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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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11/08/2013 18:57

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Nel secolo XIX si era a poco a poco costituito il movimento ecumenico, inizialmente a partire dall'esperienza missionaria delle Chiese protestanti, le quali, incontrando il mondo pagano, avevano trovato un ostacolo fondamentale alla loro testimonianza nella divisione dei cristiani in numerose confessioni e avevano così riconosciuto l'unità della Chiesa come condizione essenziale della missione. In questo senso l'ecumenismo fu all'inizio un fenomeno del protestantesimo, scaturito dall'uscita dal mondo tradizionalmente cristiano.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.58)

1. Le delucidazioni che seguono sottolineano il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (DG) al riguardo di verità fondamentali della giustificazione; risulta pertanto chiaro che le reciproche condanne dei tempi passati non si applicano alla dottrina cattolica e alla dottrina luterana della giustificazione così come tali dottrine sono presentate nella Dichiarazione congiunta.

2. “Insieme confessiamo che soltanto per grazia e nella fede nell'opera salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere” (DG 15).

A) “Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che, nel contempo, egli lo libera dal potere assoggettante del peccato [...]” (DG 22). La giustificazione è perdono dei peccati e azione che rende giusti, attraverso la quale Dio dona all’uomo “la vita nuova in Cristo” (DG 22). “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio” (Rm 5,1). Siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1 Gv 3,1). Noi siamo in verità ed interiormente rinnovati dall’azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi. “Quindi se uno è in Cristo, è una creazione nuova ; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). In questo senso i giustificati non restano peccatori.
Se però diciamo che siamo senza peccato non siamo nel giusto (cfr. 1 Gv 1, 8-10, cfr. DG 28). “Tutti quanti manchiamo in molte cose” (Gc 3,2). “Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,12). E quando preghiamo, possiamo soltanto dire, come l’esattore, “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Ciò è espresso in svariati modi nelle nostre liturgie. Insieme, noi ascoltiamo l’esortazione: “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12). Ciò ci ricorda il perdurante pericolo che proviene dal potere del peccato e dalla sua azione nei cristiani. In questa misura, luterani e cattolici possono insieme comprendere il cristiano come simul justus et peccator, malgrado i modi diversi che essi hanno di affrontare tale argomento, così come risulta in DG 29-30.

B) Il concetto di “concupiscenza” è adoperato con significati diversi da parte cattolica e da parte luterana. Negli scritti confessionali luterani la concupiscenza è compresa nei termini del desiderio egoistico dell’essere umano che, alla luce della Legge spiritualmente intesa, è considerato come peccato. Secondo il modo di comprendere cattolico, la concupiscenza è una inclinazione che permane negli esseri umani perfino dopo il battesimo, la quale proviene dal peccato e spinge verso il peccato. Malgrado le differenze riscontrabili in questo contesto, si può riconoscere, da una prospettiva luterana, che il desiderio può diventare il varco attraverso il quale il peccato assale. Dato il potere del peccato, l’essere umano nella sua interezza ha la tendenza ad opporsi a Dio. Tale tendenza, secondo la concezione cattolica e luterana, “non corrisponde al disegno originario di Dio sull’umanità” (DG 30). Il peccato ha un carattere personale e, come tale, conduce alla separazione da Dio. Esso è desiderio egoistico dell'uomo vecchio e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio.
La realtà di salvezza nel battesimo ed il pericolo che proviene dal potere del peccato possono essere espressi in maniera tale da enfatizzare, da una parte, il perdono dei peccati e il rinnovamento dell'umanità in Cristo per mezzo del battesimo; dall'altra, si può intendere che anche il giustificato “non è svincolato dal dominio che esercita su di lui il peccato e che lo stringe nelle sue spire (cfr. Rm 6, 12-14) né può esimersi dal combattimento di tutta una vita contro l'opposizione a Dio […]” (DG 28).

