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Liturgia - Storia - cultura ecclesiale - Tradizione e vero progresso

Ultimo Aggiornamento: 03/10/2013 12:05
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21/03/2013 12:35



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UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

 

Liturgia - Storia

 

Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, nel 50º anniversario di fondazione, Sala Clementina, 6 maggio 2011

Vi accolgo con gioia in occasione del IX Congresso Internazionale di Liturgia che celebrate nell'ambito del cinquantesimo anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Liturgico. Saluto cordialmente ciascuno di voi, in particolare il Gran Cancelliere, l'Abate Primate dom Notker Wolf, e lo ringrazio per le cortesi espressioni che ha voluto rivolgermi a nome di tutti voi.

Il Beato Giovanni XXIII, raccogliendo le istanze del movimento liturgico che intendeva dare nuovo slancio e nuovo respiro alla preghiera della Chiesa, poco prima del Concilio Vaticano II e nel corso della sua celebrazione volle che la Facoltà dei Benedettini sull'Aventino costituisse un centro di studi e di ricerca per assicurare una solida base alla riforma liturgica conciliare. Alla vigilia del Concilio, infatti, appariva sempre più viva in campo liturgico l’urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati. D'altra parte, la forte esigenza pastorale che animava il movimento liturgico richiedeva che venisse favorita e suscitata una partecipazione più attiva dei fedeli alle celebrazioni liturgiche attraverso l'uso delle lingue nazionali e che si approfondisse il tema dell'adattamento dei riti nelle varie culture, specie in terra di missione. Inoltre, si rivelava chiara fin dall'inizio la necessità di studiare in modo più approfondito il fondamento teologico della Liturgia, per evitare di cadere nel ritualismo o di favorire il soggettivismo, il protagonismo del celebrante, e affinché la riforma fosse ben giustificata nell'ambito della Rivelazione divina in continuità con la tradizione della Chiesa. Papa Giovanni XXIII, animato dalla sua saggezza e da spirito profetico, per raccogliere e rispondere a tali esigenze creò l'Istituto Liturgico, a cui volle subito attribuire l'appellativo di "Pontificio" per indicarne il peculiare legame con la Sede Apostolica. 

Cari amici, il titolo scelto per il Congresso di quest’Anno Giubilare è alquanto significativo: "Il Pontificio Istituto Liturgico tra memoria e profezia". Per quanto concerne la memoria, dobbiamo constatare i frutti abbondanti suscitati dallo Spirito Santo in mezzo secolo di storia, e per questo rendiamo grazie al Datore di ogni bene, nonostante anche i malintesi e gli errori nella realizzazione concreta della riforma. Come non ricordare i pionieri, presenti all'atto della fondazione della Facoltà: dom Cipriano Vagaggini, dom Adrien Nocent, dom Salvatore Marsili e dom Burkhard Neunheuser, che, accogliendo le istanze del Pontefice fondatore, si impegnarono, specialmente dopo la promulgazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, ad approfondire "l'esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo, mediante la quale con segni visibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale" (n. 7). 

Appartiene alla "memoria" la vita stessa del Pontificio Istituto Liturgico, che ha offerto il suo contributo alla Chiesa impegnata nella recezione del Vaticano II, attraverso un cinquantennio di formazione liturgica accademica. Formazione offerta alla luce della celebrazione dei santi misteri, della liturgia comparata, della Parola di Dio, delle fonti liturgiche, del magistero, della storia delle istanze ecumeniche e di una solida antropologia. Grazie a questo importante lavoro formativo, un elevato numero di laureati e licenziati prestano ora il loro servizio alla Chiesa in varie parti del mondo, aiutando il Popolo santo di Dio a vivere la Liturgia come espressione della Chiesa in preghiera, come presenza di Cristo in mezzo agli uomini e come attualità costitutiva della storia della salvezza. Infatti, il Documento conciliare pone in viva luce il duplice carattere teologico ed ecclesiologico della Liturgia. La celebrazione realizza contemporaneamente un'epifania del Signore e un'epifania della Chiesa, due dimensioni che si coniugano in unità nell'assemblea liturgica, ove il Cristo attualizza il Mistero pasquale di morte e di risurrezione e il popolo dei battezzati attinge più abbondantemente alle fonti della salvezza. Nell'azione liturgica della Chiesa sussiste la presenza attiva di Cristo: ciò che ha compiuto nel suo passaggio in mezzo agli uomini, Egli continua a renderlo operante attraverso la sua personale azione sacramentale, il cui centro è costituito dall'Eucaristia. 

