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LA CHIESA nell'esperienza sacerdotale e pastorale di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2013 21:19
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22/03/2013 13:48

LA CHIESA DI OGNI LUOGO E DI OGNI TEMPO

                                              



Celebrazione in comunione con il Papa

del cardinale Joseph Ratzinger


(Predica in occasione della domenica per il Papa, 10 luglio 1977, nella Chiesa di San Michele a Monaco di Baviera)

Nella preghiera fondamentale della Chiesa, nell'Eucarestia, il cuore della sua vita non solo si esprime, ma si compie giorno per giorno.
L'Eucarestia ha nel più profondo di sè a che fare solo con Cristo.
Egli prega per noi, pone la sua preghiera sulle nostre labbra, poichè solo lui sa dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.

Ci attira dentro la sua vita, nell'atto dell'amore eterno, in cui egli si affida al Padre, così che noi, insieme con lui, consegniamo a nostra volta noi stessi al Padre e, in questo modo, riceviamo in dono proprio Gesù Cristo. L'Eucarestia è quindi sacrificio: affidarsi a Dio in Gesù Cristo e ricevere così in dono il suo amore.
Cristo è lui che dà ed è, allo stesso tempo, il dono: per mezzo di lui, con lui e in lui noi celebriamo l'Eucarestia.

In essa è continuamente presente e vero ciò che dice l'epistola di oggi: Cristo è il capo della Chiesa, che egli acquista mediante il suo sangue.
Allo stesso tempo, in ogni celebrazione eucaristica, seguendo un'antichissima tradizione, diciamo: noi celebriamo insieme al nostro Papa...

Cristo si dà nell'Eucarestia ed è presente tutto intero, in ogni luogo e, per questo, è dovunque presente, là dove viene celebrata l'Eucarestia, il mistero tutto intero della Chiesa.
Ma Cristo è anche in ogni luogo un'unica persona e, per questo, non lo si può ricevere contro gli altri, senza gli altri.

Proprio perchè nell'Eucarestia c'è il Cristo tutto intero, inseparato ed inseparabile, proprio per questo si rende ragione dell'Eucarestia solo se essa è celebrata con tutta la Chiesa.
Noi abbiamo Cristo solo se lo abbiamo insieme con gli altri.
Poichè l'Eucarestia ha a che fare solo con Cristo, essa è il Sacramento della Chiesa.

E per questa stessa ragione essa può essere accostata solo nell'unità con tutta la Chiesa e con la sua Autorità.
Per questo la preghiera per il Papa fa parte del canone eucaristico, della celebrazione eucaristica.
La comunione con lui è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione con Cristo.
La preghiera cristiana e l'atto di fede implicano l'ingresso nella totalità, il superamento del proprio limite.
La liturgia non è l'iniziativa organizzativa di un club o di un gruppo di amici; la riceviamo nella totalità e dobbiamo celebrarla a partire da questa totalità e in riferimento ad essa.
Solo allora la nostra fede e la nostra preghiera si pongono in maniera adeguata, quando vivono continuamente in questo atto di superamento di sè, di autoespropriazione, che arriva alla Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi: è questa l'essenza della dimensione cattolica.
Si tratta proprio di questo, quando andiamo al di là della nostra piccola realtà, stabilendo un legame con il Papa ed entrando così nella Chiesa di tutti i popoli.

Da Joseph Ratzinger,
"Il Dio vicino. L'eucaristia cuore della vita cristiana", San Paolo Edizioni 2008 (Pag. 127-128)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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22/03/2013 13:51

Prof. Ratzinger (1970): Le chiese sono diventate nostre imprese, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, tante piccole proprietà private che stanno una accanto all’altra, chiese soltanto "nostre, che noi stessi costruiamo, che sono opera e proprietà nostra, e che noi vogliamo trasformare o conservare come tali (da "Perchè siamo ancora nella Chiesa")

 
Grazie al lavoro della nostra "stakanovista" Gemma leggiamo questo secondo brano tratto da "Perchè siamo ancora nella Chiesa".
Si tratta della conferenza che l'allora professor Ratzinger tenne il 4 giugno 1970.
Clicca qui per leggere la prima parte e qui per la terza
.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Una metafora per la natura della Chiesa

