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Ars celebrandi – Preghiera - vesti liturgiche - vera partecipazione attiva

Ultimo Aggiornamento: 21/03/2013 15:57
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21/03/2013 12:03

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UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE

 

Ars celebrandi – Preghiera

 

Benedetto XVI, Omelia IV Domenica di Pasqua, Basilica Vaticana, 7 maggio 2006

Guardiamo ora più da vicino le tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore. La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della Croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il grande servizio che Egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso, e non solo in un passato lontano. Nella sacra Eucaristia ogni giorno realizza questo, dona se stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l'Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l'Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L'Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l'esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell'essere. Proprio così, nell'essere utile, nell'essere una persona di cui c'è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.

 

Benedetto XVI, Discorso nell'incontro con il clero, Warszawa-Cattedrale, 25 maggio 2006

Mi incontro oggi con voi, sacerdoti chiamati da Cristo a servirlo nel nuovo millennio. Siete stati scelti tra il popolo, costituiti nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Credete nella potenza del vostro sacerdozio! In virtù del sacramento avete ricevuto tutto ciò che siete. Quando voi pronunciate le parole "io" o "mio" ("Io ti assolvo... Questo è il mio Corpo..."), lo fate non nel nome vostro, ma nel nome di Cristo, "in persona Christi", che vuole servirsi delle vostre labbra e delle vostre mani, del vostro spirito di sacrificio e del vostro talento. Al momento della vostra Ordinazione, mediante il segno liturgico dell'imposizione delle mani, Cristo vi ha preso sotto la sua speciale protezione; voi siete nascosti sotto le sue mani e nel suo Cuore. Immergetevi nel suo amore, e donate a Lui il vostro amore! Quando le vostre mani sono state unte con l'olio, segno dello Spirito Santo, sono state destinate a servire al Signore come le sue mani nel mondo di oggi. Esse non possono più servire all'egoismo, ma devono trasmettere nel mondo la testimonianza del suo amore. 

La grandezza del sacerdozio di Cristo può incutere timore. Si può essere tentati di esclamare con Pietro: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore" (Lc 5, 8), perché facciamo fatica a credere che Cristo abbia chiamato proprio noi. Non avrebbe potuto scegliere qualcun altro, più capace, più santo? Ma Gesù ha fissato con amore proprio ciascuno di noi, e in questo suo sguardo dobbiamo confidare. Non lasciamoci prendere dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. Non bisogna scoraggiarsi per il fatto che la preghiera esige uno sforzo, né per l'impressione che Gesù taccia. Egli tace ma opera. Mi piace ricordare, a questo proposito, l'esperienza vissuta lo scorso anno a Colonia. Fui testimone allora di un profondo, indimenticabile silenzio di un milione di giovani, al momento dell'adorazione del Santissimo Sacramento! Quel silenzio orante ci unì, ci donò tanto sollievo. In un mondo in cui c'è tanto rumore, tanto smarrimento, c'è bisogno dell'adorazione silenziosa di Gesù nascosto nell'Ostia. Siate assidui nella preghiera di adorazione ed insegnatela ai fedeli. In essa troveranno conforto e luce soprattutto le persone provate.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:04

Benedetto XVI, Incontro con i sacerdoti della diocesi di Albano, Castel Gandolfo, 31 agosto 2006

D. Vittorio Petruzzi, Vicario Parrocchiale in Aprilia:

«Santità, per l'anno pastorale che sta per iniziare, la nostra Diocesi è stata chiamata dal Vescovo a prestare particolare attenzione alla liturgia, sia a livello teologico, sia a livello di prassi celebrativa. Le stesse settimane residenziali, cui parteciperemo nel prossimo mese di settembre avranno come centrale tema di riflessione il «progettare e attuare l'annuncio nell'anno liturgico, nei sacramenti e nei sacramentali». Noi, come sacerdoti siamo chiamati a realizzare una liturgia «seria, semplice e bella», per usare una bella formula presente nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia dell'Episcopato italiano. Padre Santo, può aiutarci a comprendere come tutto questo si può tradurre nell'ars celebrandi?» 

BENEDETTO XVI:

Ars celebrandi: anche qui direi che ci sono dimensioni diverse. La prima dimensione è che la celebratio è preghiera e colloquio con Dio: Dio con noi e noi con Dio. Quindi, la prima esigenza per una buona celebrazione è che il sacerdote entri realmente in questo colloquio. Annunciando la Parola, si sente egli stesso in colloquio con Dio. È ascoltatore della Parola e annunciatore della Parola, nel senso che si fa strumento del Signore e cerca di capire questa Parola di Dio che poi è da trasmettere al popolo. È in colloquio con Dio, perché i testi della Santa Messa non sono testi teatrali o qualcosa di simile, ma sono preghiere, grazie alle quali, insieme con l'assemblea, parlo con Dio. Entrare quindi in questo colloquio è importante. San Benedetto, nella sua «Regola», dice ai monaci, parlando della recita dei Salmi: «Mens concordet voci». La vox, le parole precedono la nostra mente. Di solito non è così: prima si deve pensare e poi il pensiero diventa parola. Ma qui, la parola viene prima. La Sacra Liturgia ci dà le parole; noi dobbiamo entrare in queste parole, trovare la concordia con questa realtà che ci precede. 

Oltre a questo, dobbiamo anche imparare a capire la struttura della Liturgia e perché è articolata così. La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio. 

Questa è la prima condizione: noi stessi dobbiamo interiorizzare la struttura, le parole della Liturgia, la Parola di Dio. Così il nostro celebrare diventa realmente un celebrare «con» la Chiesa: il nostro cuore è allargato e noi non facciamo un qualcosa, ma stiamo «con» la Chiesa in colloquio con Dio. Mi sembra che la gente avverta se veramente noi siamo in colloquio con Dio, con loro e, per così dire, attiriamo gli altri in questa nostra preghiera comune, attiriamo gli altri nella comunione con i figli di Dio; o se invece facciamo soltanto qualcosa di esteriore. L'elemento fondamentale della vera ars celebrandi è quindi questa consonanza, questa concordia tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che pensiamo con il cuore. Il «Sursum corda», che è un'antichissima parola della Liturgia, dovrebbe essere già prima del Prefazio, già prima della Liturgia, la «strada» del nostro parlare e pensare. Lo dobbiamo elevare al Signore, il nostro cuore, non solo come una risposta rituale, ma come espressione di quanto succede in questo cuore, che va in alto e attira in alto anche gli altri. 

In altre parole, l'ars celebrandi non intende invitare ad una specie di teatro, di spettacolo, ma ad una interiorità che si fa sentire e diventa accettabile ed evidente per la gente che assiste. Solo se vedono che questa non è una ars esteriore, spettacolare - non siamo attori! - ma è l'espressione del cammino del nostro cuore, che attira anche il loro cuore, allora la Liturgia diventa bella, diventa comunione di tutti i presenti con il Signore. 