C) La giustificazione avviene “soltanto per mezzo della grazia” (DG 15 e 16); soltanto per mezzo della fede, la persona è giustificata “indipendentemente dalle opere” (Rm 3,28, cfr. DG 25). “La grazia crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura” (Tommaso d'Aquino, S. Th. II/II 4, 4 ad 3). L'opera della grazia di Dio non esclude l'azione umana: Dio produce tutto, il volere e l'operare, pertanto noi siamo chiamati ad agire (cfr. Fil 2,12 ss). “Immediatamente quando lo Spirito Santo ha iniziato in noi la sua opera di rigenerazione e di rinnovamento, attraverso la Parola e i santi sacramenti, è certo che noi possiamo e dobbiamo collaborare per mezzo della potenza dello Spirito Santo (…)” (Formula di Concordia, FC SD II, 64 s; BSLK 897, 37 s).

D) La grazia quale comunione del giustificato con Dio nella fede, nella speranza e nell'amore, proviene sempre dall'opera salvifica e creatrice di Dio (cfr. DG 27). Nondimeno il giustificato ha la responsabilità di non sprecare questa grazia e di vivere in essa. L'esortazione a compiere le buone opere è l'esortazione a mettere in pratica la fede (cfr. BSLK 197,45). Le buone opere dei giustificati “dovrebbero essere realizzate in modo da confermare la loro chiamata, cioè, affinché essi non disattendano la loro chiamata peccando di nuovo” (Apol. XX, 13, BSLK 316, 18-24; con riferimento a 2 Pt 1,10. Cfr. anche FC SD IV,33; BSLK 948, 9-23). In questo senso, luterani e cattolici possono comprendere insieme ciò che viene affermato circa la “preservazione della grazia” in DG 38 e 39. Certamente “la giustificazione non si fonda né si ottiene in tutto ciò che precede e segue nell'uomo il libero dono della fede” (DG 25).

E) Per mezzo della giustificazione siamo incondizionatamente condotti alla comunione con Dio. Ciò comprende la promessa della vita eterna: «se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione» (Rm 6,5, cfr. Gv 3,36, Rm 8,17). Nel giudizio finale, i giustificati saranno giudicati anche in base alle loro opere (cfr. Mt 16,27; 25,31-46; Rm 2,16; 14,12; 1 Cor 3,8; 2 Cor 5,10, ecc.). Noi stiamo di fronte ad un giudizio nel quale la benevola sentenza di Dio approverà ogni cosa nella nostra vita e nella nostra azione che corrisponde alla sua volontà. Nondimeno, ogni cosa nella nostra vita che è sbagliata sarà messa a nudo e non entrerà nella vita eterna. La Formula di Concordia afferma anche: «È volontà ed espresso comandamento di Dio che i credenti debbano compiere buone opere che lo Spirito Santo opera in loro, e Dio si compiace di esse per amore di Cristo e promette di ricompensarli gloriosamente in questa vita e nella vita futura» (FC SD IV,38). Ogni ricompensa è una ricompensa di grazia, della quale non possiamo in alcun modo vantarci.

3. La dottrina della giustificazione è metro o termine di paragone per la fede cristiana. Nessun insegnamento può contraddire tale criterio. In questo senso, la dottrina della giustificazione è un «criterio irrinunciabile che orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della Chiesa» (DG 18). In quanto tale, essa ha la sua verità e il suo significato specifico nel contesto d’insieme della fondamentale Confessione di fede trinitaria della Chiesa. Noi [luterani e cattolici] tendiamo «insieme alla meta di confessare in ogni cosa Cristo, il solo nel quale riporre ogni fiducia poiché egli è l’unico Mediatore (1 Tim 2,5s) attraverso il quale Dio nello Spirito Santo fa dono di sé ed effonde i suoi doni che tutto rinnovano” (DG 18).

(Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999. Questo testo è in allegato alla Dichiarazione che porta la firma del Pontificio Consiglio dell’Unità dei Cristiani, ma lo leggiamo per la sua rilevanza in merito al nostro tema)

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Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato. E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.

In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.

E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.

Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)

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Essa, la scomunica, si è estinta con la sua morte, perché il giudizio dopo la morte è solo di Dio. Non c’è bisogno di togliere la scomunica di Lutero; da lungo tempo essa non esiste più.
Del tutto diversa è la domanda se le dottrine proposte da Lutero possano dividere ancora oggi la Chiesa ed escludano così la comunione ecclesiale. Di tale domanda si occupa il dialogo ecumenico. La commissione mista istituita in occasione della visita del Papa in Germania intende precisamente studiare il problema delle esclusioni del secolo XVI e della loro oggettiva, futura validità o superamento. Giacché bisogna considerare che esistono anatemi non solo cattolici contro la dottrina di Lutero, ma che esistono riprovazioni molto esplicite del cattolicesimo da parte del riformatore e dei suoi compagni, riprovazioni che culminano nella frase di Lutero che noi siamo divisi per l’eternità. Non c’è proprio bisogno di rifarsi alle parole piene di rabbia pronunciate da Lutero nei riguardi del Concilio di Trento, dove la decisività del suo rifiuto della Chiesa cattolica è fin troppo chiara:”Bisognerebbe arrestare il Papa, i cardinali e tutta la plebaglia che lo idolatra e lo santifica, arrestarli come bestemmiatori, e strappar loro la lingua fin dal fondo della gola ed inchiodarli tutti in fila alla forca... Li si potrebbe così lasciar fare il concilio o quel che vogliono sulla forca, oppure all’inferno tra i diavoli”. Lutero dopo la rottura definitiva ha non solo respinto categoricamente il papato, ma ha reputato idolatrica la dottrina cattolica della Messa, perché vi vedeva una ricaduta nella Legge e quindi il rifiuto del Vangelo. Ricondurre tutte queste contrapposizioni semplicemente a malintesi è a mio vedere una pretesa illuministica, con la quale non si dà veramente la misura delle appassionate lotte di allora, né del peso di realtà presente nei loro discorsi. La vera questione può dunque unicamente consistere nel domandarci fino a che punto è oggi possibile superare le posizioni di allora e raggiungere una conoscenza che vada oltre quei tempi. In altre parole, l’unità postula passi nuovi; non si realizza mediante artifici interpretativi. Se a suo tempo si realizzò con esperienze religiose contrapposte, che non potevano trovare spazio entro lo spazio vitale della dottrina ecclesiastica tramandata, così anche oggi l’unità non si fa soltanto mediante discussioni di vario genere, ma con le forze dell’esperienza religiosa. L’indifferenza è un mezzo di unione solo apparente.

E’ interessante vedere come (E.Herms) evidenzia come particolarmente utile proprio quel passo della lettera che Manns vorrebbe affibbiare a me e spogliare del suo rilievo ecumenico, cioè l’affermazione che la rottura invalsa con la Riforma non è da condurre semplicemente a malintesi tra le due parti, ma che va più a fondo nei suoi fattori decisivi.

Quando alle celebrazioni del giubileo della pace di Augusta (1980) il card. Willebrands affermò che nelle divisioni del secolo XVI la radice era rimasta una sola, il card. Volk chiese con umorismo e serietà insieme: la realtà di cui qui si parla è una patata oppure (per esempio) un albero di mele? In altre parole: fuori della radice è solo erba da buttar via, oppure l’albero che ne è cresciuto è pure importante? Fino a che punto giunge la differenza?

Ciò che veniva inteso nella formula, del resto non inventata dal card. Willebrands, non è mai stato messo in discussione da noi, cioè che con l’adesione alla fede trinitaria e cristologica dell’antica Chiesa è rimasto comune il centro contenutistico della fede.

Dunque l’atto di fede a suo (N.d.C. di Lutero) vedere si era cambiato nel suo contrario, perché la fede è per lui la liberazione dalla legge, ma nella sua forma cattolica gli sembrava di nuovo una sottomissione alla legge. Egli credeva così di dover sostenere da parte sua, contro Roma e la tradizione cattolica, la stessa lotta combattuta da Paolo nella lettera ai Galati contro i giudaizzanti. L’identificazione tra le posizioni di combattimento della sua età e quelle di Paolo (e dunque una certa identificazione di se stesso e della sua missione con Paolo) appartiene agli elementi essenziali della sua strada. Oggi è ormai comune dire che non esiste più contrasto quanto alla dottrina della giustificazione. In realtà la forma con cui Lutero poneva allora la questione non è più possibile oggi: la coscienza del peccato e l’angoscia dell’inferno sussistono oggi nella stessa misura dello sconvolgimento davanti alla maestà di Dio e al grido che chiama la grazia, cioè non sussistono più o quasi. Anche la sua concezione della volontà schiava, che aveva allora provocato l’opposizione di Erasmo da Rotterdam, oggi risulta difficilmente concepibile. Viceversa già il decreto tridentino della giustificazione ha accentuato in modo così definitivo la preminenza della grazia che Harnack pensava che se questo testo fosse stato proposto all’inizio della Riforma, quest’ultima avrebbe avuto un altro corso. Ma dal momento che Lutero ha fissato per tutta la sua vita e con tale insistenza la differenza centrale nella dottrina della giustificazione, mi sembra giusto allora come oggi la congettura che è a partire di qui che si può quanto mai trovare la differenza fondamentale. Tutto questo io non lo posso esporre nello spazio di un’intervista.