Una Chiesa che venga considerata solo dal punto di vista politico, cioè contro tutta la sua storia e la sua natura, non ha alcun senso e la decisione di rimanere in essa, se è una decisione esclusivamente politica, non è leale anche se si presenta come tale.
Ma di fronte alla situazione attuale, come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: se vuole avere senso, la scelta a favore della Chiesa deve essere di carattere spirituale – ma come si può motivare una simile scelta spirituale? Vorrei dare una prima risposta di nuovo con un paragone e con il ricorso a un’affermazione fatta in precedenza per descrivere la situazione attuale.
Avevamo detto che noi, con la nostra analisi approfondita della Chiesa, siamo arrivati talmente vicino a essa che non riusciamo più a percepirla nel suo complesso .
Questo pensiero si può approfondire ricorrendo a un’immagine che i Padri della Chiesa scoprirono nella loro meditazione simbolica sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nella struttura del cosmo materiale il ruolo della luna è una metafora di ciò che la Chiesa rappresenta per la realizzazione della salvezza nel cosmo spirituale- religioso. Viene ripreso qui un antichissimo simbolismo della storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di "teologia delle religioni", ma l’hanno attuata), in cui la luna, come simbolo tanto della fertilità e della fragilità, della morte e della caducità, quanto anche della speranza nella rinascita e nella resurrezione, era l’immagine dell’esistenza umana, "patetica e insieme consolatrice".
Il simbolismo lunare e quello terrestre si fondono spesso: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno, questo mondo che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole .
In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce ed è fertile in forza del seme che riceve. I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa soprattutto per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole, senza il quale essa sarebbe solo oscurità; la luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di qualcun altro. Essa è buio e luce allo stesso tempo. In se stessa è oscurità, ma dona luminosità in virtù di un altro, di cui riflette la luce. Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa, che illumina pur essendo essa stessa buio; non è luminosa in virtù della propria luce, ma riceve quella del vero sole, Gesù Cristo, cosicché – sebbene essa stessa sia solo terra (anche la luna non è che un’altra terra) – è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - la luna narra il mistero di Cristo.
Non si devono forzare i simboli; ciò che hanno di prezioso consiste proprio in una ricchezza di immagini che si sottrae agli schematismi logici. Tuttavia oggi, nell’epoca del viaggio sulla luna, si impone un ampliamento del paragone, con il quale si metta in evidenza, confrontando il pensiero fisico e quello simbolico, lo specifico della nostra situazione anche rispetto alla realtà della Chiesa.
L’astronauta e la sonda lunare scoprono la luna solo come roccia, deserto, sabbia, montagne, ma non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto questo: deserto, sabbia, roccia. Tuttavia, per merito di altri e in funzione di altri ancora, essa è anche luce e rimane tale anche nell’epoca dei viaggi nello spazio. E’ quindi ciò che non è in se stessa.
L’altro, ciò che non è suo, fa comunque parte anche della sua realtà. Esiste una verità della fisica e una verità poetico-simbolica e l’una non annulla l’altra. Allora chiedo: questa non è forse un’immagine molto precisa della Chiesa?
Chi la esplora e la percorre con la sonda spaziale, può scoprire solo deserto, sabbia, roccia, le debolezze dell’uomo, i deserti, la polvere e le altezze della sua storia. Tutto ciò le appartiene, ma non rappresenta la sua effettiva realtà .
L’elemento decisivo è che essa, benché sia solo sabbia e sassi, è di certo anche luce in virtù di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo, la sua effettiva natura, anzi, la sua natura consiste nel fatto che essa non vale per ciò che è, bensì solo per ciò che non è suo. Essa esiste in qualcosa che è al di fuori di essa e ha una luce che, pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è "luna" -mysterium lunae – e così riguarda i credenti, perché proprio così essa è il luogo di una costante scelta spirituale.
Poiché il significato espresso in quest’immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo dal linguaggio metaforico in affermazioni oggettive, vorrei chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
Dopo la traduzione in tedesco della liturgia, secondo l’ultima riforma, mi si presentava continuamente una difficoltà linguistica nel recitare un testo, che appartiene proprio a questo stesso contesto e che è sintomatico per ciò di cui si tratta qui.
Nella traduzione tedesca del Suscipiat si dice: il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio "per il bene nostro e di tutta la Sua santa Chiesa"
.
A me veniva sempre spontaneo dire: "E di tutta la nostra santa Chiesa".
In questa difficoltà linguistica viene alla luce tutta la problematica che stiamo trattando e diventa chiaro il fatto che siamo incorsi in una deviazione di prospettiva.
Al posto della Sua Chiesa è subentrata la nostra e con essa le molte chiese: ognuno ha la propria.
Le chiese sono diventate nostre imprese, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, tante piccole proprietà private che stanno una accanto all’altra, chiese soltanto "nostre, che noi stessi costruiamo, che sono opera e proprietà nostra, e che noi vogliamo trasformare o conservare come tali.
Dietro alla "nostra Chiesa" o anche alla "vostra Chiesa" è scomparsa la "sua Chiesa".
Ma solo quest’ultima interessa e se non esiste più anche la "nostra" Chiesa deve abdicare.
Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe solo un inutile gioco da bambini
.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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22/03/2013 17:09

OMELIA DEL SANTO PADRE del 29.6.2011 per il Sessantesimo di Sacerdozio

Cari fratelli e sorelle,

“Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15).

A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati.

“Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più.

Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati.

Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata.

E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.

“Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale.

Che cosa è veramente l’amicizia?

Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui?

L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso.

L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego.

No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15).

Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico! La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite.

Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli – agli amici – è quello di mettersi in cammino, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo. Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione.

Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti?

Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici.

In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta. Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre.

L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia.

Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.
Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento. Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagnia della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e la preghiera. Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.

Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato.

E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen


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Piccola curiosità.....

NAPOLI - è stata un'antica azienda napoletana a fornire i paramenti ricamati per il Santo Padre ed i cardinali in occasione della celebrazione per i 60 anni di sacerdozio di papa Benedetto XVI.

Nell'opificio della Serpone e Company, fondato nel 1820, si e' lavorato per ricamare e confezionare i 220 paramenti per i concelebranti. Ideatore della casule scelte dal Vaticano, Paolo Serpone, uno dei figli del titolare dell'azienda. ''Sono stati realizzati utilizzando una stoffa rossa con delicati disegni liturgici dorati ed uno stolone dove sono ricamate delle croci e lo stemma del Santo Padre - spiega - La casula del Santo Padre sara' realizzata con la stessa stoffa ma con preziosi ed artistici ricami a mano in oro fino. La novita' e' nel taglio dello stolone a forma trapeziodale''.