Naturalmente, a questa condizione fondamentale, espressa nelle parole di san Benedetto: «Mens concordet voci» - il cuore sia realmente innalzato, elevato al Signore - devono associarsi anche cose esteriori. Dobbiamo imparare a pronunciare bene le parole. Qualche volta, quando ero ancora professore nella mia terra, i ragazzi hanno letto la Sacra Scrittura. E l'hanno letta come si legge un testo di un poeta che non si è capito. Naturalmente, per imparare a pronunciare bene, si deve prima aver capito il testo nella sua drammaticità, nel suo presente. Così anche il Prefazio. E la Preghiera Eucaristica. È difficile per i fedeli seguire un testo così lungo come quello della nostra Preghiera Eucaristica. Perciò nascono sempre queste nuove «invenzioni». Ma con Preghiere Eucaristiche sempre nuove non si risponde al problema. Il problema è che questo sia un momento che invita anche gli altri al silenzio con Dio e a pregare con Dio. Quindi solo se la Preghiera eucaristica è pronunciata bene, anche con i dovuti momenti di silenzio, se è pronunciata con interiorità ma anche con l'arte di parlare, le cose possono andare meglio. 

Ne consegue che la recita della Preghiera eucaristica, richiede un momento di attenzione particolare per essere pronunciata in modo tale che coinvolga gli altri. Penso che dobbiamo anche trovare occasioni, sia nella catechesi, sia nelle omelie, sia in altre occasioni, per spiegare bene al popolo di Dio questa Preghiera Eucaristica, perché possa seguirne i grandi momenti: il racconto e le parole dell'istituzione, la preghiera per i vivi e per i morti, il ringraziamento al Signore, l'epiclesi, per coinvolgere realmente la comunità in questa preghiera. 

Quindi le parole devono essere pronunciate bene. Poi ci deve essere una adeguata preparazione. I chierichetti devono sapere che cosa fare, i lettori devono sapere realmente come pronunciare. E poi il coro, il canto, siano preparati; l'altare sia ornato bene. Tutto ciò fa parte - anche se si tratta di molte cose pratiche - dell'ars celebrandi. Ma, per concludere, elemento fondamentale è questa arte di entrare in comunione con il Signore, che noi prepariamo con tutta la nostra vita di sacerdoti.

 

Benedetto XVI, Omelia Vespri, Altötting (Baviera), 11 settembre 2006

Il Papa Gregorio Magno, in una sua omelia, disse una volta che gli angeli di Dio, a qualunque distanza vadano con le loro missioni, si muovono sempre in Dio. Sono sempre con Lui. E parlando degli angeli, san Gregorio pensò anche ai vescovi e ai sacerdoti: ovunque vadano, dovrebbero sempre “stare con Lui”. La prassi lo afferma: dove i sacerdoti, a causa dei grandi compiti, permettono che lo stare col Signore si riduca sempre di più, lì perdono infine, nonostante la loro attività forse eroica, la forza interiore che li sostiene. Quello che fanno diventa alla fine un vuoto attivismo. Stare con Lui -come si può realizzare? Bene, la prima cosa e la più importante per il sacerdote è la Messa quotidiana, celebrata sempre con profonda partecipazione interiore. Se la celebriamo veramente da persone oranti, se uniamo la nostra parola e il nostro agire alla parola che ci precede e al rito della celebrazione eucaristica, se nella comunione ci lasciamo veramente abbracciare da Lui e Lo accogliamo -allora stiamo con Lui. 

Un modo fondamentale dello stare con Lui è la Liturgia delle Ore: in essa preghiamo da uomini bisognosi del dialogo con Dio, coinvolgendo però anche tutti gli altri che non hanno il tempo e la possibilità per una tale preghiera. Perché la nostra Celebrazione eucaristica e la Liturgia delle Ore rimangano colme di significato, dobbiamo dedicarci sempre di nuovo alla lettura spirituale della Sacra Scrittura; non soltanto decifrare e spiegare parole del passato, ma cercare la parola di conforto che il Signore rivolge attualmente a me, il Signore che oggi mi interpella per mezzo di questa parola. Solo così saremo in grado di portare la Parola sacra agli uomini di questo nostro tempo come Parola presente e vivente di Dio.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Benedetto XVI, Incontro con i sacerdoti e i diaconi permanenti della Baviera, Freising, 14 settembre 2006

E ancora, “tradotto” a un terzo livello, questo insieme di zelo e di moderazione significa poi anche l’insieme di servizio in tutte le sue dimensioni e di interiorità. Possiamo servire gli altri, possiamo donare solo se personalmente anche riceviamo, se noi stessi non ci svuotiamo. E la Chiesa per questo ci propone degli spazi liberi che, da una parte, sono spazi per un nuovo "espirare" ed "inspirare" e, d’altra parte, diventano centro e fonte del servire. Vi è innanzitutto la celebrazione quotidiana della Santa Messa: non compiamola come una cosa di routine, che in qualche modo, "devo fare", ma celebriamola "dal di dentro"! Immedesimiamoci con le parole, con le azioni, con l’avvenimento che lì è realtà! Se noi celebriamo la Messa pregando, se il nostro dire: “Questo è il mio Corpo” nasce veramente dalla comunione con Gesù Cristo che ci ha imposto le mani e ci ha autorizzato a parlare con il suo stesso Io, se noi realizziamo l'Eucaristia con intima partecipazione nella fede e nella preghiera, allora essa non si riduce ad un dovere esterno, allora l’”ars celebrandi” viene da sé, perché consiste appunto nel celebrare partendo dal Signore e in comunione con Lui, e così nel modo giusto anche per gli uomini. Allora noi stessi ne riceviamo in dono sempre di nuovo un grande arricchimento e al contempo trasmettiamo agli uomini più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore. 

L’altro spazio libero che la Chiesa, per così dire, ci impone e così anche ci libera donandocelo, è la Liturgia delle Ore. Cerchiamo di recitarla come vera preghiera, preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo con ciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo.

 



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Ars celebrandi – Preghiera
(Commento sui paramenti sacri)

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa del Crisma, Basilica Vaticana, 5 aprile 2007

lo scrittore russo Leone Tolstoi narra in un piccolo racconto di un sovrano severo che chiese ai suoi sacerdoti e sapienti di mostrargli Dio affinché egli potesse vederlo. I sapienti non furono in grado di appagare questo suo desiderio. Allora un pastore, che stava giusto tornando dai campi, si offrì di assumere il compito dei sacerdoti e dei sapienti. Il re apprese da lui che i suoi occhi non erano sufficienti per vedere Dio. Allora, però, egli volle almeno sapere che cosa Dio faceva. "Per poter rispondere a questa tua domanda -disse il pastore al sovrano -dobbiamo scambiare i vestiti". Con esitazione, spinto tuttavia dalla curiosità per l’informazione attesa, il sovrano acconsentì; consegnò i suoi vestiti regali al pastore e si fece rivestire del semplice abito dell’uomo povero. Ed ecco allora arrivare la risposta: "Questo è ciò che Dio fa". Di fatto, il Figlio di Dio -Dio vero da Dio vero -ha lasciato il suo splendore divino: "...spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso ...fino alla morte di croce" (cfr Fil 2,6ss). Dio ha -come dicono i Padri -compiuto il sacrum commercium, il sacro scambio: ha assunto ciò che era nostro, affinché noi potessimo ricevere ciò che era suo, divenire simili a Dio. 

