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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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11/08/2013 19:37


L’ebraismo

L’altro grande tema (N.d.C. oltre al dialogo tra le religioni del mondo) che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945 è senza dubbio una delle ragioni primarie dell’urgenza con cui tale questione è oggi sentita, ma certamente non è la sua unica causa e il suo unico criterio. Il metodo storico-critico fa apparire ampiamente discutibile l’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento; d’altra parte l’esegesi del Nuovo Testamento ha notevolmente relativizzato la cristologia. Ambedue queste circostanze sembrano a prima vista favorire il dialogo ebraico-cristiano: diventa ora possibile, apparentemente, considerare l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento come l’unica storicamente fondata. facendo passare in secondo piano la cristologia, si può rimuovere il vero ostacolo che divide giudaismo e cristianesimo.
Ma queste promesse sono ingannevoli. Infatti, se l’Antico Testamento non parla di Cristo, per i cristiani non è affatto Bibbia. Harnack ne aveva già tratto la conclusione che era finalmente giunto il momento di portare a termine il passo di Marcione, separando il cristianesimo dall’Antico Testamento. Ma ciò porterebbe appunto alla liquidazione dell’identità cristiana, che si fonda appunto sull’unità dei due Testamenti. E porterebbe al tempo stesso alla dissoluzione della parentela spirituale che ci lega a Israele e, quindi, alle conseguenze estreme già delineate da Marcione: il Dio di Israele apparirebbe come un Dio estraneo, che non è certo il Dio dei cristiani.
La stessa cosa vale per la svalutazione della cristologia: se Cristo fu solo un rabbino ebreo incompreso o un ribelle messo a morte dai romani per motivi politici, che cosa avrebbe ancora da dire il suo messaggio? Mediante lui, il Gesù Cristo creduto dalla Chiesa figlio di Dio, il Dio di Israele è divenuto il Dio delle genti, si è compiuta la promessa secondo cui il servo di Dio porterà la luce di questo Dio a tutti i popoli. Se si spegne la luce di Cristo, si spegne anche la luce di Dio che noi abbiamo riconosciuto nel suo sguardo, dell’unico Dio in cui noi crediamo con “Abramo e la sua discendenza”, alla quale, noi, come cristiani, siamo convinti di poter appartenere proprio grazie a questa fede. Le false semplificazioni danneggiano il dialogo con le religioni e danneggiano il dialogo con l’ebraismo.
(dalla Premessa del 1997 a La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.5-6)