Gli abiti sono stati donati da un fedele che preferisce mantenere l'anonimato.

 

seguono le foto....

 

 


US Archbishop of Sant Antonio Gustavo Garcia-Siller (L) receives the Pallium from Pope Benedict XVI  during the solemn mass at St Peter's basilica to celebrate the feast of Saint Peter and Saint Paul on June 29, 2011 at The Vatican.

Pope Benedict XVI gives Pallium to Archbishop Paul Stagg Coakley of the U.S. during a solemn mass to celebrate the feast of Saints Peter and Paul in Saint Peter's Basilica at the Vatican June 29, 2011.
Pope Benedict XVI gives Pallium to Archbishop Gerard Cyprien Lacroix of Canada during a solemn mass to celebrate the feast of Saints Peter and Paul in Saint Peter's Basilica at the Vatican June 29, 2011.
Pope Benedict XVI gives Pallium to Archbishop Gerard Cyprien Lacroix of Canada during a solemn mass to celebrate the feast of Saints Peter and Paul in Saint Peter's Basilica at the Vatican June 29, 2011.
Pope Benedict XVI holds the cross during a solemn mass to celebrate the feast of Saints Peter and Paul in Saint Peter's Basilica at the Vatican June 29, 2011.
Pope Benedict XVI waves as he arrives to celebrate a solemn mass to celebrate the feast of Saints Peter and Paul in Saint Peter's Basilica at the Vatican June 29, 2011.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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23/03/2013 11:39


Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008

PERCHE’ SONO ANCORA NELLA CHIESA

Il 4 giugno 1970 a Monaco quasi mille persone accolsero l’invito Dell’Accademia Cattolica di Baviera a una conferenza serale del Prof.Dr.Joseph Ratzinger, al tempo docente ordinario di Dogmatica all’Università di Ratisbona. Il tema "Perché oggi sono ancora nella Chiesa" poneva evidentemente al centro una questione che toccava molte persone.

Di motivi per non essere più nella Chiesa oggi ce ne sono molti e diversi tra loro. A voltare le spalle alla Chiesa si sentono spinti non più solo coloro ai quali la fede della Chiesa è diventata estranea, ai quali la Chiesa appare troppo arretrata, troppo medioevale, troppo ostile al mondo e alla vita, bensì anche coloro che amarono nella Chiesa la sua figura storica, la sua liturgia, la sua inattualità, il suo riverbero di eternità.

A questi ultimi sembra che la Chiesa stia tradendo la propria vera natura, che si stia svendendo alla moda e stia quindi perdendo la propria anima: sono delusi come un innamorato che deve vivere il tradimento di un grande amore e considerano seriamente il voltarle le spalle
.

D’altra parte però vi sono anche motivi molto contrastanti per rimanere nella Chiesa: in essa restano non solo quelli che conservano in modo instancabile la loro fede nella sua missione, o quelli che non si vogliono staccare da una vecchia e cara abitudine (anche se ne fanno scarso uso).
Oggi rimangono in essa con maggior vigore proprio coloro che rifiutano la sua intera essenza storica e contestano con passione il significato che i suoi ministri cercano di darle o di conservarle. Sebbene essi vogliano rimuovere ciò che la Chiesa fu ed è, sono anche determinati a non lasciarsi mandare fuori da essa, per trasformarla in ciò che secondo loro essa dovrebbe diventare.

Riflessione preliminare sulla situazione della Chiesa

In questo modo, però, si ha una vera condizione babilonese per la Chiesa, nella quale non solo sono intrecciati nella maniera più strana i motivi a favore e contro di essa, ma un’intesa sembra quasi impossibile. Innanzitutto nasce la sfiducia, perché l’essere-nella-Chiesa ha perso il proprio carattere inequivocabile e nessuno osa più avere fiducia nella sincerità dell’altro.
L’affermazione piena di speranza che Romano Guardini fece nel 1921 sembra ormai capovolta: "un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze".
Oggi al contrario la frase sembrerebbe dover suonare: "In realtà si svolge un processo di grande portata – la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità".

In un mondo che tende all’unità, la Chiesa si disgrega in risentimenti nazionalistici, denigrando ciò che è estraneo e glorificando il proprio particolare.

Tra i fautori della mondanità e quelli di una reazione che si aggrappa troppo all’esteriorità e al passato, tra il disprezzo della tradizione e la fiducia positivistica di una fede presa alla lettera, sembra non esserci alcuna via di mezzo – l’opinione pubblica assegna inesorabilmente a ognuno il suo posto.
Essa ha bisogno di etichette chiare e non accetta le sfumature: chi non è per il progresso, è contro di esso; si deve essere o conservatori o progressisti
.

Grazie a Dio, la realtà è indubbiamente molto diversa: in segreto e quasi senza voce ci sono anche oggi, tra questi due estremi, coloro che semplicemente credono di realizzare la vera missione della Chiesa anche in questo momento di confusione: il culto e l’accettazione della vita quotidiana a partite dalla parola di Dio. Ma essi non si adattano all’immagine che se ne vuole avere e così rimangono in larga misura muti: la vera Chiesa non è certamente invisibile, ma profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini.
Si è così ottenuto un primo abbozzo dello sfondo sul quale si pone oggi la domanda: perché rimango ancora nella Chiesa? Per poter dare una risposta sensata, bisogna innanzitutto approfondire ulteriormente l’analisi di questo contesto storico che con la parola <> rientra direttamente nel nostro tema, e dobbiamo intendere le ragioni che hanno portato a questa situazione.