San Paolo, per quanto accade nel Battesimo, usa esplicitamente l’immagine del vestito: "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). Ecco ciò che si compie nel Battesimo: noi ci rivestiamo di Cristo, Egli ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui, che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" -così Paolo stesso nella Lettera ai Galati (2,2) descrive l’avvenimento del suo battesimo. Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi "vestiti". Ciò che nella Lettera ai Galati espone come semplice "fatto" del battesimo -il dono del nuovo essere -Paolo ce lo presenta nella Lettera agli Efesini come un compito permanente: "Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima! ...[Dovete] rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira, non peccate..." (Ef 4,22-26). 

Questa teologia del Battesimo ritorna in modo nuovo e con una nuova insistenza nell’Ordinazione sacerdotale. Come nel Battesimo viene donato uno "scambio dei vestiti", uno scambio del destino, una nuova comunione esistenziale con Cristo, così anche nel sacerdozio si ha uno scambio: nell’amministrazione dei Sacramenti, il sacerdote agisce e parla ora "in persona Christi". Nei sacri misteri egli non rappresenta se stesso e non parla esprimendo se stesso, ma parla per l’Altro -per Cristo. Così nei Sacramenti si rende visibile in modo drammatico ciò che l’essere sacerdote significa in generale; ciò che abbiamo espresso con il nostro "Adsum -sono pronto" durante la consacrazione sacerdotale: io sono qui perché tu possa disporre di me. Ci mettiamo a disposizione di Colui "che è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi..." (2Cor 5,15). Metterci a disposizione di Cristo significa che ci lasciamo attirare dentro il suo "per tutti": essendo con Lui possiamo esserci davvero "per tutti". 

In persona Christi -nel momento dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa ci ha reso visibile ed afferrabile questa realtà dei "vestiti nuovi" anche esternamente mediante l’essere stati rivestiti con i paramenti liturgici. In questo gesto esterno essa vuole renderci evidente l’evento interiore e il compito che da esso ci viene: rivestire Cristo; donarsi a Lui come Egli si è donato a noi. Questo evento, il "rivestirsi di Cristo", viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici. Indossarli deve essere per noi più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel "sì" del nostro incarico -in quel "non più io" del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì "in persona di un Altro". Gli indumenti sacerdotali, così come nel corso del tempo si sono sviluppati, sono una profonda espressione simbolica di ciò che il sacerdozio significa. Vorrei pertanto, cari confratelli, spiegare in questo Giovedì Santo l'essenza del ministero sacerdotale interpretando i paramenti liturgici che, appunto, da parte loro vogliono illustrare che cosa significhi "rivestirsi di Cristo", parlare ed agire in persona Christi. 

L’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato da preghiere che ci aiutano a capire meglio i singoli elementi del ministero sacerdotale. Cominciamo con l’amitto. In passato -e negli ordini monastici ancora oggi -esso veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della Santa Messa. I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese del mio quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il mio cuore deve docilmente aprirsi alla parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della Chiesa, affinché il mio pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio e della preghiera. E lo sguardo del mio cuore deve essere rivolto verso il Signore che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi -il giusto modo del celebrare. Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro anche la gente dentro la comunione con Lui. 

I testi della preghiera che interpretano il camice e la stola vanno ambedue nella stessa direzione. Evocano il vestito festivo che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. Quando ci accostiamo alla liturgia per agire nella persona di Cristo ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da Lui; quanta sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio. Così le preghiere ricordano anche la parola dell’Apocalisse secondo cui i vestiti dei 144.000 eletti non per merito loro erano degni di Dio. L’Apocalisse commenta che essi avevano lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che in questo modo esse erano diventate candide come la luce (cfr Ap 7,14). Già da piccolo mi sono chiesto: Ma quando si lava una cosa nel sangue, non diventa certo bianca! La risposta è: il "sangue dell’Agnello" è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che, nonostante tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in "luce nel Signore". Indossando il camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone della sua luce.

Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio. Nelle omelie di san Gregorio Magno ho trovato a questo riguardo una riflessione degna di nota. Gregorio distingue tra la versione di Luca della parabola e quella di Matteo. Egli è convinto che la parabola lucana parli del banchetto nuziale escatologico, mentre -secondo lui -la versione tramandata da Matteo tratterebbe dall’anticipazione di questo banchetto nuziale nella liturgia e nella vita della Chiesa. In Matteo -e solo in Matteo -infatti il re viene nella sala affollata per vedere i suoi ospiti. Ed ecco che in questa moltitudine trova anche un ospite senza abito nuziale, che viene poi buttato fuori nelle tenebre. Allora Gregorio si domanda: "Ma che specie di abito è quello che gli mancava? Tutti coloro che sono riuniti nella Chiesa hanno ricevuto l’abito nuovo del battesimo e della fede; altrimenti non sarebbero nella Chiesa. Che cosa, dunque, manca ancora? Quale abito nuziale deve ancora essere aggiunto?" Il Papa risponde: "Il vestito dell’amore". E purtroppo, tra i suoi ospiti ai quali aveva donato l’abito nuovo, la veste candida della rinascita, il re trova alcuni che non portano il vestito color porpora del duplice amore verso Dio e verso il prossimo. "In quale condizione vogliamo accostarci alla festa del cielo, se non indossiamo l’abito nuziale -cioè l’amore, che solo può renderci belli?", domanda il Papa. Una persona senza l’amore è buia dentro. Le tenebre esterne, di cui parla il Vangelo, sono solo il riflesso della cecità interna del cuore (cfr Hom. 38, 8-13). 

Ora che ci apprestiamo alla celebrazione della Santa Messa, dovremmo domandarci se portiamo questo abito dell’amore. Chiediamo al Signore di allontanare ogni ostilità dal nostro intimo, di toglierci ogni senso di autosufficienza e di rivestirci veramente con la veste dell’amore, affinché siamo persone luminose e non appartenenti alle tenebre. 

