη, che in greco sarebbe l’equivalente di “patto” o “alleanza”. Partendo dalla loro visione teologica del testo, essi giunsero chiaramente alla conclusione che nella fattispecie non trattava di una syn-theke – un accordo reciproco – ma di una dia-theke, una disposizione, in cui non sono due volontà a mettersi d’accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento.


Per quanto mi è dato a vedere, oggi la ricerca esegetica è concorde nella convinzione che in tal modo gli autori della Septuaginta hanno correttamente inteso il testo biblico. Ciò che noi chiamiamo “alleanza”, nella Bibbia non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono fra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche: questa idea di relazione i cui partner si pongono sullo stesso piano è incompatibile con l’immagine biblica di Dio. Le Scritture presuppongono piuttosto che l’uomo non sia di per sé in grado di stabilire un rapporto con Dio, né tanto meno di dargli qualcosa e, in cambio, di ricevere da lui o, addirittura, di imporgli degli obblighi in relazione alle azioni dall’uomo stesso compiute. Se si giunge a un rapporto tra Dio e l’uomo, ciò può avvenire solo grazie a una libera scelta di Dio, la cui sovranità resta per questo intatta. Si tratta dunque di una relazione del tutto asimmetrica, dato che nel rapporto con la creatura Egli è e resta il totalmente altro: l’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio. Certamente, con quest’ultima affermazione andiamo già oltre la pura questione filologica. Benché la struttura dell’alleanza abbia come modello i patti statuali ittiti e assiri, in cui il sovrano concedeva dei diritti al vassallo, l’alleanza di Dio con Israele è più di un contratto vassallatico: il re-Dio non riceve nulla dall’uomo, ma gli dà la via della vita nel dono della sua Legge.

Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma?
Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra però realizzare un’inattesa reciprocità.

Muovendo da un punto di partenza del tutto differente e di segno quasi opposto, il pensiero antico era consapevole che la relatio tra Dio e l’uomo poteva essere solamente asimmetrica. Dalla logica del pensiero metafisico nella filosofia greca si deduceva che il Dio immutabile non poteva stabilire delle relazioni mutevoli, che la relazione era caratteristica dell’uomo in quanto essere mutevole. Nel rapporto tra Dio e l’uomo si poteva quindi parlare solo di una relatio non mutua, di un volgersi dell’uno all’altro senza reciprocità: l’uomo si relaziona a Dio, ma non Dio all’uomo. La logica pare inoppugnabile. L’eternità esige l’immutabilità, l’immutabilità esclude relazioni che si collocano nel tempo e si riferiscono.

La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3,4-18 e in Gal 4,21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20) con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”.

La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato. Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale.

E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre alleanze. L’Antico Testamento conosce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele, quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide. Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, dev’essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’alleanza con Abramo e quella con Mosè. L’alleanza con Abramo la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio.


D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza.

Un dato incontestato è che i quattro racconti dell’istituzione dell’eucaristia (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26) possono essere suddivisi in due gruppi, in base alla redazione del testo e alla teologia che vi esprime: la tradizione marciano-matteana e quella che troviamo in Paolo e Luca. La differenza principale tra di esse si trova nelle parole sul calice. In Matteo e Marco, a proposito del contenuto del calice, si dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”; Matteo aggiunge inoltre: “in remissione dei peccati”. In Luca e Paolo, invece, il contenuto del calice è così indicato: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”; Luca aggiunge: “che è versato per voi”. “Alleanza” e “sangue” sono grammaticalmente correlati in forma antitetica. In Matteo e Marco il dono del calice è “il sangue”,subito descritto come “sangue dell’alleanza”. In Paolo e Luca il calice è “la nuova alleanza”, di cui si dice che è fondata “nel mio sangue”. Una seconda differenza che possiamo registrare è che solo Luca e Paolo parlano di nuova alleanza. Una terza importante differenza va ricordata: solo Matteo e Marco contengono l’espressione “per molti”. Ambedue le linee si basano su tradizioni dell’Antico Testamento relative all’alleanza, ma scelgono ciascuna un differente approccio. In tal modo nell’insieme dei racconti dell’istituzione dell’eucaristia confluiscono tutte le idee fondamentali sull’alleanza, fondendosi in una nuova unità.

