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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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11/08/2013 19:23


In una teologia rigorosamente apofatica non si avanza nessuna pretesa di conoscenza riguardo al divino; la religione non è più definita sul piano positivo e contenutistico e, dunque, neppure su quello istituzionale e sacrale. Essa è integralmente ricompresa nell'esperienza mistica e così resta a priori escluso il conflitto con la ragione scientifica. La New Age è per così dire la proclamazione dell'età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza più alcuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all'uomo la rottura dei limiti dell' essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza.

Se questa è la via giusta, io dovrei dare all'ecumenismo la forma di una comprensione universale, riducendo gli assiomi positivi, quelli cioè che esigono delle verità contenutistiche, e riducendo nello stesso tempo le strutture sacrali a strutture di carattere funzionale. Con ciò non si pretende affatto la totale rinuncia alle forme teistiche fin qui esistite. Sembra piuttosto che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell'essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l'ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. L'imperativo centrale di Israele: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente», che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni. In definitiva sarebbe irrilevante il fatto che uno si sottometta al Dio che parla o si abbandoni alla silenziosa profondità dell'essere. L'adorazione che il Dio di Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell'infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all'infinito.

Così tutto sembra risolto nel modo migliore possibile: le forme sviluppate possono sopravvivere, ma riconoscono la relatività di tutte le strutture esteriori e sono unite nella ricerca della profondità dell'essere, in un'interiorizzazione che lascia dietro di sé anche il proprio io e dona il consolante contatto con l'ineffabile, rafforzati dal quale usciamo poi incontro alla realtà e al mondo di ogni giorno.
Senza dubbio quanto detto può contribuire a un approfondimento delle religioni teistiche, sul cui percorso la corrente mistica e anche la teologia apofatica non sono mai mancate del tutto. Infatti si è sempre insegnato che tutto ciò che si dice e si può dire in definitiva rispecchia solo lontanamente l'ineffabile e che la dissomiglianza con ciò che noi possiamo immaginare e pensare resta sempre più grande di ogni somiglianza. Per questo l'adorazione ha sempre a che fare con l'interiorizzazione e l'interiorizzazione con il superamento di sé.

Così il IV concilio Lateranense ne1 1215: «quia inter creatorem et creaturam non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DS 806).

Tuttavia l'identificazione delle due vie e la loro riduzione ultima alla via mistica non sono accettabili, dal momento che, in tal caso, il mondo sensibile finirebbe per uscire del tutto dalla relazione con il divino. Il concetto di creazione non sarebbe allora più utilizzabile. Il cosmo, che non è più creazione, non ha più nulla a che fare con Dio.

La stessa cosa vale necessariamente per la storia. Dio non entra più nel mondo; quest'ultimo diventa, in senso proprio, a-teo, privo di Dio. La religione non può più produrre alcuna comunione di pensiero e di volontà; diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all'interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi.
I tentativi contemporanei di ricomprensione dell'etica prendono facilmente le mosse da questa concezione e la stessa teologia morale ha cominciato a confrontarsi con questo punto di partenza. In tal modo, però, l'etica resta alla fin fine una nostra costruzione, l'ethos perde il suo carattere vincolante e obbedisce, in maniera più o meno esitante, ai nostri interessi.

Infatti la fede nell'unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l'adorazione di Dio non è semplicemente un'immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l'impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà. La fede in Dio non può rinunciare alla verità, a una verità definibile nei suoi contenuti, malgrado tutta l'importanza dell'elemento apofatico.

Basta poco per vedere che questo è un corto circuito. Ovviamente l'impegno per la pace, la giustizia e il rispetto del creato è della massima importanza, e la religione dovrebbe senza dubbio fornire uno stimolo fondamentale in tale direzione. Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione, custodendola responsabilmente secondo l'intenzione del creatore. Tutto ciò deve essere elaborato razionalmente di volta in volta.
Inoltre occorre tener conto del libero confronto tra opinioni differenti e del rispetto di percorsi diversi. Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiose e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge. La religione non può essere subordinata a una finalità pratico-politica, che poi diventa il suo idolo. L'uomo asserve Dio ai propri fini e in tal modo degrada Dio e se stesso.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.62-66)

A questo proposito andrebbe ricordata la disputa tra Gregorio di Nissa ed Eunomio: Eunomio sosteneva la piena comprensibilità di Dio data con l'atto della rivelazione, mentre Gregorio interpretava la teologia trinitaria e la cristologia come teologia mistica, che invita a un cammino incessante verso Dio, che è sempre infinitamente più grande.