Infine ancora una breve parola riguardo alla casula. La preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita a portare il suo giogo e a imparare da Lui, che è "mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà -l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo. San Gregorio Nazianzeno una volta si è chiesto perché Dio abbia voluto farsi uomo. La parte più importante e per me più toccante della sua risposta è: "Dio voleva rendersi conto di che cosa significa per noi l’obbedienza e voleva misurare il tutto in base alla propria sofferenza, questa invenzione del suo amore per noi. In questo modo, Egli può conoscere direttamente su se stesso ciò che noi sperimentiamo -quanto è richiesto da noi, quanta indulgenza meritiamo -calcolando in base alla sua sofferenza la nostra debolezza" (Discorso 30; Disc. teol. IV,6). A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente leggero. È anzi tremendamente pesante in questo mondo. Ma guardando poi a Lui che ha portato tutto -che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore, tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante. Preghiamolo di aiutarci a diventare insieme con Lui persone che amano, per sperimentare così sempre di più quanto è bello portare il suo giogo. Amen.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:08



Ars celebrandi – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 7 febbraio 2008

Sono don Alberto Orlando, vice parroco della parrocchia di Santa Maria Madre della Provvidenza. Vorrei rappresentarLe una difficoltà vissuta a Loreto con i giovani lo scorso anno. A Loreto abbiamo trascorso una giornata bellissima, ma tra le tante cose belle abbiamo notato una certa distanza tra Lei e i giovani. Siamo arrivati il pomeriggio. Non siamo riusciti né a sistemarci, né a vedere, né a sentire. Quando poi è arrivata la sera Lei è andato via e noi siamo come rimasti in balìa della televisione, che in un certo senso ci ha usato. I giovani però hanno bisogno di calore. Una ragazza per esempio mi ha detto: «Normalmente il Papa ci chiama “cari giovani”, invece oggi ci ha chiamato “giovani amici”». Ed era molto contenta per questo. Come mai non sottolineare questo particolare, questa vicinanza? Anche il collegamento televisivo con Loreto era molto freddo, molto lontano; anche il momento della preghiera ha vissuto delle difficoltà perchè era legato a dei punti luce rimasti chiusi sino a tardi, almeno sino a quando non è terminato lo spettacolo televisivo.  La seconda cosa invece che ci ha creato qualche difficoltà è stata la liturgia del giorno dopo, un po' pesante soprattutto  per quanto riguarda canti e musica. Al momento dell'alleluja, per farLe un esempio, una ragazza ha notato che, nonostante il caldo, queste canzoni e queste musiche si protraevano in tempi lunghissimi, quasi che a nessuno importasse dei disagi di chi era stretto nella calca. E si trattava di ragazzi che tutte le domeniche frequentano la messa. Ecco le due domande: come mai questa distanza tra Lei e loro; e poi come conciliare il tesoro della liturgia in tutta la solennità  con il sentimento, l'affetto e l'emotività che nutre i giovani e dei quali essi hanno tanto bisogno? Vorrei anche un consiglio: come regolarci tra solennità e emotività. Anche perchè siamo noi stessi sacerdoti a chiederci spesso quanto noi preti siamo capaci di vivere con semplicità l'emozione e il sentimento. Ed essendo noi i ministri del sacramento vorremmo essere in grado di orientare sentimento e emotività verso un giusto equilibrio. 

R. Il primo punto propostomi è legato alla situazione organizzativa: io l'ho trovata così come era, quindi non so se era possibile magari organizzare in modo diverso. Considerando le migliaia di persone che c'erano, era impossibile, credo, far sì che tutti potessero essere vicini allo stesso modo. Anzi, per questo abbiamo seguito un percorso con la macchina, per avere un po' di vicinanza con le singole persone. Però terremo conto di questo e vedremo se in futuro, in altri incontri con migliaia e migliaia di persone, sarà mai possibile fare qualcosa di diverso. Mi sembra tuttavia importante che cresca il sentimento di una vicinanza interiore, che trovi il ponte che ci unisce anche se localmente distanti.

Un grande problema è quello invece delle liturgie alle quali partecipano masse di persone. Mi ricordo  nel 1960, durante il grande congresso eucaristico internazionale di Monaco, si cercava di dare una nuova fisionomia ai congressi eucaristici, che sino ad allora erano soltanto atti di adorazione. Si voleva mettere al centro la celebrazione dell'Eucaristia come atto della presenza del mistero celebrato. Ma subito è nata la domanda sul come fosse possibile. Per adorare, si diceva, lo si può fare anche a distanza; ma per celebrare è necessaria una comunità limitata che possa interagire con il mistero, dunque una comunità che doveva essere assemblea attorno alla celebrazione del mistero. Molti erano quelli contrari alla celebrazione dell'Eucaristia in pubblico con centomila persone. Dicevano che non era possibile proprio per la struttura stessa dell'Eucaristia, che esige la comunità per la comunione. Erano anche grandi personalità, molto rispettabili, quelle contrarie a questa soluzione. Poi il professor Jungmann, grande liturgista, uno dei grandi architetti della riforma liturgica, ha creato il concetto di statio orbis, cioè è tornato alla statio Romae dove proprio nel tempo della Quaresima  i fedeli si raccolgono in un punto, la statio: quindi sono in statio come i soldati per Cristo, poi vanno insieme all'Eucaristia. Se questa, ha detto, era la statio della città di Roma, dove la città di Roma si riunisce, allora questa è la statio orbis. E dal quel momento abbiamo le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione delle masse. Per me, devo dire, rimane un problema, perchè la comunione concreta nella celebrazione è fondamentale e quindi non trovo che la risposta definitiva sia stata realmente trovata. Anche nel Sinodo scorso ho fatto emergere questa domanda, che però non ha trovato risposta. Anche un'altra domanda  ho fatto fare, sulla concelebrazione in massa: perchè  se concelebrano, per esempio, mille sacerdoti, non si sa se c'è ancora la struttura voluta dal Signore.  Ma in ogni caso sono domande. E così si è presentata a lei la difficoltà nel partecipare ad una celebrazione di massa durante la quale non è possibile che tutti siano ugualmente coinvolti. Si deve dunque scegliere un certo stile, per conservare quella dignità che è sempre necessaria per l'Eucaristia, e quindi la comunità non è uniforme e l'esperienza della partecipazione all'avvenimento è diversa;  per alcuni  è certamente insufficiente. Ma non è dipesa da me, piuttosto da quanti si sono occupati della  preparazione.

Si deve riflettere bene dunque sul cosa fare in queste situazioni, come rispondere alle sfide di questa situazione. Se non sbaglio, era un'orchestra di handicappati ad eseguire le musiche e forse l'idea era proprio quella di far capire che gli handicappati possono essere animatori della sacra celebrazione e proprio loro non devono essere esclusi ma agenti primari. E così tutti, amando loro, non si sono sentiti esclusi ma anzi coinvolti. Mi sembra una riflessione molto rispettabile e io la condivido. Naturalmente però rimane il problema fondamentale. Ma mi sembra che anche qui, sapendo che cosa è l'Eucaristia, anche se non si ha la possibilità di un'attività esteriore come si desidererebbe per sentirsi compartecipi, vi si entra con il cuore, come dice l'antico imperativo nella Chiesa, creato forse proprio per quelli che stavano dietro nella basilica: «In alto i cuori! Adesso tutti usciamo da noi stessi, così tutti siamo con il Signore e siamo insieme». Come detto, non nego il problema, ma se seguiamo realmente questa parola «In alto i nostri cuori» troveremo tutti, anche in situazioni difficili ed a volte discutibili, la vera partecipazione attiva.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Ars celebrandi – Preghiera

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa del Crisma, Basilica Vaticana, 20 marzo 2008

(...) Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento -“stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della  parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato -conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” -il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida. 

Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani.
 

Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Nigeria in visita “ad Limina Apostolorum”, 14 febbraio 2009

La celebrazione della liturgia è una fonte privilegiata di rinnovamento della vita cristiana. Lodo i vostri sforzi volti a mantenere il giusto equilibrio fra momenti di contemplazione e gesti esteriori di partecipazione e di gioia nel Signore. A questo fine bisogna prestare attenzione alla formazione liturgica dei sacerdoti ed evitare eccessi estranei. Proseguite lungo questo cammino ricordando che il dialogo di amore e di venerazione del Signore viene molto migliorato dalla pratica dell'adorazione eucaristica nelle parrocchie, nelle comunità religiose e in altri luoghi adatti (cfr. Sacramentum caritatis, n. 67)!.




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21/03/2013 12:10

Ars celebrandi – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi del Camerun, Yaoundé 18 marzo 2009

La liturgia occupa un posto importante nella manifestazione della fede delle vostre comunità. Di solito queste celebrazioni ecclesiali sono festose e gioiose, esprimendo il fervore dei fedeli, felici di essere insieme, come Chiesa, per lodare il Signore. E’ dunque essenziale che la gioia così manifestata non sia un ostacolo ma un mezzo per entrare in dialogo e in comunione con Dio, per mezzo di una effettiva interiorizzazione delle strutture e della parole di cui si compone la liturgia, in modo che essa traduca ciò che succede nel cuore dei credenti, in unione reale con tutti i partecipanti. La dignità delle celebrazioni, soprattutto quando esse si svolgono con un grande afflusso di partecipanti, ne è un segno eloquente.
 

Benedetto XVI, Discorso nella celebrazione dei Vespri, Yaoundé 18 marzo 2009

Cari fratelli sacerdoti, questa paternità voi dovete viverla nel vostro ministero quotidiano. In effetti, la Costituzione conciliare Lumen gentium sottolinea: i sacerdoti “abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento” (n. 28). Come allora non tornare continuamente alla radice del nostro sacerdozio, il Signore Gesù Cristo? La relazione con la sua persona è costitutiva di ciò che noi vogliamo vivere, la relazione con lui che ci chiama suoi amici, perché tutto quello che egli ha appreso dal Padre ce l’ha fatto conoscere (cfr Gv 15,15). Vivendo questa amicizia profonda con Cristo, troverete la vera libertà e la gioia del vostro cuore. Il sacerdozio ministeriale comporta un legame profondo con Cristo che ci è donato nell’Eucaristia. Che la celebrazione dell’Eucaristia sia veramente il centro della vostra vita sacerdotale, allora essa sarà anche il centro della vostra missione ecclesiale. In effetti, per tutta la nostra vita, il Cristo ci chiama a partecipare alla sua missione, a essere testimoni, affinché la sua Parola possa essere annunciata a tutti. Celebrando questo sacramento a nome e nella persona del Signore, non è la persona del prete che deve essere posta in primo piano: egli è un servitore, un umile strumento che rimanda a Cristo, poiché Cristo  stesso si offre in sacrificio per la salvezza del mondo. “Chi governa sia come colui che serve” (Lc 22,26), dice Gesù. Ed Origene scriveva: “Giuseppe capiva che Gesù gli era superiore pur essendo sottomesso a lui in tutto e, conoscendo la superiorità del suo inferiore, Giuseppe gli comandava con timore e misura. Che ciascuno rifletta su questo: spesso un uomo di minor valore è posto al di sopra di gente migliore di lui e a volte succede che l’inferiore ha più valore di colui che sembra comandargli. Quando chi ha ricevuto una dignità comprende questo non si gonfierà di orgoglio a motivo del suo rango più elevato, ma saprà che il suo inferiore può essere migliore di lui, così come Gesù è stato sottomesso a Giuseppe” (Omelia su san Luca XX,5, S.C. p. 287).

Ars celebrandi – Preghiera

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa del Crisma, Basilica Vaticana, 9 aprile 2009

(...) Essere immersi nella Verità, in Cristo -di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e anche impariamo a conoscerLo: il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pregare è un camminare in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie -è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa. Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente “un corpo solo e un’anima sola” con Cristo.

 

Ars celebrandi – Preghiera

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa con ordinazioni presbiterali, Basilica Vaticana, 3 maggio 2009

(...) Qui vorrei toccare un punto che mi sta particolarmente a cuore: la preghiera e il suo legame con il servizio. Abbiamo visto che essere ordinati sacerdoti significa entrare in modo sacramentale ed esistenziale nella preghiera di Cristo per i "suoi". Da qui deriva per noi presbiteri una particolare vocazione alla preghiera, in senso fortemente cristocentrico: siamo chiamati, cioè, a "rimanere" in Cristo -come ama ripetere l’evangelista Giovanni (cfr Gv 1,35-39; 15,4-10)-, e questo rimanere in Cristo si realizza particolarmente nella preghiera. Il nostro ministero è totalmente legato a questo "rimanere" che equivale a pregare, e deriva da esso la sua efficacia. In tale prospettiva dobbiamo pensare alle diverse forme della preghiera di un prete, prima di tutto alla santa Messa quotidiana. La celebrazione eucaristica è il più grande e il più alto atto di preghiera, e costituisce il centro e la fonte da cui anche le altre forme ricevono la "linfa": la Liturgia delle ore, l’adorazione eucaristica, la lectio divina, il santo Rosario, la meditazione. Tutte queste espressioni di preghiera, che hanno il loro centro nell’Eucaristia, fanno sì che nella giornata del prete, e in tutta la sua vita, si realizzi la parola di Gesù: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore" (Gv 10,14-15). Infatti, questo "conoscere" ed "essere conosciuti" in Cristo e, mediante Lui, nella Santissima Trinità, non è altro che la realtà più vera e più profonda della preghiera. Il sacerdote che prega molto, e che prega bene, viene progressivamente espropriato di sé e sempre più unito a Gesù Buon Pastore e Servo dei fratelli. In conformità a Lui, anche il prete "dà la vita" per le pecore che gli sono affidate. Nessuno gliela toglie: la offre da se stesso, in unione con Cristo Signore, il quale ha il potere di dare la sua vita e il potere di riprenderla non solo per sé, ma anche per i suoi amici, legati a Lui dal Sacramento dell’Ordine. Così la stessa vita di Cristo, Agnello e Pastore, viene comunicata a tutto il gregge, mediante i ministri consacrati.