Di quali tradizioni si tratta? Le parole sul calice di Matteo e Marco sono tratte direttamente dal racconto della stipulazione dell’alleanza sul Sinai. Con il sangue del sacrificio Mosè asperge anzitutto l’altare, che rappresenta il Dio nascosto, poi il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8). Antichissimi modi di pensare vengono qui accolti ed elevati a un piano superiore.
G. Quell ha così definito l’idea arcaica dell’alleanza, come appare nelle storie dei patriarchi: “[...] stipulare un’alleanza significa tanto entrare a far parte di un clan estraneo, quanto introdurre il partner nel proprio, stabilendo così una relazione giuridica con lui”. La fittizia parentela di sangue così realizzata “fa di coloro che vi partecipano dei fratelli carnali”. “L’alleanza produce una totalità che è pace” – Shalom. Il rito di sangue del Sinai significa che Dio compie con questi uomini, durante il cammino nel deserto, la stessa cosa che fino a quel momento hanno fatto tra loro solo dei gruppi tribali diversi: entra con gli uomini in una misteriosa parentela di sangue, così che ora egli appartiene a loro ed essi a lui. Indubbiamente la parentela qui stabilita, che nasce paradossalmente tra Dio e l’uomo, è caratterizzata, dal punto di vista del contenuto, dalla parola letta, dal libro dell’alleanza. Mediante l’appropriazione di questa parola, la vita da lui e con lui, nasce la parentela rappresentata cultualmente nel rituale del sangue. Quando Gesù, porgendo il calice, dice ai discepoli: “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, le parole del Sinai sono portate a un realismo estremo e, al contempo, ne viene dischiusa una profondità che prima non poteva essere colta. Quel che accade qui è insieme spiritualizzazione e supremo realismo. Infatti la comunione di sangue sacramentale, che ora diviene possibile, lega coloro che la ricevono a quest’uomo Gesù, fatto di carne, e insieme al suo mistero divino, in una comunione concretissima, che arriva fino alla corporeità.

Paolo ha descritto questa nuova “parentela di sangue” con Dio, che sorge mediante la comunione con Cristo, per mezzo di un ardito e crudo paragone: “O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? Infatti è detto: i due saranno una sola carne [Gn 2,24]. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito [pneuma]” (1Cor 6,17). In queste parole si chiarisce certamente anche la natura del tutto differente della parentela: la comunione sacramentale con Cristo e quindi con Dio estrae l’uomo dal mondo materiale e transitorio a lui proprio e lo innalza fin dentro l’essere stesso di Dio, che l’apostolo descrive con il termine “pneuma”. Il Dio che è disceso trae l’uomo in alto, in ciò che gli è proprio e che è nuovo. La parentela con Dio significa per l’uomo un nuovo e profondamente diverso livello esistenziale.

Per la nostra ricerca dell’essenza dell’alleanza è importante questo: la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata. Il rinnovamento dell’alleanza, che pure fin dalle origini è stato un elemento essenziale nella liturgia di Israele, raggiunge qui la sua forma più alta possibile.

Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere, ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. Conseguentemente essa ha sottolineato con forza che non si tratta di “alleanza”, ma di “testamento”, di una pura disposizione di Dio. Le espressioni riferite all’esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenenti l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendere in questo contesto. Che cosa dobbiamo dire in proposito, alla luce di quanto osservato finora? Due dati mi sembrano ormai chiari, che compensano l’unilateralità di queste antitesi e rendono evidente l’unità intrinseca della storia di Dio con gli uomini, così come è rappresentata in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento.

Anzitutto va ricordato che l’alleanza fondamentalmente nuova, quella con Abramo, mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. Paolo ha quindi colto nel segno osservando che l’alleanza con Abramo unisce in sé ambedue gli elementi dell’universalità intenzionale e del libero dono. In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani. Per quanto riguarda l’alleanza sinaitica, bisogna operare ulteriori distinzioni. Essa è strettamente legata al popolo di Israele; dà a questo popolo un ordinamento giuridico e cultuale (i due aspetti sono inseparabili), che come tale non può essere semplicemente esteso a ogni popolo.

Dal momento che per Israele questo ordinamento giuridico è costitutivo, il “se” della Legge da rispettare è parte integrante della sua essenza e, di conseguenza, è condizionato, cioè legato al tempo, uno stadio delle disposizioni di Dio che ha una sua durata. Paolo ha messo chiaramente in luce tutto ciò e nessun cristiano può prescindere da tale fatto; la storia stessa conferma questa visione. Ma con ciò non si è detto tutto sull’alleanza mosaica né sull’ “Israele secondo la carne”. Infatti la Legge non è solo un peso che viene imposto, come noi pensiamo dando un’unilaterale accentuazione alle antitesi paoline. Nella prospettiva dei credenti dell’Antico Testamento la Legge stessa è la forma concreta della grazia. Infatti la grazia è conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di Dio significa conoscere se stessi, significa comprendere il mondo, significa sapere dove si va. Significa anche che veniamo liberati dall’oscurità delle nostre domande senza fine, che è giunta la luce, senza la quale non possiamo vedere e procedere. “A nessun altro popolo hai manifestato la tua volontà”: per Israele, almeno nei suoi migliori rappresentanti, la Legge è il manifestarsi della verità, il manifestarsi del volto di Dio e, quindi, la possibilità di vivere rettamente.