In effetti la teologia trinitaria è apofatica in quanto cancella il concetto elementare di persona, derivante dall' esperienza umana, mentre afferma il Dio che parla, il Dio-Logos, ma che, nel contempo, mantiene il silenzio più grande, da cui viene il Logos e a cui egli ci rinvia.
Qualcosa di simile si può osservare per l'incarnazione. Sì, Dio si fa del tutto concreto, tangibile nella storia. Si avvicina corporalmente all'uomo. Ma proprio questo Dio divenuto tangibile è del tutto misterioso. Il suo abbassarsi, liberamente scelto, la sua chenosi, è, per così dire, in un modo nuovo la nube del mistero, in cui egli si nasconde e allo stesso tempo si mostra. Infatti, quale paradosso potrebbe essere maggiore di questo, di un Dio che è vulnerabile e può essere ucciso? Il concetto di Verbo incarnato e crocefisso supera incommensurabilmente tutte le parole umane; proprio per questo la chenosi di Dio è il luogo in cui possono incontrarsi le religioni, senza pretese di dominio.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.70)

Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all'esperienza che «tutto è relativo», e che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna «mistica»: l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità cosmica, il superamento di ogni divisione. K. H. Menke descrive molto bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: «Il soggetto, che pretendeva sottomettere a sé ogni cosa, si trasfonde ora nel "Tutto"» (12). La ragione oggettivante-così ci avverte il New Age- ci sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato, deve sciogliersi nel «Tutto». Ritornano gli dei. Essi appaiono più credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.

Il concetto di New Age, o era dell’Acquario, è stato coniato verso la metà del nostro secolo (1900, n.d.t.) da Raul Le Cour (1937) e Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California l’istituto Esalen. Oggi l’esponente più famosa del New Age è Marilyn Ferguson.

Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

Se non vi è una verità comune che abbia valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall’esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se non si realizza un incontro con l’unico Dio vivente di tutti gli uomini nei sacramenti, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt’al più ci fanno percepire il numinoso che domina in tutte le religioni. E’ più sensato allora cercare ciò che ci appartiene originariamente, piuttosto che lasciarci imporre quanto è estraneo e antiquato. Ma soprattutto, se la “sobria ebbrezza” del mistero cristiano non ci può rendere ebbri di Dio, bisogna allora evocare l’ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell’infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l’inutilità degli assolutismi politici, tanto più potente diventa l’attrattiva dell’irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.131-133)

Con la distinzione mosaica intendo l’introduzione della distinzione tra vero e falso nell’ambito delle religioni. Fino ad allora la religione era basata sulla distinzione tra puro ed impuro, o tra sacro e profano e non c’era assolutamente posto per l’idea di falsi dèi [...] che non si possono adorare...” (J.Assmann). Gli dèi delle religioni politeiste sarebbero stati in un rapporto di equivalenza funzionale tra loro e sarebbero dunque stati interscambiabili gli uni con gli altri. Le religioni avrebbero avuto la funzione di strumento di traducibilità interculturale. “Le divinità erano internazionali, perché erano cosmiche [...] nessuno metteva in discussione la realtà degli dèi stranieri e la legittimità di forme di venerazione straniere. Il concetto di una “religione non vera” era totalmente estraneo ai politeismi antichi”. Con l’introduzione della fede-in-un-Dio-unico accade dunque qualcosa di nuovo, di sconvolgente: questo nuovo tipo di religione sarebbe per sua natura un’ “antireligione”, che emargina tutto quello che la precede come “paganesimo”, e non il mezzo di una traducibilità interculturale, bensì di uno straniamento interculturale. Solo a questo punto si sarebbe costituito il concetto di “idolatria” come il supremo dei peccati: “Nell’immagine del vitello d’oro, del “peccato originale” dell’iconoclastia monoteistica [...] è espresso il potenziale di odio e di violenza, che si è sempre tradotto in atto nella storia delle religioni monoteistiche”. Il racconto dell’Esodo, con questo suo potenziale di violenza, appare come il mito di fondazione della religione monoteistica e al contempo come il ritratto permanente dei suoi effetti.