Come si è potuti arrivare a questa singolare situazione babilonese, nel momento in cui ci si aspettava invece una nuova Pentecoste? Come è stato possibile che, proprio nel momento in cui il Concilio sembrava aver raccolto il frutto maturo del risveglio degli ultimi decenni, invece della ricchezza del compimento sia emerso un vuoto inquietante?

Com’è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità sia sorta la disgregazione?

Vorrei innanzitutto tentare di rispondere con un paragone, che può nel contempo svelare il compito che ci spetta e insieme rendere già visibili, tramite alcuni accenni, i motivi che possono ancora rendere possibile un si, anche tra tanti no. Nel nostro sforzo di comprendere la Chiesa, e fare un lavoro concreto su di essa, tramutatosi nel concilio in una vera e propria lotta, sembra che le siamo giunti così vicino da non riuscire più a percepirla nel complesso: sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. La stessa situazione in cui ci ha portato così spesso la scienza rispetto alla realtà sembra essersi ripetuta ora anche rispetto alla Chiesa: noi vediamo il particolare, con una precisione talmente esasperata che diventa impossibile percepire il tutto. E anche qui il guadagno in esattezza significa perdita di verità. Quello che ci mostra il microscopio quando osserviamo in esso un pezzo di albero è indiscutibilmente giusto, ma può nel contempo nascondere la verità, se ci fa dimenticare che la singola cosa non è meramente tale, bensì possiede un’esistenza nel tutto, che non può essere vista al microscopio; pur essendo di certo vera, più vera della singola cosa in se stessa.

Esprimiamo ora i concetti senza metafore. La prospettiva del presente ha trasformato il nostro sguardo sulla Chiesa in modo tale che noi oggi in pratica la vediamo solo sotto l’aspetto della fallibilità, chiedendoci cosa possiamo fare di essa. Il grande sforzo di riforma interno alla Chiesa ha infine fatto dimenticare tutto il resto; essa è per noi oggi solo una struttura, che si può trasformare e che ci porta a chiederci cosa si debba cambiare in essa per renderla più efficiente per i singoli scopi che ognuno le attribuisce.

Nel porsi questa domanda, il concetto di riforma è ampiamente degenerato nella coscienza comune ed è stato privato del suo nucleo centrale. Infatti la riforma, nel suo significato originario, è un processo spirituale molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del cuore del fenomeno cristiano; soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, e questo è valido per tutta la vita del singolo e per tutta la storia della Chiesa. Anche essa continua a vivere convertendosi sempre nuovamente al Signore, tenendosi lontana dall’irrigidimento in se stessa e in quella semplice e cara abitudine che è così facilmente contraria alla verità.
 
Ma se la riforma viene allontanata da questo contesto, dallo sforzo della conversione e se ci si aspetta la salvezza solo dal cambiamento degli altri, da forme e adattamento al tempo sempre nuovi, forse si può raggiungere qualche risultato – ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa. Una simile riforma, in fin dei conti, può portare solo a ciò che è irrilevante, che è di second’ordine nella Chiesa; non c’è da meravigliarsi che alla fine la Chiesa stessa le sembri qualcosa di secondario.

Se si riflette su ciò si comprende meglio anche il paradosso che si è apparentemente delineato negli sforzi di rinnovamento della nostra epoca; lo sforzo per rendere meno pesanti strutture ormai irrigidite, per correggere forme del ministero ecclesiastico che derivano dal medioevo o ancora di più dai tempi dell’assolutismo e per liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice secondo lo spirito del Vangelo. In effetti questi sforzi hanno condotto a una sopravvalutazione dell’elemento istituzionale nella Chiesa, che è quasi senza precedenti nella Chiesa.

Le istituzioni e i ministeri nella Chiesa di certo vengono criticati oggi in modo più radicale di un tempo, ma essi assorbono anche l’attenzione in modo più esclusivo che mai: non pochi credono oggi che la Chiesa consista solo di essi
.

La problematica della Chiesa si esaurisce allora nella battaglia sulle sue istituzioni; non si vuole lasciare inutilizzato un apparato così vasto, ma lo si trova per molti aspetti inadatto ai nuovi scopi che gli vengono assegnati.
Dietro di ciò si profila un secondo punto, il problema effettivo: la crisi della fede, che è il vero nocciolo della questione. La Chiesa si protende, dal punto di vista sociologico, sempre ben oltre la cerchia dei veri e propri credenti ed è profondamente alienata dalla sua vera essenza da questa falsità istituzionalizzata.
L’effetto pubblicitario del concilio e l’apparentemente possibile futuro avvicinamento di fede e non fede – avvicinamento che il sistema dell’informazione sul concilio ha simulato, quasi come se fosse necessitato a farlo – hanno radicalizzato all’estremo questa alienazione.

Il plauso per il concilio giunse in parte anche da coloro che pur non avendo affatto intenzione di diventare credenti nel senso della tradizione cristiana, salutarono però questo "progresso" della Chiesa nella direzione di quanto da loro stessi deciso come conferma del loro cammino.