Per Natale ci scambiamo dei doni, per dare gioia gli uni agli altri e partecipare così alla gioia che il coro degli angeli annunziò ai pastori, richiamando alla memoria il regalo per eccellenza che Dio fece all'umanità donandoci suo Figlio Gesù Cristo. 
Ma questo è stato preparato da Dio in una lunga storia, nella quale — come dice sant'Ireneo — Dio si abitua a stare con l'uomo e l'uomo si abitua alla comunione con Dio. Questa storia comincia con la fede di Abramo, Padre dei credenti, Padre anche della fede dei cristiani e per la fede nostro Padre. Questa storia continua nelle benedizioni per i patriarchi, nella rivelazione a Mosè e nell'esodo di Israele verso la terra promessa. 
Una nuova tappa si apre con la promessa a Davide ed alla sua stirpe di un regno senza fine. I profeti a loro volta interpretano la storia, chiamano a penitenza e conversione e preparano così il cuore degli uomini a ricevere il dono supremo. Abramo, Padre del popolo di Israele, Padre della fede, è così la radice della benedizione, in lui "si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12, 3). 
Compito del popolo eletto è quindi donare il loro Dio, il Dio unico e vero, a tutti gli altri popoli, e in realtà noi cristiani siamo eredi della loro fede nell'unico Dio. La nostra riconoscenza va dunque ai nostri fratelli ebrei che, nonostante le difficoltà della loro storia, hanno conservato, fino ad oggi, la fede in questo Dio e lo testimoniano davanti agli altri popoli che, privi della conoscenza dell'unico Dio, "stavano nelle tenebre e nell'ombra della morte" (Lc 1, 79).
Il Dio della Bibbia degli ebrei, che è Bibbia — insieme al Nuovo Testamento — anche dei cristiani, a volte di una tenerezza infinita, a volte di una severità che incute timore, è anche il Dio di Gesù Cristo e degli apostoli. 
La Chiesa del secondo secolo dovette resistere al rifiuto di questo Dio da parte degli gnostici e soprattutto di Marcione, che opponevano il Dio del Nuovo Testamento al Dio demiurgo creatore, da cui proveniva l'Antico Testamento, mentre la Chiesa ha sempre mantenuto la fede in un Dio solo, creatore del mondo e autore di ambedue i testamenti. 
La coscienza neotestamentaria di Dio che culmina nella definizione giovannea "Dio è amore" (1 Giov 4, 16) non contraddice il passato, ma compendia piuttosto l'intera storia della salvezza, che aveva come protagonista iniziale Israele. Perciò nella liturgia della Chiesa dagli inizi e fino ad oggi risuonano le voci di Mosè e dei profeti; il salterio di Israele è anche il grande libro di preghiera della Chiesa. Di conseguenza la Chiesa primitiva non si è contrapposta a Israele, ma credeva con tutta semplicità di esserne la continuazione legittima. 
La splendida immagine di Apocalisse 12, una donna vestita di sole coronata di dodici stelle, incinta e sofferente per i dolori del parto, è Israele che dà la nascita a colui "che doveva governare tutte le nazioni con scettro di ferro" (Sal 2, 9); e tuttavia questa donna si trasforma nel nuovo Israele, madre di nuovi popoli, ed è personificata in Maria, la Madre di Gesù. Questa unificazione di tre significati — Israele, Maria, Chiesa — mostra come, per la fede dei cristiani, erano e sono inscindibili Israele e la Chiesa.
Si sa che ogni parto è difficile. Certamente fin dall'inizio la relazione fra la Chiesa nascente ed Israele fu spesso di carattere conflittuale. La Chiesa fu considerata da sua madre figlia degenere, mentre i cristiani considerarono la madre cieca ed ostinata. Nella storia della cristianità le relazioni già difficili degenerarono ulteriormente, dando origine in molti casi addirittura ad atteggiamenti di antigiudaismo, che ha prodotto nella storia deplorevoli atti di violenza. 
Anche se l'ultima esecrabile esperienza della shoah fu perpetrata in nome di un'ideologia anticristiana, che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica, nel popolo di Israele, non si può negare che una certa insufficiente resistenza da parte di cristiani a queste atrocità si spiega con l'eredità antigiudaica presente nell'anima di non pochi cristiani. 
Forse proprio a causa della drammaticità di quest'ultima tragedia, è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa ed Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e di iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione. Un tale dialogo, per essere fruttuoso, deve cominciare con una preghiera al nostro Dio perché doni prima di tutto a noi cristiani una maggiore stima ed amore verso questo popolo, gli israeliti, che "possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen." (Rom 9, 4-5), e ciò non solo nel passato, ma anche presentemente "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rom 11, 29). Pregheremo egualmente perché doni anche ai figli d'Israele una maggiore conoscenza di Gesù di Nazareth, loro figlio e dono che essi hanno fatto a noi. Poiché siamo ambedue in attesa della redenzione finale, preghiamo che il nostro cammino avvenga su linee convergenti.
È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l'Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un'altra religione, ma il fondamento della nostra fede. Perciò i cristiani — ed oggi sempre più in collaborazione con i loro fratelli ebrei — leggono e studiano con tanta attenzione, come parte del loro stesso patrimonio, questi libri della Sacra Scrittura. 
È vero che anche l'Islam si considera figlio di Abramo e ha ereditato da Israele e dai Cristiani il medesimo Dio, ma esso percorre una strada diversa, che ha bisogno di altri parametri di dialogo.
(da L'eredità di Abramo, dono di Natale, articolo apparso il 29 Dicembre 2000 su l’Osservatore Romano)

Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, l'«Antico Testamento», accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia.
Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l'unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l'intera portata dell'affermazione teologica. Infatti mediante l'incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l'unico Dio, secondo cui il «monte del Signore» sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti.

Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel «tempo dei pagani». I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo.

Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.57-74)

Indubbiamente dobbiamo vivere e pensare in modo completamente nuovo il nostro rapporto con l’ebraismo, ed è quanto già si sta facendo. La dif­ferenza non è stata eliminata e, anzi, in un certo modo la sentiremo forse perfino più forte. Ma de­ve essere vissuta sulla base del rispetto vicende­vole e della interiore affinità. In questa direzione siamo in cammino. Attraverso l’Antico Testamen­to, come parte della Bibbia cristiana, c’è sempre stato un profondo legame interiore tra cristiane­simo ed ebraismo. Ma proprio questo patrimonio comune ha sempre rappresentato un fattore di di­visione, perché gli ebrei avevano la sensazione che noi avessimo rubato loro la Bibbia, ma non la vi­vessimo, che solo loro ne fossero i legittimi pro­prietari. Al contrario, nella cristianità c’era, da una parte, la sensazione che gli ebrei leggessero l’An­tico Testamento in modo sbagliato, che esso ve­nisse letto correttamente solo se apertamente proiettato sulla figura di Cristo. Essi lo hanno rin­chiuso in se stesso, privandolo del suo vero orien­tamento.