La conseguenza è chiara: l’Esodo deve essere annullato; dobbiamo fare ritorno in “Egitto” – vale a dire: la distinzione tra vero e non-vero nell’ambito delle religioni dev’essere abolita, dobbiamo tornare nel mondo degli dèi, i quali esprimono il cosmo in tutta la sua ricchezza e molteplicità, e di conseguenza non conoscono un’esclusione reciproca, anzi, al contrario, rendono possibile una reciproca comprensione. Il desiderio di annullare l’Esodo, d’altra parte, attraversa tutto l’Antico Testamento. Esso affiora continuamente durante la storia delle peregrinazioni nel deserto e si rende drammaticamente presente, ancora una volta, alla fine dell’Antico Testamento, nel primo Libro dei Maccabei, dove si riferisce di “traditori della legge” che propongono un’alleanza “con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali”. Essi decidono di non vivere più secondo la legge di Mosè, ma “secondo le usanze dei pagani” (1Mac 1,11-15). Dal canto suo, Assmann descrive minuziosamente la nostalgia dell’Egitto, del ritorno a prima della distinzione mosaica, a partire dal Rinascimento, con la sua venerazione del corpus Hermeticum come di una teologia originaria, fino ai sogni egizi dell’Illuminismo, con il Flauto Magico di Mozart quale grandiosa realizzazione artistica di questa nostalgia.

Se capisco bene, per lui la formula di Spinoza Deus sive natura è al contempo la formula che sintetizza ciò che intende con questo ritorno, con il suo “Egitto”: la distinzione tra vero e falso può essere espunta dalla religione se cade la distinzione tra Dio e cosmo, se il divino ed il “mondo” vengono di nuovo visti indistintamente come un’unica realtà. La distinzione tra vero e falso è indissolubilmente connessa alla distinzione tra Dio e il mondo. Il ritorno all’Egitto è un ritorno agli dèi, in quanto respinge un Dio che sta di fronte al mondo, e considera gli dèi unicamente come forme di espressione simbolica della natura divina.

Con la distinzione mosaica - così ci insegna Assmann – appare anche, inevitabilmente “la consapevolezza del peccato ed il desiderio di redenzione”; e aggiunge: “Peccato e redenzione non sono temi egizi”. Caratteristico per l’Egitto sarebbe piuttosto l’ “ottimismo morale che “mangia con gioia il suo pane” consapevole del fatto che “Dio ha già gradito le sue opere” – uno dei versetti egiziani della Bibbia (Qo 9,7-10). “Parrebbe – scrive Assmann – che con la distinzione mosaica il peccato sia entrato nel mondo. Forse sta proprio qui la ragione più importante per mettere in discussione la distinzione mosaica”. Con questo, un dato è stato visto in modo certamente esatto: la questione del vero e la questione del bene non possono essere separate. Se non si può più riconoscere il vero, né lo si può più distinguere dal non-vero, anche il bene diventa irriconoscibile; la distinzione tra bene e male perde il suo fondamento.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.224-227)

G.Elisabeth M.Anscombe ha riassunto la concezione del suo maestro (Wittgenstein) al riguardo in due tesi: “1. Non esiste nulla del genere dell’essere-vero di una religione. Si allude a questo quando si dice: “Questo enunciato religioso non assomiglia a un enunciato della scienza”. 2. La fede religiosa può essere paragonata all’innamoramento di un essere umano, piuttosto che alla sua convinzione che qualcosa sia vero oppure falso”. Coerente con questa logica, Wittgenstein ha annotato in uno dei suoi numerosi taccuini che per la religione cristiana non avrebbe alcuna importanza se Cristo abbia effettivamente compiuto in un certo modo una delle opere a lui attribuite o addirittura se egli sia semplicemente esistito. A ciò corrisponde la tesi di Bultmann: credere in un Dio, creatore del cielo e della terra, non significa credere che Dio abbia realmente creato cielo e terra, ma unicamente considerare se stessi come creature e, grazie a ciò, vivere una vita più sensata.

Nelle sue comunicazioni Seifert osserva al riguardo: “Per Wittgenstein l’uomo religioso e quello non religioso vivono, per così dire, in due mondi in cui giocare, e si muovono su piani diversi senza contraddirsi reciprocamente...”. In enunciazioni religiose, secondo Wittgenstein in fondo non si darebbe nulla... “proprio così come in un gioco di scacchi o di dama non si afferma nulla sulle dame o regine all’infuori di questi giochi. La religione perciò dovrebbe essere interpretata non nella modalità di proposizione dotate di senso con pretese di verità, ma in dimensione puramente antropologica e del tutto soggettiva, come un gioco preferito in senso meramente personale”.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.228-229)

Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loro. Non poche intuiscono in qualche modo sullo sfondo l’unico Dio, che è realmente Dio. Nel buddhismo ed in alcune correnti dell’induismo, come anche in forme tarde del platonismo, gli dèi appaiono come potenze di un mondo che nella sua totalità non è che apparenza, o che, in ogni caso, non è la realtà ultima, e che dev’essere superato se si vuole accedere alla salvezza piena. La tesi secondo cui gli dèi politeisti sono tra loro perfettamente interscambiabili, e quindi sono mezzi di comprensione interculturale, può appoggiarsi sulla politica religiosa dell’Impero Romano, ma non corrisponde affatto alla storia del politeismo in generale. Basta leggere Omero per ricordarsi delle guerre tra gli dèi e del fatto che le guerre tra gli uomini sono considerate come il riflesso e la conseguenza delle guerre tra gli dèi.