Con il termine "profezia", lo sguardo si apre su nuovi orizzonti. La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa "riforma conciliare" (cfr Sacrosanctum Concilium, 1), il cui scopo, infatti, non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui "esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita". A ricordarcelo è il Beato Giovanni Paolo II nella Vicesimus quintus annus, dove la liturgia è vista come il cuore pulsante di ogni attività ecclesiale. E il Servo di Dio Paolo VI, riferendosi al culto della Chiesa, con un’espressione sintetica affermava: “Dalla lex credendi passiamo alla lex orandi, e questa ci conduce alla lux operandi et vivendi” (Discorso nella cerimonia dell’offerta dei ceri, 2 febbraio 1970). 

Culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (cfr Sacrosanctum Concilium, 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa così la grande educatrice al primato della fede e della grazia. La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell'hodie delle vicende umane l'opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé sempre la sua sorgente e tende verso la foce. 

Cari amici, confido che questa Facoltà di Sacra Liturgia continui con rinnovato slancio il suo servizio alla Chiesa, nella piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero. La Liturgia cristiana è la Liturgia della promessa compiuta in Cristo, ma è anche la Liturgia della speranza, del pellegrinaggio verso la trasformazione del mondo, che avrà luogo quando Dio sarà tutto in tutti (cfr 1Cor 15,28). Per intercessione della Vergine Maria, Madre della Chiesa, in comunione con la Chiesa celeste e con i patroni San Benedetto e Sant'Anselmo, invoco su ciascuno la Benedizione Apostolica. Grazie.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Benedetto XVI, Lettera apostolica Motu Proprio data Summorum Pontificum, sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, 7 luglio 2007

I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, "a lode e gloria del Suo nome" ed "ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa". Da tempo immemorabile, come anche per l'avvenire, è necessario mantenere il principio secondo il quale "ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l'integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede" (1).

Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di San Gregorio Magno, il quale si adoperò perché ai nuovi popoli dell"Europa si trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l'Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell'Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle monache, che operando sotto la regola di San Benedetto, dovunque unitamente all"annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: "Nulla venga preposto all"opera di Dio" (cap. 43). In tal modo la sacra Liturgia celebrata secondo l"uso romano arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte popolazioni. Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue forme, in ogni secolo dell"età cristiana, ha spronato nella vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù di religione e ha fecondato la loro pietà.

Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la sacra Liturgia espletasse in modo più efficace questo compito: tra essi spicca S. Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell'esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l'edizione dei libri liturgici, emendati e "rinnovati secondo la norma dei Padri" e li diede in uso alla Chiesa latina. Tra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppò nella città di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti. “Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l'aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all'inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale" (2). Così agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, San Pio X (3), Benedetto XV, Pio XII e il Beato Giovanni XXIII.

Nei tempi più recenti, il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato "perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignità e armonia" (4).

Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell"anno 1984 con lo speciale indulto "Quattuor abhinc annos", emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell"anno 1962; nell"anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica "Ecclesia Dei", data in forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.

A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull"aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:

Art. 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della "lex orandi" ("legge della preghiera") della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa "lex orandi" e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della "lex orandi" della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella "lex credendi" ("legge della fede") della Chiesa; sono infatti due usi dell"unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l'edizione tipica del Messale Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:38

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Benedetto XVI, Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione della Lettera apostolica Motu Proprio data Summorum Pontificum, sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, 7 luglio 2007

L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito. Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso.  

