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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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11/08/2013 18:28




Le persone perseverano nella chiesa non perché vi trovano feste comunitarie e gruppi di azione, bensì perché sperano di trovarvi risposte a domande vitali indispensabili. Tali risposte non sono state escogitate dai parroci o da altre autorità, ma vengono da un’autorità più grande e sono fedelmente mediate e amministrate, semmai, dai parroci. Gli uomini soffrono anche oggi, forse ancora più di prima; non basta ad essi la risposta che viene dalla testa del parroco o da qualche “gruppo attivistico”. La religione penetra oggi come sempre in profondità nella vita degli uomini per attingervi un punto di assoluto e, a tanto, serve solo una risposta che viene dall’assoluto. Là dove i parroci o i vescovi non appaiono più come i mediatori di quanto è assoluto anche per essi, ma hanno solamente da offrire le proprie azioni, è allora che diventano una “chiesa ministeriale” e, come tali, superflui.

Una unità operata dagli uomini non potrà essere logicamente che un affare iuris humani. Non attingerebbe per principio l’unità teologica intesa da Gv 17 e non potrà essere di conseguenza neppure una testimonianza del pensiero di Gesù Cristo, ma parlerà unicamente a favore dell’abilità diplomatica e della capacità compromissoria dei responsabili della trattativa. E’ già qualcosa, ma non tocca il piano veramente religioso, di cui si tratta appunto in fatto di ecumenismo. Anche le dichiarazioni teologiche di consenso rimangono di necessità sul piano dell’intelligenza umana (scientifica), la quale è in grado di approntare certe condizioni essenziali per l’atto di fede, ma non concerne l’atto di fede in quanto tale. Nella prospettiva dell’avvenire mi sembra quindi importante riconoscere i limiti dell’”ecumene contrattuale” e non aspettarsi da essa più di ciò che può dare: avvicinamento su importanti aspetti umani, ma non l’unità stessa.

Ma, stando così le cose, che cosa dobbiamo fare? In vista di una risposta mi è assai di aiuto la formula che Oscar Cullmann ha coniato per tutta la discussione: unità attraverso pluralità, attraverso diversità. Certamente la spaccatura è dal male, specie quando porta all’inimicizia e all’impoverimento della testimonianza cristiana. Ma se a questa spaccatura viene a poco a poco sottratto il veleno dell’ostilità, e se, nell’accoglimento reciproco della diversità, non c’è più riduzionismo, bensì ricchezza nuova di ascolto e di comprensione, allora la spaccatura può diventare nel trapasso una felix culpa, anche prima che sia del tutto guarita. Caro signor collega Seckler, verso la fine degli anni da me trascorsi Tubinga, Lei mi diede da leggere un lavoro compiuto sotto la sua guida, lavoro che esponeva l’interpretazione agostiniana della misteriosa sentenza di Paolo: “E’ necessario che avvengano divisioni tra voi” (1Cor 11,19). Il problema esegetico nell’interpretazione di 1Cor 11,19 non è in discussione qui; a me sembra che i padri non avevano gran torto a trovare in questa annotazione localizzata un’affermazione aperta sull’universale, ed anche H. Schlier pensa che si tratti per Paolo di un principio escatologico-dogmatico (ThWNT, I, 182).
Se è legittimo pensare in questa direzione, assume un peso speciale l’affermazione esegetica secondo cui il dei (N.d.C. “dei”: espressione greca che traduciamo in italiano con “è necessario”) biblico rinvia sempre in qualche modo a un agire di Dio, cioè a una necessità escatologica (così per es. Grundmann, ThWNT, II, 22-25).

Ma allora ciò significa che, se le divisioni sono anzitutto opera umana e colpa umana, esiste tuttavia in esse anche una dimensione che corrisponde a disposizioni divine. Perciò noi le possiamo trasformare solo fino a un certo punto con la penitenza e la conversione; ma quando le cose sono arrivate al punto che noi non abbiamo più bisogno di questa rottura e che il dei viene a cadere, questo lo decide tutto da sé il Dio che giudica e perdona.

Sulla strada mostrata da Cullmann noi dovremmo per prima cosa cercare di trovare l’unità attraverso diversità, cioè a dire: assumere nella divisione ciò che è fecondo, disintossicare la divisione stessa e ricevere proprio dalla diversità quanto è positivo; naturalmente nella speranza che alla fine la rottura smetta radicalmente di essere rottura e sia invece solo una “polarità” senza contraddizione. Ma quando ci si protende troppo direttamente verso quest’ultimo stadio con la fretta superficiale di voler fare tutto da sé, si approfondisce la separazione invece di sanarla.
Mi permetta di dire il mio pensiero con un esempio molto pratico. Non è stato forse in tanti modi un bene per la Chiesa cattolica in Germania e altrove il fatto che sia esistito accanto alla Chiesa il protestantesimo con la sua liberalità e la sua devozione religiosa, con le sue lacerazioni e la sua elevata pretesa spirituale? Certo, ai tempi delle lotte per la fede, la spaccatura è stata quasi soltanto contrapposizione; ma poi sono cresciuti sempre di più elementi positivi per la fede in entrambe le parti, un positivo che ci permette di comprendere qualcosa del misterioso “è necessario” di San Paolo. Giacché, viceversa, ci si potrebbe immaginare un mondo interamente protestante? O non è forse vero che il protestantesimo in tutte le sue affermazioni, e proprio come protesta, è del tutto riferito al cattolicesimo, al punto che senza di questo sarebbe quasi impensabile?