Nello stesso tempo, però, la fede è entrata in una fase di fermento anche nella Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra difficilmente spiegabile, nella quale scompaiono i contorni delle cose; l’obiezione delle scienze naturali o ancora di più ciò che si considera come concezione cosmologica moderna, fa la sua parte per aggravare questo processo.

I confini tra interpretazione e negazione diventano, proprio sulle questioni principali, sempre più indistinti: cosa significa veramente "risuscitato dai morti?"

Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega? E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione si perde di vista il volto di Dio.
La "morte" di Dio è un processo del tutto reale, che oggi penetra in profondità all’interno Chiesa. Dio muore nella cristianità, così almeno sembra. Poiché laddove la resurrezione diventa l’accadimento di una missione percepita in immagini superate, Dio non opera più.
Ma soprattutto, egli agisce? E’ questa la domanda che ci incalza. Ma chi sarà così reazionario da insistere sull’affermazione realistica "Egli è risorto"?

Così ciò che per l’uno è progresso per l’altro è miscredenza, e diventa normale quello che finora era impensabile, cioè che delle persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa si considerino ancora con buona coscienza i veri cristiani progressisti.

Per loro, però, l’unico criterio in base al quale giudicare la Chiesa è l’efficienza con la quale essa funziona; ma rimane ancora da chiedersi cosa sia efficace e a quale scopo il tutto debba effettivamente essere usato. Per criticare la società, per aiutare lo sviluppo, per fomentare la rivoluzione? O per celebrare le feste locali?

In ogni caso, bisogna ricominciare da capo, poiché la Chiesa originariamente non era stata concepita per tutto ciò e nella sua forma attuale effettivamente non è adatta a queste funzioni. In questo modo aumenta il disagio sia fra i credenti che tra i non credenti.

Il diritto di cittadinanza che la miscredenza ha ottenuto nella Chiesa rende la situazione sempre più insopportabile per gli uni e per gli altri; soprattutto, attraverso questi processi il programma di riforma è finito tragicamente in una singolare ambiguità, che per molti è irrisolvibile.

Naturalmente si può obiettare che tutto ciò non rappresenta di certo l’intera nostra situazione. Ci sono anche tanti elementi positivi, che sono cresciuti negli ultimi anni e che non devono assolutamente passare sotto silenzio: la nuova liturgia più accessibile, l’attenzione ai problemi sociali, la migliore comprensione tra i cristiani di diverse confessioni, la fine di una certa paura che era dovuta a una fede falsificata, troppo legata alla lettera, e molto altro ancora.

Questo è vero e non lo si deve sminuire, ma non contraddistingue l’atmosfera generale (se così si può dire) della Chiesa. Al contrario, anch’esso viene per il momento trascinato in quell’ambiguità che è emersa dall’attenuazione dei confini tra fede e miscredenza.

Soltanto all’inizio il risultato di questa attenuazione sembrò essere una liberazione.

Oggi è chiaro che, nonostante tutti i segni di speranza ancora esistenti, da questo processo non è emersa una Chiesa moderna, bensì una Chiesa diventata quanto mai discutibile e profondamente lacerata.

Dobbiamo ammetterlo una buona volta a chiare lettere: il concilio Vaticano I aveva descritto la Chiesa come "signum levatum in nationes", come il grande vessillo escatologico visibile da lontano, che chiama e unisce gli uomini attorno a sé.
Secondo il concilio del 1870, essa rappresenta quel segno auspicato da Isaia (11,12), visibile da lontano, che ogni uomo può riconoscere e che indica a tutti il cammino in modo inequivocabile: con la sua prodigiosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità in tutto ciò che è buono e la sua incrollabile stabilità, essa rappresenta il vero miracolo del cristianesimo, la sua costante autenticazione che sostituisce tutti gli altri segni e miracoli al cospetto della storia.

Oggi sembra vero tutto il contrario: non un’istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini né dello spirito europeo, né di quello medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di tutte le azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica: a tal punto che chi fa parte di questa storia non può che coprirsi il capo vergognosamente; infine non più stabilità, bensì l’accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo e persino il tentativo di adattarsi al marxismo e se possibile di immedesimarsi ampiamente con esso…Se le cose stanno così, allora la Chiesa sembra essere non il segno che richiama alla fede, quanto piuttosto il principale impedimento ad accettarla.

La vera teologia sembra allora poter consistere solo nel togliere alla Chiesa i suoi predicati teologici, nel considerarla e trattarla in modo meramente politico. Non pare più essere essa stessa una realtà di fede, bensì un’organizzazione dei credenti, molto casuale anche se forse indispensabile, che si dovrebbe trasformare il più velocemente possibile secondo le più moderne conoscenze della sociologia.

La fiducia è bene, il controllo è meglio – questa è ora, dopo tutte le delusioni, la parola d’ordine rispetto al ministero ecclesiastico.
Il principio sacramentale non appare più abbastanza chiaro, solo il controllo democratico sembra attendibile in fondo, persino lo Spirito Santo è forse inafferrabile.
Chi non evita di guardare al passato sa certamente che le vergogne della storia derivarono proprio dal fatto che si seguì questa strada: l’uomo prese il potere e questo portò a considerare le sue capacità come l’unica vera realtà.