L’elemento fondamentale (così mi sembra) è la paura di Dio, dalla quale Lutero è stato colpito fino alla radice del suo essere nella tensione tra divina pretesa e coscienza del peccato; a tal punto che Dio gli appare “sub contrario”, cioè come l’opposto di Dio, come diavolo, inteso all’annientamento dell’uomo. La liberazione da quest’angoscia diventa il vero problema risolutivo. Viene trovata nel momento in cui la fede appare come la salvezza rispetto alla pretesa di una giustizia propria, come personale certezza di salvezza. Nel piccolo catechismo di Lutero risulta molto chiaro questo nuovo asse nel concetto di fede:”Io credo che Dio mi ha creato .... Io credo che Gesù Cristo .... è il mio Signore che mi ha salvato .... affinché io sia suo proprio .... e lo serva nell’eterna giustizia, innocenza e beatitudine”.
Dunque la fede ora conferisce soprattutto la certezza della propria salvezza. La certezza personale della salvezza è il centro decisivo della fede. Senza di esso non ci sarebbe salvezza. In tal modo la coordinazione delle cosiddette tre virtù teologiche – fede, speranza, carità – nel cui nodo si può vedere una formula di esistenza cristiana, viene essenzialmente alterata: certezza di fede e certezza di speranza, finora diverse per essenza, ora si identificano. Per il cattolico la certezza di fede si riferisce a ciò che Dio ha fatto e che la Chiesa ci testimonia; la certezza di speranza si riferisce alla salvezza delle singole persone e dunque del proprio io. Per Lutero è invece precisamente quest’ultima cosa il vero punto sorgivo senza il quale tutto il resto non vale. Perciò la carità, che forma secondo il cattolico l’intima forma della fede, viene del tutto separata dal concetto di fede fino alla formulazione polemica del grande commento alla lettera ai Galati: maledicta caritas. Il sola fides, su cui Lutero ha tanto insistito, vuol dire esattamente e propriamente quest’esclusione della carità, o amore, dalla questione della salvezza. La carità appartiene al campo delle “opere” e diventa in tal modo “profana”.

Il cristianesimo altro non è che un costante esercizio su questo punto dottrinale, cioè nel sentire che tu non hai nessun peccato, anche se hai peccato; che i tuoi peccati stanno invece appesi a Cristo” (Lutero, WA25,331,7). Questo “personalismo” e questa “dialettica” hanno cambiato, insieme con l’antropologia e, in misura più o meno grande, anche la restante struttura della dottrina. Giacché questo principio-base significa che la fede nella visuale di Lutero non è più, come per il cattolico, per la sua essenza un concredere assieme a tutta la Chiesa; in ogni caso la Chiesa, secondo Lutero, non può assumere ne’ una garanzia di certezza per la salvezza personale, ne’ può decidere quanto ai contenuti della fede in maniera vincolante e definitiva. Per il cattolico la Chiesa è invece contenuta nel principio più interno dello stesso atto di fede. Solo nel credere insieme con la Chiesa io ho parte a quella certezza su cui può reggersi la mia vita. Ne segue che per la visione cattolica Scrittura e Chiesa sono indivisibili, mentre in Lutero la Scrittura diventa una misura indipendente sulla stessa Chiesa e tradizione.