Al momento dell’introduzione del nuovo Messale, non è sembrato necessario di emanare norme proprie per l’uso possibile del Messale anteriore. Probabilmente si è supposto  che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso,  sul posto. Dopo, però, si è presto dimostrato che non pochi rimanevano fortemente legati a questo uso del Rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare. Ciò avvenne, innanzitutto, nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica.  

Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità. Molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa. 

Papa Giovanni Paolo II si vide, perciò, obbligato a dare, con il Motu Proprio “Ecclesia Dei” del 2 luglio 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 1962, che però non conteneva prescrizioni dettagliate, ma faceva appello, in modo più generale, alla generosità dei Vescovi verso le “giuste aspirazioni” di quei fedeli che richiedevano quest’uso del Rito romano. In quel momento il Papa voleva, così,  aiutare soprattutto la Fraternità San Pio X a ritrovare la piena unità con il Successore di Pietro, cercando di guarire una ferita sentita sempre più dolorosamente. Purtroppo questa riconciliazione finora non è riuscita; tuttavia una serie di comunità hanno utilizzato con gratitudine le possibilità di questo Motu Proprio. Difficile è rimasta, invece, la questione dell’uso del Messale del 1962 al di fuori di questi gruppi, per i quali mancavano precise norme giuridiche, anzitutto perché spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio. Subito dopo il Concilio Vaticano II si poteva supporre che la richiesta dell’uso del Messale del 1962 si limitasse alla generazione più anziana che era cresciuta con esso, ma nel frattempo è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia. Così è sorto un bisogno di un regolamento giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988, non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni. 

(...) Sono giunto, così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente.
Mi viene in mente una frase della Seconda Lettera ai Corinzi, dove Paolo scrive: “La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto... Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!” (2 Cor 6,11-13). Paolo lo dice certo in un altro contesto, ma il suo invito può e deve toccare anche noi, proprio in questo tema. Apriamo generosamente il nostro cuore e lasciamo entrare tutto ciò a cui la fede stessa offre spazio.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:40

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

 

Liturgia – Tradizione - Progresso

 

Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005

(...) L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede ...” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).  

Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o -come diremmo oggi -dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.  

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.  

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità.  

Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola. 

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige... È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).  

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

(... ) Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi -fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti - per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia -dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare




Fraternamente CaterinaLD

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Benedetto XVI, Incontro con il clero della diocesi di Roma, Aula della Benedizione, 2 marzo 2006

Dopo gli interventi di cinque presbiteri, il Santo Padre ha aggiunto:

L'altro punto era incentrato sul fatto che la formazione sacerdotale tra generazioni, anche vicine, sembra essere per molti un po' diversa, e questo complica il comune impegno per la trasmissione della fede. Ho notato questo quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura. Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato nel mio seminario che vivevano in diverse "isole" di spiritualità che comunicavano difficilmente. Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra molto importante.  

Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere - come ho detto prima di Natale alla Curia Romana - l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La "Statio" di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po' di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell'ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della "milizia" di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: "Scegli la vita", e il Vangelo: "Seguire Cristo e prendere la croce su di sé", che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire "scegli la vita". Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste "chiese stazionali" e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po' male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la "stazione" e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il "Sì" del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c'è un'intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.

 

Benedetto XVI, Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione della Lettera apostolica Motu Proprio data Summorum Pontificum, sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, 7 luglio 2007

E’vero che non mancano esagerazioni e qualche volta aspetti sociali indebitamente vincolati all’attitudine di fedeli legati all’antica tradizione liturgica latina. La vostra carità e prudenza pastorale sarà stimolo e guida per un perfezionamento. Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico  potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione “Ecclesia Dei” in contatto con i diversi enti dedicati all’”usus antiquior” studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale.

(...) Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:44

Benedetto XVI, Intervista concessa ai giornalisti durante il volo verso la Francia, 12 settembre 2008

DOMANDA: Che cosa dice a coloro che in Francia temono che il Motu proprio "Summorum pontificum" segni un ritorno indietro rispetto alle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II? In che modo può rassicurarli?

BENEDETTO XVI: È una paura infondata perché questo Motu proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l'amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un'esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia.