 

Ars celebrandi – Preghiera

Discorso del Santo Padre Benedetto XVI ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Belgio in Visita "ad limina Apostolorum" Sabato 8 maggio 2010

La Costituzione Sacrosanctum concilium sottolinea che è nella liturgia che si manifesta il mistero della Chiesa, nella sua grandezza e nella sua semplicità (cfr. n. 2). È dunque importante che i sacerdoti curino le celebrazioni liturgiche, in particolare dell'Eucaristia, affinché esse permettano una comunione profonda con il Dio vivente, Padre, Figlio e Spirito Santo. È necessario che le celebrazioni si svolgano nel rispetto della tradizione liturgica della Chiesa, con una partecipazione attiva dei fedeli, secondo il ruolo che corrisponde a ognuno di essi, unendosi al mistero pasquale di Cristo.

Ars celebrandi – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa, Nicosia, 5 giugno 2010

In questo Anno Sacerdotale permettetemi di rivolgere una parola speciale ai sacerdoti oggi qui presenti e a quanti si preparano all’ordinazione. Riflettete sulle parole pronunciate al novello sacerdote dal Vescovo, mentre gli presenta il calice e la patena: “Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”. 

Mentre proclamiamo la croce di Cristo, cerchiamo sempre di imitare l’amore disinteressato di colui che offrì se stesso per noi sull’altare della croce, di colui che è allo stesso tempo sacerdote e vittima, di colui nella cui persona parliamo ed agiamo quando esercitiamo il ministero ricevuto. Nel riflettere sulle nostre mancanze, sia individualmente sia collettivamente, riconosciamo umilmente di aver meritato il castigo che lui, l’Agnello innocente, ha patito in nostra vece. E se, in accordo con quanto abbiamo meritato, avessimo qualche parte nelle sofferenze di Cristo, rallegriamoci, perché ne avremo una felicità ben più grande quando sarà rivelata la sua gloria.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Ars celebrandi

Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa in Cena Domini, 21 aprile 2011

Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15): con queste parole Gesù ha inaugurato la celebrazione del suo ultimo convito e dell’istituzione della santa Eucaristia. Gesù è andato incontro a quell’ora desiderandola. Nel suo intimo ha atteso quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi sotto le specie del pane e del vino. Ha atteso quel momento che avrebbe dovuto essere in qualche modo le vere nozze messianiche: la trasformazione dei doni di questa terra e il diventare una cosa sola con i suoi, per trasformarli ed inaugurare così la trasformazione del mondo. Nel desiderio di Gesù possiamo riconoscere il desiderio di Dio stesso - il suo amore per gli uomini, per la sua creazione, un amore in attesa.
L’amore che attende il momento dell’unione, l’amore che vuole attirare gli uomini a sé, per dare compimento con ciò anche al desiderio della stessa creazione: essa, infatti, è protesa verso la manifestazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19). Gesù ha desiderio di noi, ci attende. E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro? Dalle parabole di Gesù sui banchetti sappiamo che Egli conosce la realtà dei posti rimasti vuoti, la risposta negativa, il disinteresse per Lui e per la sua vicinanza. I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare. Gesù sapeva anche di ospiti che sarebbero sì venuti, ma senza essere vestiti in modo nuziale - senza gioia per la sua vicinanza, seguendo solo un’abitudine, e con tutt’altro orientamento della loro vita.

San Gregorio Magno, in una delle sue omelie, si domandava: Che genere di persone sono quelle che vengono senza abito nuziale? In che cosa consiste questo abito e come lo si acquista? La sua risposta è: Quelli che sono stati chiamati e vengono hanno in qualche modo fede. È la fede che apre loro la porta. Ma manca loro l’abito nuziale dell’amore. Chi vive la fede non come amore non è preparato per le nozze e viene mandato fuori. La comunione eucaristica richiede la fede, ma la fede richiede l’amore, altrimenti è morta anche come fede.

Da tutti e quattro i Vangeli sappiamo che l’ultimo convito di Gesù prima della Passione fu anche un luogo di annuncio. Gesù ha proposto ancora una volta con insistenza gli elementi portanti del suo messaggio. Parola e Sacramento, messaggio e dono stanno inscindibilmente insieme. Ma durante l’ultimo convito, Gesù ha soprattutto pregato. Matteo, Marco e Luca usano due parole per descrivere la preghiera di Gesù nel punto centrale della Cena: “eucharistesas” ed “eulogesas” - “ringraziare” e “benedire”. Il movimento ascendente del ringraziare e quello discendente del benedire vanno insieme. Le parole della transustanziazione sono parte di questa preghiera di Gesù. Sono parole di preghiera. Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati. Lo scopo proprio e ultimo della trasformazione eucaristica è la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo. L’Eucaristia ha di mira l’uomo nuovo, il mondo nuovo così come esso può nascere soltanto a partire da Dio mediante l’opera del Servo di Dio.

Da Luca e soprattutto da Giovanni sappiamo che Gesù nella sua preghiera durante l’Ultima Cena ha anche rivolto suppliche al Padre - suppliche che al tempo stesso contengono appelli ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi. Vorrei in quest’ora scegliere soltanto una supplica che, secondo Giovanni, Gesù ha ripetuto quattro volte nella sua Preghiera sacerdotale. Quanto deve averLo angustiato nel suo intimo! Essa rimane continuamente la sua preghiera al Padre per noi: è la preghiera per l’unità. Gesù dice esplicitamente che tale supplica non vale soltanto per i discepoli allora presenti, ma ha di mira tutti coloro che crederanno in Lui (cfr Gv 17,20). Chiede che tutti diventino una sola cosa “come tu, Padre, sei in me e io in te ... perché il mondo creda” (Gv 17,21). L’unità dei cristiani può esserci soltanto se i cristiani sono intimamente uniti a Lui, a Gesù. Fede e amore per Gesù, fede nel suo essere uno col Padre e apertura all’unità con Lui sono essenziali.
Questa unità non è dunque una cosa soltanto interiore, mistica. Deve diventare visibile, così visibile da costituire per il mondo la prova della missione di Gesù da parte del Padre. Per questo tale supplica ha un nascosto senso eucaristico che Paolo ha chiaramente evidenziato nella Prima Lettera ai Corinzi: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16s).