E così è avvenuto che i cristiani si rivol­gessero agli ebrei, dicendo: voi avete sì la Bibbia, ma non la usate nel modo giusto, dovete fare un passo avanti, il passo decisivo. L’altro aspetto era che a partire dal II secolo ci sono sempre stati nel cristianesimo dei movimenti che volevano liberarsi dell’Antico Testamento o co­munque ne sminuivano l’importanza. Anche se questa posizione non è mai stata accettata dal ma­gistero della Chiesa, nella cristianità si è comun­que fatta strada una certa svalutazione dell’Anti­co Testamento. Se naturalmente si prendono alla lettera, superficialmente, le singole prescrizioni della legge o certe storie crudeli, ci si potrebbe chiedere perché quella dovrebbe essere la nostra Bibbia. In questo modo si è sviluppato un antise­mitismo cristiano. Quando in epoca moderna i cri­stiani si sono allontanati dall’interpretazione al­legorica, con cui i Padri avevano «cristianizzato» l’Antico Testamento, si è cominciato a sperimen­tare un nuovo senso di estraneità verso questo li­bro; dobbiamo nuovamente imparare a leggerlo in modo corretto. Dobbiamo vivere ancora l’appartenenza recipro­ca attraverso la comune storia di Abramo, che è allo stesso tempo ciò che ci separa e ciò che ci uni­sce, rispettando il fatto che gli ebrei non leggono l’Antico Testamento a partire da Cristo, ma a par­tire da Colui che deve ancora venire e non è anco­ra conosciuto; e il fatto che essi, però, proprio in questo modo, si collocano nello stesso orientamen­to di fede. Per parte nostra, noi speriamo che gli ebrei possano a loro volta capire che noi, pur ve­dendo l’Antico Testamento sotto un’altra luce, cer­chiamo tuttavia di credere insieme con loro la fe­de di Abramo e possiamo così vivere in un comu­ne orientamento interiore rivolti gli uni verso gli altri.

(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.

Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo», così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo?
Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza, anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?

Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l' autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell'epoca.

Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.

In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (M t 2,2) mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell' Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica» (528).

Potremmo dire: la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli “che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti, dice il Signore” (Is 66,19.21).
Per spiegare la riunione di Israele e delle nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere dalla quale non è possibile giungere alla meta.

Che significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo deve dilatarsi fino a comprendere i «molti».

Un'altra osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi, nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento.

A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere, ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.

La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa, che desidero qui esporre in modo esauriente: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ = della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).

Questa visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; Mt 7,12; 22,34-40; Mc 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10). Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema' Isra'el, al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione. Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via.

Con la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente all'interno della tradizione cattolica, così come è stata formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e dunque come avversario di se stesso. In essa non vigeva la dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant'Agostino: nell' Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è manifesto l' Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell' Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2).

Questa frase è stata intesa dai miei uditori come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti. In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si deve affrontare né, tanto meno, giudicare o addirittura condannare la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.

A questo punto si pone però una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.

Ci troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzata. Nel punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio.

Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

In questo contesto è importante un passo del Catechismo che interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn 22).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell' Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo.

Il Catechismo ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui «parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede,e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra Aetate 4).

Coerentemente, l'analisi delle responsabilità viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismo poteva appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
Il Catechismo Romano del 1566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R. 1,5,11).
Per chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la vittoria sul peccato da parte dell'amore, più forte, di Dio.

Per questo, al di là di tutte le questioni di responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24), secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente - da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione.
Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo - mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente della riconciliazione di Dio.
(da Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, pagg.9-26)

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- Intanto anche nella Chiesa è diventata patrimonio comune l’affermazione che Gesù era ebreo. Ma non si dovrebbe dire “Dio è diventato ebreo” invece di “Dio è diventato uomo”? La fede cristiana non deve dunque accettare l’ebraismo anche nella sua vocazione storica?