Ogni giorno (del Concilio, n.d.r.) i padri conciliari hanno celebrato la messa secondo l'antico rito e, al contempo, hanno concepito uno sviluppo naturale per la liturgia in tutto questo secolo, poiché la liturgia è una realtà viva che si sviluppa e conserva nel suo sviluppo, nella sua identità. Ci sono dunque sicuramente accenti diversi, ma comunque un'identità fondamentale che esclude una contraddizione, un'opposizione tra la liturgia rinnovata e la liturgia precedente. Credo in ogni caso che vi sia una possibilità di arricchimento da ambedue le parti. Da un lato gli amici dell'antica liturgia possono e devono conoscere i nuovi santi, le nuove prefazioni della liturgia, ecc.... dall'altra, la liturgia nuova sottolinea maggiormente la partecipazione comune ma sempre... non è semplicemente un'assemblea di una certa comunità, ma sempre un atto della Chiesa universale, in comunione con tutti i credenti di tutti i tempi, e un atto di adorazione. In tal senso mi sembra che vi sia un mutuo arricchimento, ed è chiaro che la liturgia rinnovata è la liturgia ordinaria del nostro tempo.

 

Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale Francese, Lourdes, 14 settembre 2008

Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale, come anche dell’insegnamento catechetico. Il vostro compito di santificazione del popolo dei fedeli, cari Fratelli, è indispensabile alla crescita della Chiesa. Nel “Motu proprio” Summorum Pontificum sono stato portato a precisare le condizioni di esercizio di tale compito, in ciò che concerne la possibilità di usare tanto il Messale del Beato Giovanni XXIII (1962) quanto quello del Papa Paolo VI (1970). Alcuni frutti di queste nuove disposizioni si sono già manifestati, e io spero che l’indispensabile pacificazione degli spiriti sia, per grazia di Dio, in via di realizzarsi. Misuro le difficoltà che voi incontrate, ma non dubito che potrete giungere, in tempi ragionevoli, a soluzioni soddisfacenti per tutti, così che la tunica senza cuciture del Cristo non si strappi ulteriormente. Nessuno è di troppo nella Chiesa. Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire “a casa sua”, e mai rifiutato.  Dio,  che ama tutti gli uomini e non vuole che alcuno perisca, ci affida questa missione facendo di noi i Pastori delle sue pecore. Non possiamo che rendergli grazie per l’onore e la fiducia che Egli ci riserva. Sforziamoci pertanto di essere sempre servitori dell’unità!

 

Benedetto XVI, Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 153.

“Per quel che riguarda la questione concreta [il MP Summorum Pontificum], la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II è la forma valida in cui la Chiesa celebra la liturgia. Ho voluto rendere più facilmente accessibile la forma antica in modo tale da preservare il profondo ed ininterrotto legame che sussiste nella storia della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sbagliatt, ora invece pe tutto giusto. In una comunità infatti nella quale la preghiera e l’Eucaristia sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errato quello che prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella Chiesa”.



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21/03/2013 12:45

Benedetto XVI, Messagio al Cardinale Angelo Bagnasco in occasione della LXII Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 4 novembre 2010

2. L’autentico credente, in ogni tempo, sperimenta nella liturgia la presenza, il primato e l’opera di Dio. Essa è “veritatis splendor” (Sacramentum caritatis, 35), avvenimento nuziale, pregustazione della città nuova e definitiva e partecipazione ad essa; è legame di creazione e di redenzione, cielo aperto sulla terra degli uomini, passaggio dal mondo a Dio; è Pasqua, nella Croce e nella Risurrezione di Gesù Cristo; è l’anima della vita cristiana, chiamata alla sequela, riconciliazione che muove a carità fraterna.

Cari Fratelli nell’Episcopato, il vostro convenire pone al centro dei lavori assembleari l’esame della traduzione italiana della terza edizione tipica del Messale Romano. La corrispondenza della preghiera della Chiesa (lex orandi) con la regola della fede (lex credendi) plasma il pensiero e i sentimenti della comunità cristiana, dando forma alla Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Ogni parola umana non può prescindere dal tempo, anche quando, come nel caso della liturgia, costituisce una finestra che si apre oltre il tempo. Dare voce a una realtà perennemente valida esige pertanto il sapiente equilibrio di continuità e novità, di tradizione e attualizzazione.