Con l’Eucaristia nasce la Chiesa. Noi tutti mangiamo lo stesso pane, riceviamo lo stesso corpo del Signore e questo significa: Egli apre ciascuno di noi al di là di se stesso. Egli ci rende tutti una cosa sola. L’Eucaristia è il mistero dell’intima vicinanza e comunione di ogni singolo col Signore. Ed è, al tempo stesso, l’unione visibile tra tutti. L’Eucaristia è Sacramento dell’unità. Essa giunge fin nel mistero trinitario, e crea così al contempo l’unità visibile. Diciamolo ancora una volta: essa è l’incontro personalissimo col Signore e, tuttavia, non è mai soltanto un atto di devozione individuale. La celebriamo necessariamente insieme. In ogni comunità vi è il Signore in modo totale. Ma Egli è uno solo in tutte le comunità. Per questo, della Preghiera eucaristica della Chiesa fanno necessariamente parte le parole: “una cum Papa nostro et cum Episcopo nostro”. Questa non è un’aggiunta esteriore a ciò che avviene interiormente, bensì espressione necessaria della realtà eucaristica stessa. E menzioniamo il Papa e il Vescovo per nome: l’unità è del tutto concreta, ha dei nomi. Così l’unità diventa visibile, diventa segno per il mondo e stabilisce per noi stessi un criterio concreto.

 

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21/03/2013 12:13

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Benedetto XVI, Omelia nella ordinazione episcopale, Roma 5 febbraio 2011

Con ciò siamo già giunti al successivo elemento fondamentale dell’esistenza ecclesiale, menzionato da san Luca: lo spezzare il pane. Lo sguardo dell’Evangelista, a questo punto, torna indietro ai discepoli di Emmaus, che riconobbero il Signore dal gesto dello spezzare il pane. E da lì, lo sguardo torna ancora più indietro all’ora dell’Ultima Cena, in cui Gesù, nello spezzare il pane, distribuì se stesso, si fece pane per noi ed anticipò la sua morte e la sua risurrezione. Spezzare il pane - la santa Eucaristia è il centro della Chiesa e deve essere il centro del nostro essere cristiani e della nostra vita sacerdotale. Il Signore si dona a noi. Il Risorto entra nel mio intimo e vuole trasformarmi per farmi entrare in una profonda comunione con Lui. Così mi apre anche a tutti gli altri: noi, i molti, siamo un solo pane e un solo corpo, dice san Paolo (cfr 1Cor 10,17). Cerchiamo di celebrare l’Eucaristia con una dedizione, un fervore sempre più profondo, cerchiamo di impostare i nostri giorni secondo la sua misura, cerchiamo di lasciarci plasmare da essa. Spezzare il pane - con ciò è espresso insieme anche il condividere, il trasmettere il nostro amore agli altri. La dimensione sociale, il condividere non è un’appendice morale che s’aggiunge all’Eucaristia, ma è parte di essa. Ciò risulta chiaramente proprio dal versetto che negli Atti degli Apostoli segue a quello citato poc’anzi: “Tutti i credenti ... avevano ogni cosa in comune”, dice San Luca (2,44). Stiamo attenti che la fede si esprima sempre nell’amore e nella giustizia degli uni verso gli altri e che la nostra prassi sociale sia ispirata dalla fede; che la fede sia vissuta nell’amore.

Come ultimo pilastro dell’esistenza ecclesiale, Luca menziona “le preghiere”. Egli parla al plurale: preghiere. Che cosa vuol dire con questo? Probabilmente pensa alla partecipazione della prima Comunità di Gerusalemme alle preghiere nel tempio, agli ordinamenti comuni della preghiera. Così si mette in luce una cosa importante. La preghiera, da una parte, deve essere molto personale, un unirmi nel più profondo a Dio. Deve essere la mia lotta con Lui, la mia ricerca di Lui, il mio ringraziamento per Lui e la mia gioia in Lui. Tuttavia, non è mai soltanto una cosa privata del mio “io” individuale, che non riguarda gli altri. Pregare è essenzialmente anche sempre un pregare nel “noi” dei figli di Dio. Solo in questo “noi” siamo figli del nostro Padre, che il Signore ci ha insegnato a pregare. Solo questo “noi” ci apre l’accesso al Padre. Da una parte, la nostra preghiera deve diventare sempre più personale, toccare e penetrare sempre più profondamente il nucleo del nostro “io”. Dall’altra, deve sempre nutrirsi della comunione degli oranti, dell’unità del Corpo di Cristo, per plasmarmi veramente a partire dall’amore di Dio. Così il pregare, in ultima analisi, non è un’attività tra le altre, un certo angolo del mio tempo. Pregare è la risposta all’imperativo che sta all’inizio del Canone nella Celebrazione eucaristica: Sursum corda - in alto i cuori! È l’ascendere della mia esistenza verso l’altezza di Dio.


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21/03/2013 12:52

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE
  

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Liturgia – Partecipazione attiva

 

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale del Canada-Québec in visita “ad Limina Apostolorum”, 11 maggio 2006

Tuttavia, la diminuzione del numero dei sacerdoti, che rende a volte impossibile la celebrazione della Messa domenicale in alcuni luoghi, chiama in causa in modo preoccupante il posto della sacramentalità nella vita della Chiesa. Le necessità dell'organizzazione pastorale non devono compromettere l'autenticità dell'ecclesiologia che vi si esprime. Il ruolo centrale del sacerdote che, in persona Christi capitis, insegna, santifica e governa la comunità, non deve essere sminuito. Il sacerdozio ministeriale è indispensabile per l'esistenza di una comunità ecclesiale. L'importanza del ruolo dei laici, che ringrazio per la loro generosità al servizio delle comunità cristiane, non deve mai occultare il ministero assolutamente insostituibile dei sacerdoti per la vita della Chiesa. Il ministero del sacerdote non può essere pertanto affidato ad altre persone senza nuocere di fatto all'autenticità dell'essere stesso della Chiesa. Inoltre come potrebbero i giovani avere il desiderio di diventare sacerdoti se il ruolo del ministero ordinato non è chiaramente definito e riconosciuto?.

 

Benedetto XVI, Discorso nell'incontro con i Vescovi della Svizzera, Sala Bologna, 7 novembre 2006

(...) E ora qualche osservazione sul “Culto divino”. L'Anno Eucaristico, a questo riguardo, ci ha donato molto. Posso dire che l'Esortazione postsinodale è a buon punto. Sarà sicuramente un grande arricchimento. Inoltre abbiamo avuto il documento della Congregazione per il Culto divino circa la giusta celebrazione dell'Eucaristia, cosa molto importante.  

Io credo che a seguito di tutto ciò man mano diventi chiaro che la Liturgia non è un'“auto-manifestazione” della comunità la quale, come si dice, in essa entra in scena, ma è invece l'uscire della comunità dal semplice “essere-se-stessi” e l'accedere al grande banchetto dei poveri, l'entrare nella grande comunità vivente, nella quale Dio stesso ci nutre. Questo carattere universale della Liturgia deve entrare nuovamente nella consapevolezza di tutti.  