Da Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI "Perchè siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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08/04/2013 19:07

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
A MÜNCHEN, ALTÖTTING E REGENSBURG
(9-14 SETTEMBRE 2006)

INCONTRO CON I SACERDOTI E
I DIACONI PERMANENTI DELLA BAVIERA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cattedrale di S. Maria e S. Corbiniano, Freising
Giovedì, 14 settembre 2006


In this June 29, 1951 file photo, Cardinal Michael von Faulhaber, top, blesses Joseph Ratzinger

 

Cari Confratelli nel ministero vescovile e sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle!

È questo per me un momento di gioia e di grande gratitudine – gratitudine per tutto ciò che durante questa visita pastorale in Baviera ho potuto vivere e ricevere. Tanta cordialità, tanta fede, tanta gioia in Dio – una esperienza che mi ha colpito profondamente e mi accompagnerà come fonte di nuovo vigore.

Gratitudine, poi, in particolare per il fatto che ora, alla fine, sono potuto ancora tornare nel Duomo di Freising ed ho potuto vederlo nel suo nuovo, splendido aspetto. Grazie al Cardinale Wetter, grazie agli altri due Vescovi bavaresi, grazie a tutti coloro che hanno collaborato, grazie alla Provvidenza che ha reso possibile il restauro del Duomo che si presenta ora in questa sua nuova bellezza!

Ora, che mi trovo in questa Cattedrale, riemergono nel mio intimo tanti ricordi alla vista degli antichi compagni e dei giovani sacerdoti che trasmettono il messaggio, la fiaccola della fede.

Emergono i ricordi della mia ordinazione, a cui il Cardinale Wetter ha accennato: quando ero qui prostrato per terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la grande schiera dei santi cammina con noi e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci accompagnano. Poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e infine, quando il Cardinale Faulhaber ci gridò: “Iam non dico vos servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi, ma amici”, allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come  iniziazione nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati  a stare con Lui e ad annunciare il suo messaggio.

Poi il ricordo che qui io stesso ho potuto ordinare sacerdoti e diaconi, che sono adesso impegnati nel servizio del Vangelo e per molti anni – ormai sono decenni – hanno trasmesso il messaggio e lo trasmettono tuttora. E poi penso naturalmente alle processioni di san Corbiniano. Allora era ancora consuetudine di aprire il reliquiario. E poiché il Vescovo aveva il suo posto dietro l'urna, potevo guardare direttamente il cranio di san Corbiniano e vedermi così nella processione dei secoli che percorre la via della fede – potevo vedere che, in questa grande "processione dei tempi", possiamo camminare anche noi facendo sì che essa avanzi verso  il futuro, una cosa che diventava chiara quando il corteo passava nel chiostro vicino ai tanti bambini lì raccolti, ai quali potevo tracciare sulla fronte la croce di benedizione.

In questo momento facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso ed entriamo così nella luce.

Dovendo ora introdurmi nell'omelia, vorrei soffermarmi su due punti soltanto. Il primo è relativo al Vangelo appena proclamato – un brano che tutti noi abbiamo già tante volte ascoltato, interpretato e meditato nel nostro cuore. “La messe è molta”, dice il Signore. E quando dice: “…è molta”, non si riferisce soltanto a quel momento e a quelle vie della Palestina su cui pellegrinava durante la sua vita terrena; è parola che vale anche per oggi. Ciò significa: nei cuori degli uomini cresce una messe. Ciò significa, ancora una volta: nel loro intimo c’è l’attesa di Dio; l’attesa di una direttiva che sia luce, che indichi la via. L’attesa di una parola che sia più che una semplice parola. La speranza, l’attesa dell’amore che, al di là dell’attimo presente, eternamente ci sostenga e ci accolga. La messe è molta e attende operai in tutte le generazioni. E in tutte le generazioni, pur se in modo differente, vale sempre anche l'altra parola: gli operai sono pochi.

 “Pregate il padrone della messe che mandi operai!” Ciò significa: la messe c’è, ma Dio vuole servirsi degli uomini, perché essa venga portata nel granaio. Dio ha bisogno di uomini. Ha bisogno di persone che dicano: Sì, io sono disposto a diventare il Tuo operaio per la messe, sono disposto ad aiutare affinché questa messe che sta maturando nei cuori degli uomini possa veramente entrare nei granai dell’eternità e diventare perenne comunione divina di gioia e di amore. “Pregate il padrone della messe!” Questo vuol dire anche: non possiamo semplicemente “produrre” vocazioni, esse devono venire da Dio. Non possiamo, come forse in altre professioni, per mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie adeguate, semplicemente reclutare delle persone. La chiamata, partendo dal cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo. E tuttavia: proprio perché arrivi nei cuori degli uomini è necessaria anche la nostra collaborazione. Chiederlo al padrone della messe significa certamente innanzitutto pregare per questo, scuotere il suo cuore e dire: “Fallo per favore! Risveglia gli uomini! Accendi in loro l’entusiasmo e la gioia per il Vangelo! Fa' loro capire che questo è il tesoro più prezioso di ogni altro tesoro e che colui che l’ha scoperto deve trasmetterlo!”