Anzitutto è importante essere chiaramente consapevoli che Gesù è stato ebreo. Al riguardo vorrei riferire quanto segue. Sono andato a scuola durante il periodo nazista e ho conosciuto direttamente la tendenza dei “deutsche Christen” [i cristiani filonazisti] a fare di Cristo un “ariano”: in quanto originario della Galilea non sarebbe stato affatto ebreo. Nel nostro corso di religione, come anche nelle prediche, veniva invece detto con energia: questa è una falsificazione; Cristo era figlio di Abramo, figlio di Davide, è stato un ebreo, ciò fa parte delle promesse, è parte della nostra fede. Si tratta indubbiamente di un punto importante, al quale noi, come cristiani ed ebrei, siamo davvero reciprocamente legati.
Ma rimane significativa e vera anche l’altra affermazione: Dio è diventato uomo. E’ interessante il fatto che nel Nuovo Testamento siano presenti due genealogie di Gesù: quella di Matteo risale ad Abramo e indica Gesù come figlio di Abramo, come figlio di Davide e quindi come realizzazione della promessa di Israele. Quella di Luca risale ad Adamo e indica Gesù soprattutto come l’Uomo. E’ decisamente un elemento importante che Gesù sia un uomo e che la sua vita e la sua morte siano state per tutti gli uomini. Proprio l’eredità di Abramo nella fede fa sì che l’eredità promessa si estenda a tutta l’umanità. Perciò la semplice asserzione originaria “egli è diventato un uomo” è sempre importante. Infine, in terzo luogo, si deve aggiungere che Gesù, come ebreo personalmente ossequiente alle leggi, ha anche superato l’ebraismo e ha voluto interpretare ex novo tutta l’eredità ebraica in una fedeltà più grande e nuova. Questo è proprio il punto di conflittualità. A riguardo esistono anche buoni spunti di dialogo. Penso soprattutto a un bel libro del rabbino americano Jacob Neusner, che è intervenuto con serietà e correttezza nel dibattito sul discorso della montagna. Qui egli evidenzia con grande franchezza i punti di contrasto, ma li assume con amore e mette infine in rilievo il sì comune al Dio vivente. Non dobbiamo dunque nascondere i contrasti. Sarebbe una via sbagliata, perché una via che lascia da parte la verità non è mai una vera via verso la pace. I contrasti esistono. Dobbiamo imparare a trovare amore e pace proprio nei contrasti.

- L’Olocausto avvenne non nell’epoca della Chiesa, bensì in un momento in cui la Chiesa aveva definitivamente perso la sua autorità sui cuori degli uomini. Oggi come ieri, però, ci si deve chiedere con onestà come sia stata possibile una simile tragedia in un contesto di tradizione cristiana. Ora, non sembra più tanto lontana l’ora in cui in Europa i cattolici saranno meno numerosi di quanto fossero prima della guerra gli ebrei, il cui genocidio essi non hanno saputo impedire.

Come Lei ha giustamente osservato, si tratta di un grande e oscuro capitolo della storia. L’Olocausto non è stato commesso dai cristiani e non è stato commesso in nome di Cristo, ma di esso si sono resi responsabili forze ostili al cristianesimo ed è stato concepito come primo passo della distruzione del cristianesimo. Da bambino, io stesso ho vissuto personalmente quei tempi. Allora si parlava spessissimo del cristianesimo giudaizzato e della giudaizzazione dei germani attraverso il cristianesimo, specialmente in relazione alla Chiesa cattolica. A Monaco, il giorno dopo la notte dei cristalli si arrivò ad assalire il vescovado. Il motto era: “dopo gli ebrei, l’amico degli ebrei”. Nelle fonti, soprattutto nello “Stürmer”, si può leggere che il cristianesimo, soprattutto nella sua forma cattolica, veniva considerato come un tentativo dell’Ebraismo di impadronirsi del potere – l’ebraizzazione della razza germanica, come si diceva – e che, per superare l’Ebraismo, ci si sarebbe dovuti, un giorno, liberare definitivamente anche dell’attuale cristianesimo, per arrivare al cosiddetto cristianesimo positivo di Hitler. E’ importante e non si deve tacere, quindi, la circostanza che l’annientamento degli ebrei da parte di Hitler aveva un significato intenzionalmente anticristiano. Ma ciò non toglie che ne furono responsabili uomini battezzati. Anche se le SS furono un’organizzazione criminale di atei e anche se tra di loro non c’era quasi nessun cristiano credente, essi erano comunque battezzati. L’antisemitismo cristiano aveva in un certo senso preparato il terreno a tutto questo, non lo si può negare. C’era un antisemitismo cristiano in Francia, in Austria, in Prussia, in tutti i paesi, e da questa base si è potuto sviluppare il resto. E questo fatto deve essere occasione di un continuo esame di coscienza.

(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pagg.281-284)





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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