E’ a partire di qui che dobbiamo comprendere ciò che Paolo intende quando in Gal 6,2 – seguendo la speranza messianica giudaica – parla della Torah del Messia, della Torah di Cristo: anche secondo Paolo il Messia, Cristo, non lascia l’uomo senza legge, senza diritto. Caratteristico del Messia, come nuovo e più grande Mosè, è piuttosto il fatto che egli porta l’interpretazione definitiva della Torah, in cui la stessa Torah viene rinnovata, perché la sua vera essenza ora si svela completamente e il suo carattere di grazia appare indubitabilmente come realtà. Afferma in proposito H.Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: “La Torà del Messia Gesù è in effetti una “interpretazione” della legge mosaica [...] una “interpretazione” mediante la croce del Messia Gesù”. La sua autorità “svela la legge nella sua parola essenziale, come appello originario, suscitatore di vita, di colui che l’ha adempiuta”.

La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. A lui si riferisce dunque l’invito: “lui dovete ascoltare”. Così la “Legge” diventa universale, così essa è grazia, così fonda un popolo, che diventa popolo proprio mediante l’ascolto e la conversione. In questa Torah, che è Gesù stesso, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). Imitarlo, seguirlo, è dunque osservare la Torah, che proprio in lui ha trovato la sua pienezza definitiva.

Questa idea dell’unilateralità del testamento corrisponde senza dubbio al concetto della grandezza e della sovranità di Dio; essa è certamente condizionata anche da una struttura sociale. I monarchi dell’antico Oriente agivano solo unilateralmente, da sovrani; nessuno poteva porsi al loro stesso livello. Ma è proprio questo sfondo sociologico dello schema asimmetrico a venire lacerato e rifiutato nella Bibbia; così anche l’immagine di Dio viene delineata in modo nuovo. Dio dispone, ma c’è comunque – praticamente fin dall’inizio – un impegno che Dio stesso si prende, grazie al quale si sviluppa qualcosa di simile a una relazione tra partner. Agostino ha messo molto bene in evidenza questo aspetto, affermando: “[...] è fedele Dio, il quale si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi. Gli parve poco la promessa, ed allora volle obbligarsi anche per iscritto e ci rilasciò, per così dire, il documento autografo di queste sue promesse”.

Prima di tutti questi testi sta la misteriosissima storia della conclusione dell’alleanza con Abramo, in cui il patriarca, secondo il costume orientale, divide a metà gli animali sacrificali. I partner dell’alleanza usano passare in mezzo agli animali divisi, rito che ha valore di giuramento imprecatorio: se rompo l’alleanza, accada a me come a questi animali. In una visione Abramo vede come un forno fumante e una fiaccola ardente – ambedue immagini della teofania – passare tra le carni degli animali divisi. Dio suggella l’alleanza garantendo lui stesso la fedeltà ad essa con un inequivocabile simbolo di morte. Ma Dio può morire? Può punire se stesso? L’esegesi cristiana dovette vedere in questo testo un misterioso e prima di allora indecifrabile segno della croce, in cui Dio, con la morte di suo figlio, si fa garante della indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21). Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce. Proprio dal carattere incondizionato dell’agire di Dio sorge così, nella prospettiva della Bibbia, una vera bilateralità; il testamento diventa alleanza. I padri della Chiesa hanno espresso questa nuova bilateralità, che scaturisce dalla fede in Cristo come Colui che adempie le promesse, con i due concetti di incarnazione di Dio e divinizzazione dell’uomo. Il legame che Dio si autoimpone passa quindi attraverso il dono della Scrittura come parola vincolante della promessa e arriva al punto che Dio si lega, nella sua stessa esistenza, alla creatura umana assumendo la natura di uomo. Ciò significa, viceversa, che il sogno originale dell’uomo si realizza e l’uomo diventa “come Dio”: in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva.