La questione della verità non è stata inventata da “Mosè”. Essa insorge immancabilmente quando la coscienza raggiunge una certa maturazione.

Nel suo importante libro Chrêsis, Christian Gnilka ha descritto in maniera approfondita l’irrompere della questione della verità nel mondo degli antichi dèi, e l’incontro del cristianesimo con questa situazione. Emblematica di questo procedimento è la figura, descritta da Cicerone, del pontefice massimo romano C.Aurelio Cotta, che, nella sua funzione di augure e capo del Collegium Pontificum, rappresentava la religione pagana di allora. Conformemente alla sua funzione, Cotta era garante dell’osservanza scrupolosa dei riti del culto pubblico e dichiarava che avrebbe difeso le “concezioni” (opiniones) sugli dèi ereditate dagli antenati e che non se ne sarebbe lasciato distinguere. Ma, lo stesso Cotta, a casa tra gli amici, si rivela uno scettico accademico che pone l’interrogativo sulla verità. Egli vorrebbe essere convinto, non sulla base di una semplice supposizione, ma secondo la verità e giunge alla conclusione che c’è da temere che gli dèi non esistano affatto. “Il criterio della verità, introdotto nel mondo antico degli dèi, agisce come una carica esplosiva”, constata Gnilka. Assmann stesso ha mostrato come questa schizofrenia abbia condotto ad una finzione difesa dallo Stato: per i non-iniziati gli dèi continuano a esistere come necessità di Stato, mentre gli iniziati riescono a scorgere la loro inconsistenza.

Ora risulta inevitabile che la dialettica del progresso, messa in pratica, esiga le sue vittime: affinché i progressi addotti dalla Rivoluzione Francese potessero essere realizzati, era necessario mettere in conto le sue vittime – così ci si dice. Ed affinché il marxismo potesse produrre la società riconciliata erano per l’appunto necessarie le ecatombi di vittime umane, non c’era altro modo: qui la dialettica mitologica è stata tradotta in fatti. L’uomo diventa materiale per il gioco del progresso; come singolo egli non conta nulla; poiché è solo materiale per il crudele Dio Deus sive natura. La teoria dell’evoluzione ci insegna la stessa cosa: che i progressi, appunto, hanno un determinato costo. E gli esperimenti odierni sull’uomo, che viene trasformato in una “banca di organi”, ci mostrano l’applicazione del tutto pratica di queste idee – in cui l’uomo stesso prende in mano l’ulteriore evoluzione.

La questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo

e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La “distinzione mosaica” è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e l’Ellade. Ciò che le unisce è appunto l’interrogativo sulla verità e sul bene in quanto tale che pongono alle religioni, ossia, come noi ora potremmo chiamarla, la distinzione mosaico-socratica. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco della quale si preoccuparono i Padri della Chiesa.


C.Gnilka, op.cit., pp. 9-55. Ancora una volta, un ulteriore passo dell’incontro fra cristianesimo e platonismo si produsse quando il cosiddetto Pseudo-Dionigi al declino del V secolo o all’inizio del VI trasformò in senso cristiano l’interpretazione di Proclo, mutò il suo politeismo nella dottrina dei cori degli angeli e con la sua teologia negativa divenne uno dei padri della mistica cristiana.