A tanto vale davvero e in tutta serietà il detto di Melantone “ubi et quandum visum est Deo”. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che l’unità non la facciamo noi (come non facciamo noi la giustizia con le nostre opere) e che inoltre non possiamo tuttavia rimanere con le mani in mano. Ciò che qui importa è di accogliere sempre daccapo l’altro in quanto altro nel rispetto della sua alterità. Possiamo essere uniti anche come divisi.
Questa specie di unità, per la cui crescita continua possiamo e dobbiamo impegnarci, senza collocarla sotto la pressione troppo umana del successo e della “meta finale”, conosce molte e varie strade ed esige molti e vari impegni.

Anzitutto è importante trovare, conoscere e riconoscere le unità che già ci sono e che non sono piccola cosa. Il fatto che leggiamo insieme la Bibbia come parola di Dio; che ci è comune la professione di fede, formatasi negli antichi concilii in base alla lettura della Bibbia, in Dio uno e trino, in Gesù Cristo vero Dio e uomo, del battesimo e della remissione dei peccati, e che ci è quindi comune l’immagine fondamentale di Dio e dell’uomo: tutto ciò deve essere sempre nuovamente attualizzato, pubblicamente testimoniato ed approfondito nella pratica. Ma comune a noi è pure la forma della preghiera cristiana ed unico tra noi pure l’essenziale comandamento etico del decalogo, interpretato nella luce del Nuovo Testamento. All’unità di fondo della confessione di fede dovrebbe corrispondere una unità di fondo operativa. Si tratta dunque di rendere effettiva l’unità che già sussiste, di concretizzarla e di ampliarla.


All’”unità attraverso la diversità” potrebbero e dovrebbero aggiungersi certamente azioni di carattere simbolico, per tenerla costantemente presente nella coscienza delle comunità. Il suggerimento di O.Cullmann quanto alle collette ecumeniche meriterebbe di essere richiamato alla memoria. L’uso del pane dell’eulogia presente nella Chiesa d’oriente potrebbe essere utile anche per l’occidente. Dove la comunità eucaristica non è possibile, questo pane è un modo reale e corporeo di essere accanto nell’alterità e di “comunicare”; di portare la spina dell’alterità e al tempo stesso cambiare la divisione in una preghiera reciproca.

Immaginiamo che i concetti appena accennati non piaceranno a molti. Credo che una considerazione dovrebbe in ogni caso essere evitata: che tutte queste non siano che delle idee stagnanti e rassegnate, o addirittura un rifiuto dell’ecumenismo. E’ molto semplice il tentativo di lasciare a Dio quello che è affare unicamente suo, e di esplorare poi, in tutta serietà, che cosa è nostro compito. A questa sfera dei nostri compiti appartiene agire e soffrire, attività e pazienza. Se si cancella una delle due cose, si guasta l’insieme. Se noi ci impegniamo su ciò che spetta a noi, allora l’ecumenismo sarà anche in futuro, e più ancora di prima, un compito altamente vivace e ardimentoso.
(da Progressi dell’ecumenismo. Una lettera alla “Theologische Quartalschrift di Tubinga, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.131-137)

******************

Mi sia concessa soltanto una piccola annotazione: si dice che ora, dopo il chiarimento relativo alla dottrina della giustificazione, l'elaborazione delle questioni ecclesiologiche e delle questioni relative al ministero sia l'ostacolo principale che rimane da superare. Ciò in definitiva è vero, ma devo anche dire che non amo questa terminologia e da un certo punto di vista questa delimitazione del problema, poiché sembra che ora dovremmo dibattere delle istituzioni invece che della Parola di Dio, come se dovessimo porre al centro le nostre istituzioni e fare per esse una guerra. Penso che in questo modo il problema ecclesiologico così come quello del "ministerium" non vengano affrontati correttamente.

La questione vera è la presenza della Parola nel mondo. La Chiesa primitiva nel II secolo ha preso una triplice decisione: innanzitutto di stabilire il canone, sottolineando in tal modo la sovranità della Parola e spiegando che non solo il Vecchio Testamento è "hài graphài" [le Scritture], ma che il Nuovo Testamento costituisce con esso un'unica Scrittura e in tal modo è per noi il nostro vero sovrano.

Ma al contempo la Chiesa ha formulato la successione apostolica, il ministero episcopale, nella consapevolezza che la Parola e il testimone vanno insieme, che cioè la Parola è viva e presente solo grazie al testimone e, per così dire, da esso riceve la sua interpretazione, e che reciprocamente il testimone è tale solo se testimonia la Parola.

E infine, la Chiesa ha aggiunto come terza cosa la "regula fidei" [la regola della fede] quale chiave interpretativa. Credo che questa vicendevole compenetrazione costituisca oggetto di dissenso fra noi, sebbene siamo uniti su cose fondamentali.

Quindi, quando parliamo di ecclesiologia e di ministero, dovremmo parlare preferibilmente di questo intreccio di Parola, testimone e regola di fede, e considerarlo come questione ecclesiologica e quindi insieme come questione della Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, in quanto il Signore affida la sua Parola ai testimoni e ne concede l'interpretazione, che però deve commisurarsi sempre alla "regula fidei" e alla serietà della Parola. Scusatemi se ho espresso qui un'opinione personale, ma mi sembrava giusto farlo.
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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