Abbiamo osservato che nella concezione antica l’uomo poteva entrare in rapporto con Dio riconoscendolo e amandolo, ma che, per contro, una relazione del Dio eterno con l’uomo temporale era considerata contraddittoria e, dunque, impossibile. Il monoteismo filosofico del mondo antico aveva aperto la porta alla fede biblica in Dio e al suo monoteismo religioso, che pareva rendere nuovamente possibile l’accordo smarrito tra ragione e religione. I padri, che partivano da questa corrispondenza tra filosofia e rivelazione biblica, dovettero però constatare che dell’identità dell’unico Dio della Bibbia si poteva parlare essenzialmente per mezzo di due predicati: creazione e rivelazione, creazione e redenzione. Ambedue, però, sono concetti relazionali. Il Dio biblico è dunque un Dio-in-relazione e, quindi, nell’essenza della sua identità, si contrappone al Dio chiuso in sé della filosofia.

Una categoria preesistente, quella di relazione, mutò radicalmente il suo significato. Nella tavola aristotelica delle categorie la relazione si colloca nel gruppo degli accidenti, che rinviano alla sostanza e da essa dipendono; in Dio non vi sono dunque accidenti. Attraverso la riflessione cristiana sulla Trinità, la relatio esce dallo schema sostanza-accidente. Dio stesso viene ora descritto come trinitaria realtà relazionale, come relatio subsistens. Se dell’uomo si dice che è immagine di Dio, ciò significa che egli è l’essere costruito come relazione; che egli, attraverso e dentro tutte le sue relazioni, cerca la relazione che è il fondamento del suo esistere. Allora l’alleanza è la risposta all’uomo come immagine e somiglianza di Dio; in essa si chiarisce chi e che cosa noi siamo e chi è Dio: per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”.

Anche se tutta la portata di questo processo non è ancora chiara, tuttavia la fusione delle categorie tradizionali è del tutto evidente in Agostino, De Trin., V,V,6 (PL 42,914): “Quamobrem nihil in eo [=in Deo] per accidens dicitur, quia nihil ei accidit; nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur [...] hoc non secundum substantiam dicuntut, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile”.
(La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo testamento
da J.Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.27-48)

Lo studio della Bibbia è come l’anima della teologia; lo dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 24), rifacendosi a una espressione del Papa Leone XIII. Tale studio non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri.
Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.

Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo.

La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive.
(dalla Prefazione al Documento della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993)

Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell'itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant'Agostino d'Ippona

Per il giovane africano, che come fanciullo aveva ricevuto il sale, che lo rendeva catecumeno, era chiaro che la svolta verso Dio doveva essere una svolta verso Cristo, che senza Cristo egli non poteva trovare veramente Dio. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell'Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Nella sua ricerca si imbatté così in persone, che annunciavano un nuovo cristianesimo spirituale — un cristianesimo, nel quale si disprezzava l'Antico Testamento come non spirituale e ripugnante; un cristianesimo, il cui Cristo non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici. Queste persone promettevano un cristianesimo della semplice e pura ragione, un cristianesimo nel quale Cristo era il grande illuminato, che conduceva gli uomini ad una vera autoconoscenza. Erano i manichei.
La grande promessa dei manichei si dimostrò ingannevole, ma il problema non era per questo risolto. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant'Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un'interpretazione dell'Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Così fu superato non solo lo scandalo esteriore della forma letteraria insoddisfacente della Bibbia «vetus latina», ma soprattutto lo scandalo interiore di un libro, che si manifestava ora più che come documento della storia della fede di un determinato popolo, con tutti i suoi disordini ed errori, come voce di una sapienza proveniente da Dio e che concerneva tutti. Una tale lettura della Bibbia di Israele, che riconosceva nelle sue vie storiche la trasparenza di Cristo e così la trasparenza del Logos, dell'eterna sapienza stessa, non fu fondamentale solo per la decisione di fede di Agostino: essa fu e rimane il fondamento della decisione di fede nella Chiesa nel suo insieme. 
Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Dal punto di vista della esegesi storico-critica — almeno a prima vista — tutto sembra argomentare contro. Così si è espresso nel 1920 l'eminente teologo liberale Adolf von Harnack: «Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo (allude a Marcione) fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16° secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale».
Ha ragione Harnack? A prima vista molti elementi sembrano dargli ragione. Se l'esegesi di Ambrogio aprì la via verso la Chiesa per Agostino e divenne nel suo orientamento di fondo — anche se nei particolari naturalmente del tutto variabile — il fondamento della fede nella Parola di Dio della Bibbia bipartita ma pur sempre unitaria, si può subito così controbattere: Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l'ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell'antichità — soprattutto Omero, quindi non solo avrebbe realizzato un'ellenizzazione profondamente estranea alla parola biblica, ma si sarebbe servito di un metodo, che in se stesso era privo di credibilità, poiché mirante in definitiva a conservare come sacrale ciò che in realtà rappresentava la testimonianza di una cultura non più attualizzabile.
Ma le cose non sono così semplici.
Origene ancor più che sull'esegesi di Omero da parte dei greci poteva fondarsi sull'esegesi dell'Antico Testamento, che era nata in ambito giudaico, sopratutto in Alessandria e con Filone come capofila, e che in un modo del tutto proprio cercava di dischiudere la Bibbia di Israele ai greci, i quali ben al di là degli dei cercavano l'unico Dio, che potevano trovare nella Bibbia. Egli inoltre ha imparato dai rabbini. Infine egli ha elaborato principi cristiani del tutto specifici: l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento.


Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell'esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l'allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della «Scrittura» — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: «Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi» (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di fondare questa pretesa nei particolari, sopratutto Matteo, ma non meno Paolo, il quale utilizzò in proposito i metodi di interpretazione rabbinici e cercò di mostrare che proprio questa forma di interpretazione sviluppata dagli scribi conduce a Cristo come chiave delle «Scritture».
Per gli autori ed i fondatori del Nuovo Testamento l'Antico Testamento è anzi molto semplicemente la «Scrittura»; solo la Chiesa nascente poteva lentamente formare un canone neotestamentario, che ora allo stesso modo costituiva Sacra Scrittura, ma pur sempre in quanto presuppone come tale la Bibbia di Israele, la Bibbia degli Apostoli e dei loro discepoli, che soltanto ora riceve il nome di Antico Testamento, e le fornisce la chiave di interpretazione. 


In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione, a partire dai quali l'esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. Lutero, nel contesto dell'umanesimo e della sua nuova coscienza storica, soprattutto però nel contesto della sua dottrina della giustificazione, ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto fra le due parti della Bibbia cristiana, che non si fonda più sull'armonia interiore di Antico e Nuovo Testamento, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e vangelo. Bultmann ha espresso in modo moderno questo approccio di fondo con la formula, secondo cui l'Antico Testamento si sarebbe adempiuto in Cristo nel suo fallimento. Più radicale è la proposta sopra menzionata di Harnack, che — per quanto io possa vedere — praticamente non è stata ripresa da nessuno, ma era perfettamente logica a partire da un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita. Ciò, come abbiamo visto, non è una questione storica particolare, ma i fondamenti stessi del Cristianesimo sono qui in discussione. Così diviene anche chiaro perché nessuno ha voluto seguire la proposta di Harnack, di realizzare finalmente quel congedo dall'Antico Testamento intrapreso solo troppo presto da Marcione. Ciò che a quel punto resterebbe, il nostro Nuovo Testamento, non avrebbe senso in se stesso. Il documento della Pontificia Commissione Biblica che qui presentiamo dice in proposito: «Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi» (n. 84). 

A questo punto diventa visibile la complessità del compito, davanti al quale si trovò la Pontificia Commissione Biblica, quando si decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se esiste una via di uscita dal vicolo cieco descritto da Harnack, deve essere ampliato ed approfondito, rispetto alla visione degli studiosi liberali, il concetto di un'interpretazione oggi sostenibile dei testi storici, soprattutto però del testo della Bibbia considerato come Parola di Dio. In questa direzione negli ultimi decenni è accaduto qualcosa di importante. La Pontificia Commissione Biblica ha presentato il contributo essenziale di questi studi nel suo Documento pubblicato nel 1993 «L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa». L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, era un ausilio per comprendere meglio come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità dell'insieme. La Commissione Biblica riprendendo questo suo precedente documento e fondandosi su accurate riflessioni metodologiche ha approfondito i singoli grandi complessi tematici di entrambi i Testamenti nella loro relazione ed ha potuto in conclusione dire che l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, «corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi» (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza per la continuazione del dialogo, ma sopratutto anche per i fondamenti della fede cristiana. 

La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un'altra luce. Due problemi principali si ponevano: possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente ed umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? La Commissione ha affrontato entrambe le questioni. È chiaro che un congedo dei cristiani dall'Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune. Ciò che però deve conseguire dagli eventi accaduti è un rinnovato rispetto per l'interpretazione giudaica dell'Antico Testamento. Al riguardo il documento dice due cose. Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia « è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa » (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana. 

Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l'ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi «antigiudaici». Qui vorrei solo sottolineare un'intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all'interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell'Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza. 

(dalla Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, del 2001)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 21:16. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com