Noi scuotiamo il cuore di Dio. Ma il pregare Dio non si realizza soltanto mediante parole di preghiera; comporta anche un mutamento della parola in azione, affinché dal nostro cuore orante scocchi poi la scintilla della gioia in Dio, della gioia per il Vangelo, e susciti in altri cuori la disponibilità a dire un loro “sì”. Come persone di preghiera, colme della Sua luce, raggiungiamo gli altri e, coinvolgendoli nella nostra preghiera, li facciamo entrare nel raggio della presenza di Dio, il quale farà poi la sua parte. In questo senso vogliamo sempre di nuovo pregare il Padrone della messe, scuotere il suo cuore, e con Dio toccare nella nostra preghiera anche i cuori degli uomini, perché Egli, secondo la sua volontà, vi faccia maturare il “sì”, la disponibilità; la costanza, attraverso tutte le confusioni del tempo, attraverso il calore della giornata ed anche attraverso il buio della notte, di perseverare fedelmente nel servizio, traendo proprio da esso continuamente la consapevolezza che – anche se faticoso – questo sforzo è bello, è utile, perché conduce all’essenziale, ad ottenere cioè che gli uomini ricevano ciò che attendono: la luce di Dio e l’amore di Dio.

Il secondo punto che vorrei trattare è una questione pratica. Il numero dei sacerdoti è diminuito, anche se in questo momento possiamo costatare che tuttavia ci siamo veramente, che pure oggi ci sono sacerdoti giovani ed anziani e che esistono giovani che si incamminano verso il sacerdozio. Ma i gravami sono diventati più pesanti: gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può risultare scoraggiante. Spesso mi si presenta la domanda, anzi ogni singolo la pone a se stesso e ai Confratelli: ma come possiamo farcela? Non è questa forse una professione che ci consuma, nella quale alla fine non possiamo più provare gioia vedendo che, per quanto possiamo fare, non basta mai? Tutto questo ci sovraffatica!

 Che cosa si può rispondere? Naturalmente non posso dare delle ricette infallibili; vorrei tuttavia comunicare alcune indicazioni fondamentali. La prima la prendo dalla Lettera ai Filippesi (cfr 2, 5-8), dove san Paolo dice a tutti – e naturalmente in modo particolare a quanti lavorano nel campo di Dio – che dobbiamo "avere in noi i sentimenti di Gesù Cristo". I suoi sentimenti erano tali che Egli, di fronte al destino dell’uomo, quasi non sopportò più la sua esistenza nella gloria, ma dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla croce. Questo è il sentimento di Gesù Cristo: sentirsi spinto a portare agli uomini la luce del Padre, ad aiutarli perché con loro ed in loro si formi il Regno di Dio. E il sentimento di Gesù Cristo consiste contemporaneamente nel fatto che Egli resta sempre radicato profondamente nella comunione col Padre, immerso in essa. Lo vediamo, per così dire, dall'esterno nel fatto che gli Evangelisti ci raccontano ripetutamente che Egli si ritira sul monte, da solo, a pregare. Il suo operare nasce dal suo essere immerso nel Padre: proprio per questo suo essere immerso nel Padre, Egli deve uscire e percorrere tutti i villaggi e le città per annunciare il Regno di Dio, cioè la sua presenza, il suo "esserci" in mezzo a noi; perché il Regno diventi presente in noi e, mediante noi, trasformi il mondo; perché la sua volontà sia fatta come in cielo così in terra e il cielo arrivi sulla terra. Questi due aspetti fanno parte dei sentimenti di Gesù Cristo. Da una parte, conoscere Dio dal di dentro, conoscere Cristo dal di dentro, stare insieme con Lui; solo se questo si realizza, scopriamo veramente il "tesoro". Dall’altra parte, dobbiamo anche andare verso gli uomini. Il "tesoro" non possiamo più tenerlo per noi stessi, ma dobbiamo trasmetterlo.

Questa indicazione fondamentale con i suoi due aspetti vorrei tradurre ulteriormente nel concreto: occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. Ci sentiamo spinti ad andare verso i poveri, gli anziani, i deboli, e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro vita; ci sentiamo spinti ad essere "annunciatori", apostoli di Cristo. Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. Quante cose dovrebbero essere fatte – vedo che non ne sono capace. Ciò vale per i parroci – almeno immagino, in quale misura – ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori e dire: “In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te”. Credo, che l’umiltà di accettare questo – “qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare il resto” – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare.

E ancora, “tradotto” a un terzo livello, questo insieme di zelo e di moderazione significa poi anche l’insieme di servizio in tutte le sue dimensioni e di interiorità. Possiamo servire gli altri, possiamo donare solo se personalmente anche riceviamo, se noi stessi non ci svuotiamo. E la Chiesa per questo ci propone degli spazi liberi che, da una parte, sono spazi per un nuovo "espirare" ed "inspirare" e, d’altra parte, diventano centro e fonte del servire. Vi è innanzitutto la celebrazione quotidiana della Santa Messa: non compiamola come una cosa di routine, che in qualche modo, "devo fare", ma celebriamola "dal di dentro"! Immedesimiamoci con le parole, con le azioni, con l’avvenimento che lì è realtà! Se noi celebriamo la Messa pregando, se il nostro dire: “Questo è il mio Corpo” nasce veramente dalla comunione con Gesù Cristo che ci ha imposto le mani e ci ha autorizzato a parlare con il suo stesso Io, se noi realizziamo l'Eucaristia con intima partecipazione nella fede e nella preghiera, allora essa non si riduce ad un dovere esterno, allora l’“ars celebrandi” viene da sé, perché consiste appunto nel celebrare partendo dal Signore e in comunione con Lui, e così nel modo giusto anche per gli uomini. Allora noi stessi ne riceviamo in dono sempre di nuovo un grande arricchimento e al contempo trasmettiamo agli uomini più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore.