Il Messale stesso si pone all’interno di questo processo. Ogni vero riformatore, infatti, è un obbediente della fede: non si muove in maniera arbitraria, né si arroga alcuna discrezionalità sul rito; non è il padrone, ma il custode del tesoro istituito dal Signore e a noi affidato. La Chiesa intera è presente in ogni liturgia: aderire alla sua forma è condizione di autenticità di ciò che si celebra. (...)

Come Chiesa che vive in Italia, attenta a interpretare ciò che avviene in profondità nel mondo di oggi e, quindi, a cogliere le domande e i desideri dell’uomo, voi rinnovate l’impegno a operare con disponibilità all’ascolto e al dialogo, mettendo a disposizione di tutti la buona notizia dell’amore paterno di Dio. Vi anima la certezza che “Gesù Cristo è la via, che conduce ciascuno alla piena realizzazione di sé secondo il disegno di Dio. È la verità, che rivela l’uomo a se stesso e ne guida il cammino di crescita nella libertà. È la vita, perché in lui ogni uomo trova il senso ultimo del suo esistere e del suo operare: la piena comunione di amore con Dio nell’eternità” (ibid., n. 19).

4. In questo cammino, vi esorto a valorizzare la liturgia quale fonte perenne di educazione alla vita buona del Vangelo. Essa introduce all’incontro con Gesù Cristo, che con parole e opere costantemente edifica la Chiesa, formandola alle profondità dell’ascolto, della fraternità e della missione. I riti parlano in forza della loro intrinseca ragionevolezza e comunicabilità ed educano a una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 11).


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21/03/2013 12:46

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Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, nel 50º anniversario di fondazione, Sala Clementina, 6 maggio 2011

Con il termine "profezia", lo sguardo si apre su nuovi orizzonti. La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa "riforma conciliare" (cfr Sacrosanctum Concilium, 1), il cui scopo, infatti, non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui "esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita". A ricordarcelo è il Beato Giovanni Paolo II nella Vicesimus quintus annus, dove la liturgia è vista come il cuore pulsante di ogni attività ecclesiale. E il Servo di Dio Paolo VI, riferendosi al culto della Chiesa, con un’espressione sintetica affermava: “Dalla lex credendi passiamo alla lex orandi, e questa ci conduce alla lux operandi et vivendi” (Discorso nella cerimonia dell’offerta dei ceri, 2 febbraio 1970).

Culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (cfr Sacrosanctum Concilium, 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa così la grande educatrice al primato della fede e della grazia. La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell'hodie delle vicende umane l'opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé sempre la sua sorgente e tende verso la foce.
 

Benedetto XVI, Lettera al Gran Cancelliere del Pontificio Istituto di Musica Sacra in occasione del 100º anniversario di fondazione dell’Istituto, 13 maggio 2011

Un aspetto fondamentale, a me particolarmente caro, desidero mettere in rilievo a tale proposito: come, cioè, da san Pio X fino ad oggi si riscontri, pur nella naturale evoluzione, la sostanziale continuità del Magistero sulla musica sacra nella Liturgia. In particolare, i Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, alla luce della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, hanno voluto ribadire il fine della musica sacra, cioè "la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli" (n. 112), e i criteri fondamentali della tradizione, che mi limito a richiamare: il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi. A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, "vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio", tenendo sempre ben presente che questi due concetti - che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano - si integrano a vicenda perché "la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso" (Discorso al Pontificio Istituto Liturgico, 6 maggio 2011).




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02/07/2013 21:07


La liturgia tra i riformisti radicali e gli intransigenti



Viene pubblicato in Italia il libro di Alcuin Reid «Lo sviluppo organico della liturgia. I principi della riforma liturgica e il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del Concilio Vaticano II» (Cantagalli, 432 pagine, 22 euro). Il libro ha la prefazione dell'allora cardinale Joseph Ratzinger

Joseph Ratzinger
Città del Vaticano

Pubblichiamo l'interno testo del futuro Benedetto XVI
Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.

Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime se stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come “progetto di riforma” (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari.

Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.

Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi per incrementarla e rinnovarla. Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (Messa e breviario), dalle origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi. Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948.

La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma. Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata. L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CC n. 1125). Come criteri ulteriori troviamo, infine, la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale. Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono.

La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis. È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione.

Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato. Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore. Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo.

Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva – nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i Sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori. Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale e, di conseguenza, come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cosa è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità.

Ma poiché esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola.

Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma. Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico.

Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto. Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

 





Ratzinger



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03/10/2013 12:05


Nel volume "Teologia della liturgia" di Joseph Ratzinger

L'arte cristiana e la nuova esperienza del tempo

Nel pomeriggio di martedì 7 dicembre, al Palazzo Ducale di Genova, verrà presentato l'undicesimo volume dell'Opera omnia di Joseph Ratzinger Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell'esistenza cristiana (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 849, euro 55). All'incontro, introdotto e moderato dal nostro direttore, interverranno il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, Sandra Isetta - della sua relazione anticipiamo alcuni stralci - e Lucetta Scaraffia.

di Sandra Isetta

Il Papa analizza in questo volume uno dei temi più spinosi:  l'autodeterminazione del culto, l'uomo che non può "fare" da sé il culto. La liturgia è "fatta" per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno essa è attraente. "Umiltà e obbedienza non sono virtù servili, che rendono gli uomini repressi, ma contrastano superbia e presunzione che disgregano ogni comunità e portano alla violenza", come il conformismo dell'oggi confina l'uomo nella superficialità. Il giovenco d'oro testimonia questa arbitrarietà del culto:  con l'idolo si vuole non allontanarsi da Dio, ma glorificare quel Dio che ha portato Israele fuori dall'Egitto. Eppure c'è defezione da Dio:  non si crede nella sua immagine invisibile, il culto non è un salire verso di Lui, ma un tirarlo giù, nella dimensione umana. Questo è il gioco vuoto della liturgia, un tradimento di Dio, camuffato sotto un manto di sacralità. Grazie alla linearità di ragionamento e linguaggio, divengono accessibili complicati concetti teologici. Ad esempio, l'opposizione tra culto orientato cosmicamente, tipico delle religioni naturali, che porta a una sorta di religione "di scambio" tra la divinità e gli uomini, e culto rivelato nella storia, nel giudaismo, nel cristianesimo e nell'Islam.
Ratzinger sfuma questa netta contrapposizione tra orientamento cosmico e storico del culto, tramite l'interpretazione del racconto della creazione, che va verso il sabato. Il sabato è il giorno in cui l'uomo e l'intera creazione partecipano del riposo di Dio, della sua libertà, dove schiavo e padrone sono uguali, quando tutti i rapporti di subordinazione sono sospesi e la fatica del lavoro si interrompe.
Il sabato è il segno dell'Alleanza che Dio vuole stringere con l'uomo e il creato è il luogo dell'incontro, dell'adorazione.

Questi fondamenti veterotestamentari sono ripresi nella terza parte del volume, "La celebrazione dell'Eucaristia", ben 300 pagine in 11 sezioni. Essa inizia con il significato della domenica cristiana, che subentra al sabato giudaico. Esegesi e teologia si compenetrano nella spiegazione del terzo giorno, il giorno della teofania. Nell'Antico Testamento nel terzo giorno si stipula l'Alleanza sul Sinai, nel Nuovo Testamento il terzo giorno dopo la morte Gesù risorge. Per i primi cristiani, la domenica è il "giorno del Signore", o il "primo" dei sette della creazione, il giorno della creazione della luce, o l'"ottavo giorno", che spalanca la finestra dell'eternità dopo il sabato.

Il culto cristiano, per le sue radici bibliche, non è dunque imitazione del cosmo ma di Dio stesso che si rivela.