Ma l’Asia non ci indica forse la via d’uscita? Una religione che si regge senza dover elevare una rivendicazione di verità? Tale questione diventerà senza dubbio uno dei temi principali nei dialoghi futuri. Qui solo un accenno. Anche il buddhismo ha il suo modo specifico di porsi la questione della verità. Esso chiede la liberazione dal dolore, il quale è provocato dalla sete di vita. Dov’è il luogo della salvezza? Il buddhismo giunge al risultato che esso non si trova nel mondo, nella totalità dell’essere che appare. Nella sua totalità l’essere è dolore, è un ciclo di reincarnazioni e di sempre nuovi intrecci di legami. La via dell’illuminazione è la via che porta dalla sete dell’essere a ciò che a noi appare come un non-essere, il Nirvana. Vale a dire: nel mondo stesso non c’è la verità. La verità “accade” nell’uscita da esso. In questo senso la questione della verità si risolve nella questione della liberazione o redenzione, o anche: si toglie e si sublima in essa. Ci sono gli dèi, ma essi fanno parte del mondo della provvisorietà, non della salvezza definitiva. Solo nell’Hinayana questa visione viene rigorosamente mantenuta. Il Mahayana conosce in modo molto più marcato la dimensione sociale, l’aiuto per la liberazione dell’altro e colui che aiuta. Ma l’attesa fondamentale dell’estinguersi dell’esistenza e della persona del singolo, è mantenuta, sebbene essa sia rinviata molto lontano. Qui non si può parlare di Deus sive natura. Il mondo come tale è dolore – e quindi anche assenza di verità – e infine solo il distacco dal mondo può essere la salvezza. Qui si tratta di atteggiamenti esistenziali che racchiudono in sé un’immagine del mondo lontanissima dalle visioni occidentali ed anche da quelle “egizie”, politeiste, e che si pone come alternativa alla comprensione cristiana del mondo con la sua accettazione del mondo in linea di principio in quanto creazione. Anche questa via non ci dispensa però dalla questione della verità.

Ora, è esatto che il Dio unico è un “Dio geloso”, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dèi perché nella sua luce si vede che gli “dèi” non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appaia come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità – come accade nel caso della doppia verità, di cui abbiamo parlato in precedenza - l’uomo diventa schiavo dell’utilità e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. In questo senso è indispensabile anzitutto la “demitizzazione” che spogli gli dèi del loro falso splendore e quindi del loro falso potere, per poi mettere in luce la loro “verità”, ossia per spiegare quali siano i veri poteri e le vere realtà che stanno dietro di loro. Detto altrimenti: una volta avvenuta questa “demitizzazione”, questo smascheramento, anche la loro verità relativa può e deve venire alla luce. Conformemente a questo, vi sono all’interno dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle religioni “pagane” due fasi, che tuttavia devono necessariamente concatenarsi l’una con l’altra e non possono essere nettamente distinte in una successione temporale. La prima fase è l’alleanza del cristianesimo con la ragione, alleanza che predomina negli scritti dei Padri, da Giustino ad Agostino ed oltre: coloro che annunciano il cristianesimo si pongono dalla parte dei filosofi, della ragione, contro le religioni, contro la doppia verità di un C.Aurelio Cotta. Essi vedono i semi del Logos, della ragione divina, non nelle religioni, ma nel movimento della ragione che ha dissolto queste religioni. Ma sempre più chiaramente appare anche un secondo punto di vista, con il quale vengono alla luce anche il legame con le religioni ed i limiti della ragione.

“Non appena sarete arrivati – con la grazia di Dio – presso il nostro reverendissimo fratello, il vescovo Agostino, ditegli che tra me e me ho riflettuto a lungo su una questione degli Inglesi. Non si dovrebbero cioè distruggere i templi degli idoli di quel popolo, ma unicamente annientare i simulacri degli dèi che vi si trovano [...]. Vedendo che non si distruggono i suoi templi, non solo abbandonerà l’errore, ma si recherà con gioia ancora più grande a riconoscere e ad adorare il vero Dio nei luoghi abituali”. Inoltre Gregorio in questa circostanza propone che le cerimonie ed i sacrifici animali vengano trasformati in feste per onorare i santi ed i martiri, nel corso delle quali venga mangiato l’animale macellato per il sacrificio. Qui appare dunque quella che noi chiamiamo la continuità del culto. Il luogo sacro rimane sacro e la precedente intenzione di onorare il divino viene ripresa e trasformata, acquistando un nuovo significato. A Roma lo si può constatare ovunque. Un nome come Santa Maria sopra Minerva lascia riconoscere allo stesso modo trasformazione e continuità. Gli dèi non sono più dèi. Come tali sono caduti: la questione stessa sulla verità ha tolto loro la divinità e provocato la loro caduta. Ma al contempo è venuta alla luce la loro verità: essi erano il riverbero del divino, presentimenti di figure, in cui il loro senso nascosto, purificato, trovava compimento. In questo modo esiste ora anche una “traducibilità” degli dèi, che in quanto presentimenti, in quanto gradini della ricerca del vero Dio e del suo rispecchiarsi nella creazione, possono diventare ambasciatori dell’unico Dio.

Una cosa tuttavia mi sembra importante ai fini del nostro discorso: i temi del vero e del bene effettivamente non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del Bene. Inversamente: se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a quel che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile.

Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Questa affermazione – se ne si coglie tutto quanto esso rivendica – è la più alta garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.230-240)





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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