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Laici? Europa? termine e radici cristiane, Benedetto XVI l'aveva ben spiegato....

Ultimo Aggiornamento: 11/01/2014 10:50
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11/08/2013 11:16

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Vorrei, a tale riguardo, citare un’espressione significativa di Tocqueville: “Il dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso, nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un’espressione di John Adams che va nella stessa direzione: la Costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale e religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo accelerato e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di fondo, lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa, l’implicito riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e che oltrepassano le singole confessioni. L’Europa – contrariamente all’America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione quasi viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani.

La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato.
Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali – a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello Stato, ma fondarsi su un’unione libera degli individui. In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione fra Stato e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di conseguenza, ben altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del conflitto, dalla Rivoluzione francese e dai sistemi e che a essa hanno fatto seguito.
Lo Stato in America non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose; è nella sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e nel loro essere non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla religione la sua propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo Stato e dai suoi ordinamenti, è una separazione concepita positivamente. Questo ha poi comportato un rapporto particolare tra sfera statale e sfera “privata”, del tutto diverso da quello che conosciamo in Europa: la sfera “privata” ha un carattere assolutamente pubblico, ciò che è non statale non è affatto escluso per questo dalla dimensione pubblica della vita sociale. La maggior parte delle istituzioni culturali non è statale – prendiamo le università oppure gli enti per la tutela delle discipline artistiche eccetera; l’intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo tipo di cultura non statale e la rende possibile, mentre da noi, per esempio, le università private costituiscono un fenomeno recente e di fatto marginale.


Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre aggiungere che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione tra sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a partire dall’inizio dell’età moderna – il sistema delle chiese di Stato è riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa dello Stato.

Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, proprio a causa delle peculiarità di ciascuno di essi, la ricezione dell’illuminismo è avvenuta in due modi del tutto differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla sua emancipazione dalla fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al suo patrimonio di fede, così che illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti l’uno all’altro in un conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi cattolici non avevano conosciuto alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi più tardi, nel XVIII secolo. Da lì scaturì la nuova “confessione” dei “laici”. Da allora la separazione tra cattolici e laici è tipica dei paesi latini, mentre l’area linguistica germanica protestante non solo non conosce l’uso della parola “laico”, ma trova il termine stesso del tutto incomprensibile. Essere “laico” indica l’appartenenza – nel senso più vasto della parola – alla corrente spirituale dell’illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l’uno all’altro.


E così sorge la domanda: come può l’Europa arrivare a una religione civile cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo siano di consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società? E’ chiaro che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna commissione e nessuna riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos mondiale. Qualcosa di vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui che vedo l’importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte dell’Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è ormai in declino in alcuni paesi, specialmente nell’Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germani ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono diventate stanche e mancano di fascino.

Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente.

La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si creano da sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente grande.


Come terza tesi, dire che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa grande comunità, ma attingono nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in essa ed è in grado di creare sempre nuova vita.

Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami dell’albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca, d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa dall’altro. E’ per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere relativizzata.

I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’ “anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della fede ecclesiale con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini che cercano appassionatamente la verità che soffrono per la mancanza di verità dell’uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta. Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo.


La questione del perché oggi la fede cristiana stenta a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente riguarda il cristiano credente e anzitutto il pastore della Chiesa. Vedo due cause principali:
  1. La prima causa è stata introdotta da Nietzsche quando disse: “Il cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un modo... sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo... è una cosa del tutto secondaria finché non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono del cristianesimo: il suo modello di vita, come è chiaro, non convince. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà come preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione: la nostra religione è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della vera grandezza.
  1. La seconda ragione dello sgretolarsi del cristianesimo sta – a mio parere – nel fatto che sembra essere superato dalla “scienza” e non essere più in armonia con la razionalità dell’età moderna. Ciò vale soprattutto da due punti di vista. La critica storica ha scompaginato la Bibbia rendendo non credibile la sua origine divina. La scienza e l’immagine moderna del mondo creata dalla scienza sembrano escludere dalla realtà la visione di fondo della fede cristiana, relegandola nell’ambito del mito. Come si può ancora essere cristiani, allora? La Chiesa e la sua teologia hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo.

Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. E’ la materia che crea la ragione, è il puro caso che produce il significato, oppure sono l’intelletto, il logos, la ragione che vengono prima, così che la ragione, la libertà e il bene fanno già parte dei principi che costruiscono la realtà? Una valida religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo sforzo per acquisire un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso, contro le tendenze di “decostruzione” che Lei ha esposto nel Suo contributo, sia una grande sfida comune per cattolici e laici.

Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il relativismo — quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata — tende all’intolleranza, trasformandosi in un nuovo dog­matismo. La political correctness, la cui pressione onnipresente Lei (N.d.R. Marcello Pera) ha evidenziato, vorrebbe erigere il regno di un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo apparentemente la innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto cosi si dovrebbe ancora pensa­re e parlare se si vuole essere all’altezza del pre­sente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene ele­vato a obbligo. Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un nuovo pseudo­illuminismo che minaccia la libertà di pensiero e anche la libertà di religione. Che in Svezia un pre­dicatore che aveva esposto l’insegnamento biblico circa la questione dell’omosessualità senza se e senza ma sia stato condannato a una pena detentiva è soltanto uno dei segni del fatto che il relativismo comincia a prendere piede come una sorta di nuova “confessione”, che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di sottoporle tutte al super-dogma del relativismo

Qui emerge appieno il dilemma dell’esistenza umana. Se si dovessero equiparare razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della “ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa. C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli altri. Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana.

Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto.

C’è, per prima cosa, il problema dell’essere «persona fin dal concepi­mento». L’Istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base alle cono­scenze della genetica moderna, «dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà que­sto vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate». O, in altre parole: «nello zigote derivante dalla fe­condazione si è già costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano».

È qui che si passa dall’empirico al filosofico. L’I­struzione afferma che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per constatare l’esistenza di un’anima spirituale. Il documento formula la connessione tra livello empirico e filo­sofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si può constatare empiricamente che c’è un nuovo individuo: «individuo» è un termine em­pirico in quanto si tratta di un organismo che, pur essendo completamente dipendente da quello del­la madre, tuttavia è un organismo nuovo, con un suo proprio programma genetico. Ne consegue la domanda: «Come può un individuo umano non essere una persona umana?» Da cui risulta la deduzione etica: «L’essere umano è da rispettare - come una persona - fin dal primo istante della sua esistenza».

Il Magistero qui non propone una propria teo­ria filosofica, tanto meno argomenta teologicamente; pone, al punto d’incontro dei livelli empirico e filosofico (antropologico), una domanda che — a mio parere — comporta una chiara conse­guenza etica per la ragione. Da cui risulta, d’altra parte, una deduzione per il legislatore: se le cose stanno così, allora l’autorizzazione all’uccisione dell’embrione significa che «lo Stato viene a nega­re l’uguaglianza di tutti davanti alla legge» (parte III). La questione del diritto alla vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il dibattito. Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci costringereb­be ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la Donum vitae, pur rifiutan­do, sulla base di un’etica che argomenta antropo­logicamente, la fecondazione omologa come anche quella eterologa non esige dal legislatore il divieto della fecondazione omologa extracorpo­rea, ma vorrebbe comunque vedere esclusa la fe­condazione eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si rinuncerebbe al valore, ancora pro­tetto per legge, del matrimonio; sarebbe cioè un «no» a un’istituzione fondamentale delle società basate sulla cultura cristiana. Un tale affronto contro la base della nostra struttura sociale è in fondo un’auto-contraddizione del legislatore; il fatto che ciò non venga più percepito dimostra chiaramente quanto sia avanzato il processo di smantellamento dell’istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia fede, come anche dalla ragione morale, posso in questo riconoscere un segnale d’allarme molto serio per le nostre società.

Partono innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri decisivi per la coscienza in cerca della verità. Ma, d’altra parte, si rendono anche conto che in politica si tratta di ciò che è realizzabile e di avvicinarli il più possibile a ciò che la coscienza e la ragione hanno riconosciuto come il vero bene per l’individuo e per la società. Alla politica appartiene il compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi, il politico cristiano nella sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in contraddizione con la sua coscienza?

Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito, concedere il diritto all’obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.

(dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger in Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004)





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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