Finalità del culto e finalità del creato sono identiche, perché nella stessa dimensione cosmica appare anche quella storica. La creazione stabilisce un dialogo d'amore, per giungere al ritorno a casa, l'idea cristiana del "Dio tutto in tutti". È impossibile un'ascesa, un ritorno, contando solo sulle proprie forze, occorre il sacrificio, l'essenza del culto, che è altro rispetto all'autonomia totale, al non aver bisogno dell'altro.

Ratzinger apre un'ampia parentesi sul significato dell'arte, che inizia con rimandi storico-archeologici. Il giudaismo contemporaneo a Gesù rappresentava immagini del mistero della salvezza, tratte da episodi messianici dell'Antico Testamento. In seguito, mentre giudaismo e islam hanno risposto con rigore alla lotta iconoclasta, consentendo raffigurazioni solamente astratte e geometriche, il cristianesimo ha perseverato nei racconti (haggadà) figurativi delle gesta compiute da Dio. Ed è vero, come afferma Ratzinger, che nell'arte cristiana delle catacombe è preservata la continuità tra Sinagoga e Chiesa, nel rendere presenti, e quindi celebrare, eventi passati, attraverso la memoria che diventa figura.
Eventi dell'Antico Testamento sono accostati e quindi spiegati alla luce di episodi del Nuovo:  l'arca di Noè e il passaggio del Mar Rosso sono figure del battesimo, come il sacrificio di Isacco e il convito di Abramo con i tre angeli raccontano il sacrificio di Cristo e l'Eucaristia. L'arte cristiana raffigura una "nuova esperienza del tempo", in cui "passato, presente e futuro si toccano", nella "concentrazione cristologica della storia":  è il medesimo concetto del "presente liturgico" che porta sempre in sé la "speranza escatologica".

Le prime immagini sono dunque "allegoriche", come il Buon Pastore che riassume l'intera storia della salvezza:  portare a casa anche l'ultima pecorella smarrita. Più avanti, ne spiega la ricaduta liturgica nell'Agnus Dei, il Pastore fatto Agnello che porta le nostre colpe sulle spalle, come ricorda il battersi il petto.
A partire dal vi secolo, quando apparvero le misteriose immagini acherótipe, cioè non dipinte da alcuna mano - ricordiamo il mandylion - l'Oriente cristiano elabora una vera e propria teologia dell'icona. L'icona di Cristo è sempre icona del Risorto, in cui i tratti del volto non contano, ma veicolano lo sguardo al di là del sensibile, come accadde ai discepoli di Emmaus che dovettero vedere con altri occhi per riconoscere il Maestro, nella stessa luce della trasfigurazione del monte Tabor. La vastità trinitaria e ontologica dell'icona del Figlio consente di vedere l'immagine del Padre.

Ratzinger percorre le tappe più significative dell'arte figurativa cristiana, a partire dallo scopo funzionale pedagogico di quella occidentale rispetto a all'orientale, da Agostino e Gregorio Magno e fino al romanico. Con il gotico l'occidente sostituisce il Pantokràtor, il Signore dell'universo nella pienezza dell'ottavo giorno, con il crocifisso nella sua passione e morte. Ne indica le motivazioni filosofiche nella svolta dal platonismo all'aristotelismo, con conseguenze sull'arte e la liturgia che prepongono la storicità alla bellezza dell'invisibile. Cita Matthias Grünewald e il realismo della sofferenza, ne spiega la funzione consolatoria per i malati di peste, per la pietà popolare. Del Rinascimento sottolinea l'estetica, perché "emancipa" l'uomo, la sua autonomia e bellezza, quasi in "una nostalgia degli dèi, del mito" che cancella il peccato e la sofferenza della croce e può anche spiegare la reazione della Riforma cattolica. Definisce il barocco "un inno fortissimo di gioia, un alleluia divenuto immagine".