L’unità della Scrittura, letta finora come unità di gradini storico-salvifici, come l’unità di analogia, viene ora dissolta per mezzo della dialettica Legge e Vangelo. Questa dialettica assume tutta la sua forza per il motivo che, dei due concetti complementari dell’evangelium – quello dei “vangeli” e quello delle lettere di Paolo – viene accettato solo quest’ultimo che viene poi radicalizzato nel senso della sola fides sopradescritta.

Secondo la mia opinione il termine “base” non è applicabile, nel modo indicato alla Chiesa. Il discorso della “base” ha per sua premessa una concezione filosofica e sociale, secondo cui nella struttura della società si contrappongono un “sopra” e un “sotto”, dove il “sopra” definisce il potere stabilito e predatorio, mentre il “sotto”, la base, intende le forze realmente portanti. Solo l’imporsi di queste forze è in grado di realizzare un progresso. Quando si parla di ecumene di base, vibra in chi parla l’emozione di queste ideologie.

Il Concilio Vaticano II sullo sviluppo della fede della Chiesa dice: “La comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse cresce con la riflessione dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali e con la predicazione di coloro i quali nella successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”. Vengono dunque presentati due fattori principali del progresso nella Chiesa: riflessione e studio delle parole sacre; intelligenza in base all’esperienza spirituale; predicazione dottrinale dei vescovi. In tal senso non esiste nella tradizione cristiana una monopolizzazione del ministero episcopale, in cose della dottrina e della fede, come invece spesso si afferma. Se si parla di “intelligenza in base all’esperienza spirituale”, viene assunto tutto il contributo della vita cristiana e in tal modo anche riconosciuto il contributo particolare della “base”, cioè delle comunità di credenti come “luogo teologico”. D’altra parte è chiaro che i tre fattori si appartengono: un’esperienza senza riflessione è cieca; uno studio senza esperienza è vuoto; una predicazione episcopale senza un fondo di base delle due cose appena dette è inefficace. Tutt’e tre insieme formano la vita della Chiesa, dove col mutare dei tempi può prendere maggior rilievo ora il primo, ora l’altro elemento, ma nessuno dei tre può mancare del tutto.

Anche e proprio il Vaticano II dice precisamente che l’unica Chiesa di Cristo “è realizzata” (subsistit) “nella Chiesa cattolica, che viene guidata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”. Questo “è realizzata” sostituisce come è noto il precedente “è” (la sola Chiesa “è” quella cattolica), perché anche fuori della Chiesa cattolica ci sono molti veri cristiani e c’è molto di veramente cristiano. Ma quest’ultimo riconoscimento, che forma la base dell’ecumenismo cattolico, non significa che d’ora in poi il cattolico debba concepire la “vera Chiesa” ancora come un’utopia, che verrà alla fine dei tempi. La vera Chiesa è realtà, realtà esistente, anche adesso, senza che si debba negare ad altri di essere cristiani o contestare alle loro comunità un carattere ecclesiale.

Gli scopi intermedi saranno diversi secondo i progressi fatti dai singoli dialoghi. La testimonianza della carità (opere caritative e sociali) dovrebbe essere compiuta per principio sempre insieme, o per lo meno dovremmo accordarci al riguardo a vicenda, quando organizzazioni distinte appaiono più efficaci per motivi tecnici. Allo stesso modo bisognerebbe sforzarsi di rendere insieme testimonianza quanto alle grandi questioni morali. E infine si dovrebbe realizzare una fondamentale testimonianza comune della fede davanti a un mondo sconvolto da dubbi e paure, e quanto più ampiamente tanto meglio. Ma se ciò può accadere solo in misura minima, bisognerebbe egualmente dire insieme quanto è possibile dire. Tutto ciò dovrebbe anche far sì che la comune esistenza cristiana venga internamente sempre più riconosciuta e amata nonostante le divisioni; che la divisione non sia più una ragione di opposizione, bensì una sfida in direzione di una comprensione e accettazione vicendevole dell’altro, il che significa di più che semplicemente tolleranza: significa un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. Forse in questo atteggiamento, che non perde di vista l’ultima meta, ma ogni volta mira alla meta prossima, si potrà realizzare una maturazione più profonda, in ordine all’intera unità, che non con una accelerazione unionistica che rimane superficiale e che agisce in modo fittizio.
(da Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.99-118)





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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