L’altro spazio libero che la Chiesa, per così dire, ci impone e così anche ci libera donandocelo, è la Liturgia delle Ore. Cerchiamo di recitarla come vera preghiera, preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo con ciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo.

Il motto di questi giorni era: “Chi crede, non è mai solo”. Questa parola vale e deve valere proprio anche per noi sacerdoti, per ciascuno di noi. E di nuovo vale sotto un duplice aspetto: chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli. Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo, soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse da dubbi e incertezze! Doniamoci a vicenda questa comunione, allora sperimenteremo sempre di nuovo in questo essere con l’altro, con gli altri, tanto di più e in modo più gioioso anche la comunione con Gesù Cristo! Amen.

  

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/06/2013 21:19

Benedetto XVI: Mi domandavo se avevo realmente la capacità di vivere per tutta la vita il celibato. Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la Teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici


TRASCRIZIONE

Santità, mi chiamo Vittorio, sono della Parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà, ho 20 anni e studio Scienze dell'Educazione all'Università di Tor Vergata.
Sempre nel Suo Messaggio Lei ci invita a non avere paura di rispondere con generosità al Signore, specialmente quando propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Ci dice di non avere paura, di fidarci di Lui e che non resteremo delusi. Molti tra noi, anche qui o tra chi ci segue da casa questa sera tramite la televisione, sono convinto che stiano pensando a seguire Gesù per una via di speciale consacrazione, ma non è sempre facile capire se quella sarà la via giusta. Ci vuol dire come ha fatto Lei a capire quale era la sua vocazione? Può darci dei consigli per capire meglio se il Signore ci chiama a seguirlo nella vita consacrata o sacerdotale? La ringrazio.


Benedetto XVI: Quanto a me, sono cresciuto in un mondo molto diverso da quello attuale, ma infine le situazioni si somigliano. Da una parte, vi era ancora la situazione di “cristianità”, in cui era normale andare in chiesa ed accettare la fede come la rivelazione di Dio e cercare di vivere secondo la rivelazione; dall’altra parte, vi era il regime nazista, che affermava a voce alta: “Nella nuova Germania non ci saranno più sacerdoti, non ci sarà più vita consacrata, non abbiamo più bisogno di questa gente; cercatevi un’altra professione”.
Ma proprio sentendo queste voci “forti”, nel confronto con la brutalità di quel sistema dal volto disumano, ho capito che c’era invece molto bisogno di sacerdoti. Questo contrasto, il vedere quella cultura antiumana, mi ha confermato nella convinzione che il Signore, il Vangelo, la fede ci mostravano la strada giusta e noi dovevamo impegnarci perché sopravvivesse questa strada. In questa situazione, la vocazione al sacerdozio è cresciuta quasi naturalmente insieme con me e senza grandi avvenimenti di conversione.

Inoltre due cose mi hanno aiutato in questo cammino: già da ragazzo, aiutato dai miei genitori e dal parroco, ho scoperto la bellezza della Liturgia e l’ho sempre più amata, perché sentivo che in essa ci appare la bellezza divina e ci si apre dinanzi il cielo; il secondo elemento è stata la scoperta della bellezza del conoscere, il conoscere Dio, la Sacra Scrittura, grazie alla quale è possibile introdursi in quella grande avventura del dialogo con Dio che è la Teologia.
E così è stata una gioia entrare in questo lavoro millenario della Teologia, in questa celebrazione della Liturgia, nella quale Dio è con noi e fa festa insieme con noi.
Naturalmente non sono mancate le difficoltà. Mi domandavo se avevo realmente la capacità di vivere per tutta la vita il celibato. Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la Teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici.
La Teologia è bella, ma anche la semplicità della parola e della vita cristiana è necessaria. E così mi domandavo: sarò in grado di vivere tutto questo e di non essere unilaterale, solo un teologo ecc.? Ma il Signore mi ha aiutato e, soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato.

Tornando alla domanda penso sia importante essere attenti ai gesti del Signore nel nostro cammino. Egli ci parla tramite avvenimenti, tramite persone, tramite incontri: occorre essere attenti a tutto questo. Poi, secondo punto, entrare realmente in amicizia con Gesù, in una relazione personale con Lui e non sapere solo da altri o dai libri chi è Gesù, ma vivere una relazione sempre più approfondita di amicizia personale con Gesù, nella quale possiamo cominciare a capire quanto Egli ci chiede.
E poi, l’attenzione a ciò che io sono, alle mie possibilità: da una parte coraggio e dall’altra umiltà e fiducia e apertura, con l’aiuto anche degli amici, dell’autorità della Chiesa ed anche dei sacerdoti, delle famiglie: cosa vuole il Signore da me? Certo, ciò rimane sempre una grande avventura, ma la vita può riuscire solo se abbiamo il coraggio dell’avventura, la fiducia che il Signore non mi lascerà mai solo, che il Signore mi accompagnerà, mi aiuterà.

un grazie a Raffaellablog per il video:
www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=KJukcdDbwOM#!





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Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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