Giunge al positivismo, formulato in nome della serietà scientifica che però "ha ristretto l'orizzonte al dimostrabile, togliendo al mondo la sua trasparenza e all'uomo la visione dell'invisibile". Si interroga infine sul "nostro mondo delle immagini" che segna forse "la fine dell'immagine". Sempre dalle prime raffigurazioni delle catacombe trae spunto per spiegare le posizioni della liturgia:  stare insieme e stare seduti. L'orante è sempre una figura femminile "perché lo specifico umano davanti a Dio trova espressione nella figura della donna" che rappresenta non la Chiesa ma "l'anima-sposa che sta in adorazione davanti al volto di Dio".

Le mani sono allargate, gesto di non violenza, come ali con cui si vuole salire o simili alle braccia di Cristo sulla croce, che è anche forma della pianta delle chiese. Lo stare in piedi dell'orante è la "posizione del vincitore, della disponibilità a scattare, a camminare verso il futuro". L'inginocchiarsi esprime il nostro "adesso", il "frattempo", mentre lo stare seduti, introdotto in tempi più recenti, serve al raccoglimento, per facilitare l'ascolto e la comprensione con il corpo rilassato.

Il gesto delle mani giunte è espressione di fiducia e fedeltà. Anche nell'inchinarsi si mescolano gesto del corpo e gesto spirituale, espressione corporea dell'umiltà, "gesto servile per i Greci" e atteggiamento fondamentale cristiano, su cui Agostino costruisce la sua teologia cristologica:  l'hybris, la superbia, contrapposta all'humilitas, poiché Dio stesso si è inchinato nella lavanda dei piedi, "in ginocchio davanti ai nostri piedi, è lì che lo troviamo".
Ratzinger fa seguire una splendida definizione di "corpo" nel linguaggio biblico, che indica l'intera persona in cui corpo e spirito sono inscindibilmente una cosa sola. "Questo è il mio corpo" significa dunque:  questa è l'intera mia persona che vive nel corpo; è insieme confine e comunione. Cita le parole di Albert Camus sulla "situazione tragica degli uomini nei loro rapporti reciproci:  è come quando due persone sono separate l'una dall'altra dalla parete di vetro di una cabina telefonica:  Si vedono, sono molto vicine, ma c'è lì quella parete che le rende irraggiungibili l'una all'altra".

Diverse paginededica al Corpus Domini, dense di concetti teologici ma anche del ricordo personale dello splendore della processione nella sua terra natale, la Baviera.
Portare il Signore stesso, il Creatore, attraverso città e villaggi, su prati e su laghi, spiega che con la liturgia "si tratta di ciò che il cielo e la terra racchiudono, dell'umanità e di tutta la creazione", nel comune ricordo. "Una sorta di reazione alla smemoratezza nel "nostro rapporto col tempo" nell'epoca del computer, delle riunioni e delle agende, usate ormai perfino da scolaretti, divenuti spaventosamente spensierati e smemorati. Il nostro rapporto col tempo è dimenticare. Noi viviamo nell'istante. Vogliamo addirittura dimenticare, perché rinneghiamo la vecchiaia e la morte. L'unico modo di far veramente fronte al tempo è il perdono e la gratitudine, un atteggiamento che riceve il tempo come dono e, nella gratitudine, lo lascia trasformare".

Discute sulla "nobile semplicità" dei riti, quella "semplicità estrema" che corrisponde alla "semplicità del Dio infinito e rinvia ad essa". Essa va però "percepita con occhio e cuore", nella grande semplicità di una piccola chiesa di paese o con grande solennità nella bellezza di una cattedrale. Condizione è che "grandiosità e fastosità non siano autonome, ma servano umilmente a sottolineare la vera festa", il compleanno della vita nel suo assenso a Dio.
Conclude con una riflessione di Friedrich Nietzsche: "La festa comporta orgoglio, spavalderia, sfrenatezza (...) un divino dire di sì a se stessi sulla spinta di un'animalesca pienezza ed integralità" tutti stati ai quali un cristiano non può onestamente assentire; la festa sarebbe paganesimo per eccellenza. È vero il contrario:  soltanto quando c'è una legittimazione divina a rallegrarsi - solo quando Dio stesso garantisce che la mia vita e il mondo sono motivo di gioia - può esserci una vera festa.



(L'Osservatore Romano 6-7 dicembre 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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