Nell'Eucaristia riceviamo una cosa che noi non possiamo fare, ma entriamo invece in qualcosa di più grande che diventa nostro, proprio quando ci consegniamo a questa cosa più grande cercando di celebrare la Liturgia veramente come Liturgia della Chiesa. È poi connesso con ciò anche il famoso problema dell'omelia. Dal punto di vista puramente funzionale posso capirlo molto bene: forse il parroco è stanco o ha predicato già ripetutamente o è anziano e i suoi incarichi superano le sue forze. Se allora c'è un assistente per la pastorale che è molto capace nell'interpretare la Parola di Dio in modo convincente, vien spontaneo dire: perché non dovrebbe parlare l'assistente per la pastorale; lui riesce meglio, e così la gente ne trae maggior profitto. Ma questo, appunto, è la visione puramente funzionale. Bisogna invece tener conto del fatto che l'omelia non è un'interruzione della Liturgia per una parte discorsiva, ma che essa appartiene all'evento sacramentale, portando la Parola di Dio nel presente di questa comunità. È il momento, in cui veramente questa comunità come soggetto vuole essere chiamata in causa per essere portata all'ascolto e all'accoglimento della Parola. Ciò significa che l'omelia stessa fa parte del mistero, della celebrazione del mistero, e quindi non può semplicemente essere slegata da esso. Soprattutto, però, ritengo anche importante che il sacerdote non sia ridotto al Sacramento e alla giurisdizione -nella convinzione che tutti gli altri compiti potrebbero essere assunti anche da altri -ma che si conservi l'integrità del suo incarico.  

Il sacerdozio è una cosa anche bella soltanto se c'è da compiere una missione che è un tutt'uno, dal quale non si può tagliare qua e là qualcosa. E a questa missione appartiene già da sempre -anche nel culto antico-testamentario -il dovere del sacerdote di collegare col sacrificio la Parola che è parte integrante dell'insieme. Dal punto di vista puramente pratico dobbiamo poi certamente provvedere a fornire i sacerdoti degli aiuti necessari perché possano svolgere in modo giusto anche il ministero della Parola. In linea di massima, questa unità interiore sia dell'essenza della Celebrazione eucaristica, sia dell'essenza del ministero sacerdotale, è molto importante.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:53

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale della Repubblica Federale di Germania in visita “ad Limina Apostolorum”, 10 novembre 2006

Infine vorrei soffermarmi ancora su un problema tanto urgente quanto carico di emotività: il rapporto tra sacerdoti e laici nell’adempimento della missione della Chiesa. Quanto sia importante la collaborazione attiva dei laici per la vita della Chiesa, lo scopriamo sempre di più nella nostra cultura secolare. Desidero ringraziare di cuore tutti i laici che, in virtù della forza del battesimo, sostengono in modo vivo la Chiesa. Proprio perché la testimonianza attiva dei laici è tanto importante, è altrettanto importante che i profili specifici delle diverse missioni non vengano confusi. L'omelia durante la Santa Messa è un compito legato al ministero ordinato; quando è presente un numero sufficiente di sacerdoti e di diaconi, spetta a loro la distribuzione della Santa Comunione. Inoltre, continua ad essere avanzata la richiesta perché i laici possano svolgere delle funzioni di guida pastorale. A tale riguardo, non possiamo discutere le questioni che vi sono connesse solo alla luce della convenienza pastorale, poiché qui si tratta di verità della fede, vale a dire della struttura sacramentale-gerachica voluta da Gesù Cristo per  la sua Chiesa. Poiché questa si fonda sulla Sua volontà come anche la delega apostolica poggia sul Suo mandato, esse sono sottratte all’intervento umano. Solo il sacramento dell’Ordinazione autorizza chi lo riceve a parlare e ad agire in persona Christi. E’ questo, cari Confratelli, che bisogna inculcare sempre di nuovo con grande pazienza e sapienza, traendone poi le necessarie conseguenze. 

 

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale della Repubblica Federale di Germania in visita “ad Limina Apostolorum”, 18 novembre 2006

Nel discorso al primo gruppo di Vescovi tedeschi ho già accennato brevemente ai molteplici servizi liturgici da parte dei laici che oggi sono possibili nella Chiesa: quello di ministro straordinario dell’Eucaristia, al quale si aggiungono quello di lettore e quello di guida della liturgia della Parola. Non vorrei ritornare di nuovo su questo tema. È importante che tali compiti non vengano eseguiti, rivendicandoli quasi come un diritto bensì con uno spirito di servizio. La Liturgia ci chiama tutti al servizio di Dio, per Dio e per gli uomini, nel quale non vogliamo mettere in mostra noi stessi, ma porci con umiltà dinanzi a Dio e renderci permeabili per la sua luce. In questo discorso vorrei trattare brevemente altri quattro punti che mi stanno a cuore. 
 

Benedetto XVI, Omelia Santa Messa, Saint Mary's Cathedral di Sydney Sabato, 19 luglio 2008

(...) Ci apprestiamo a celebrare la dedicazione del nuovo altare di questa veneranda cattedrale. Come il frontale scolpito ci ricorda in maniera potente, ogni altare è simbolo di Gesù Cristo, presente nel mezzo della sua Chiesa come sacerdote, altare e vittima (cfr Prefazio pasquale V). Crocifisso, sepolto e risorto dai morti, restituito alla vita nello Spirito e seduto alla destra del Padre, Cristo è divenuto il nostro Sommo Sacerdote, che intercede eternamente per noi. Nella liturgia della Chiesa, e soprattutto nel sacrificio della Messa consumato sugli altari del mondo, egli invita noi, membra del suo mistico Corpo, a condividere la sua auto-oblazione. Egli chiama noi, quale popolo sacerdotale della nuova ed eterna Alleanza, ad offrire, in unione con lui, i nostri quotidiani sacrifici per la salvezza del mondo. 

Nell’odierna liturgia la Chiesa ci rammenta che, come questo altare, anche noi siamo stati consacrati, messi “a parte” per il servizio di Dio e l’edificazione del suo Regno. Troppo spesso, tuttavia, ci ritroviamo immersi in un mondo che vorrebbe mettere Dio “da parte”. Nel nome della libertà ed autonomia umane, il nome di Dio viene oltrepassato in silenzio, la religione è ridotta a devozione personale e la fede viene scansata nella pubblica piazza. Talvolta una simile mentalità, così totalmente opposta all’essenza del Vangelo, può persino offuscare la nostra stessa comprensione della Chiesa e della sua missione. Anche noi possiamo essere tentati di ridurre la vita di fede ad una questione di semplice sentimento, indebolendo così il suo potere di ispirare una visione coerente del mondo ed un dialogo rigoroso con le molte altre visioni che gareggiano per conquistarsi le menti e i cuori dei nostri contemporanei. 

E tuttavia la storia, inclusa quella del nostro tempo, ci dimostra che la questione di Dio non può mai essere messa a tacere, come pure che l’indifferenza alla dimensione religiosa dell’esistenza umana in ultima analisi diminuisce e tradisce l’uomo stesso. Non è forse questo il messaggio proclamato dalla stupenda architettura di questa cattedrale? Non è forse questo il mistero della fede che viene annunciato da questo altare in ogni celebrazione dell’Eucaristia? La fede ci insegna che in Cristo Gesù, Parola incarnata, giungiamo a comprendere la grandezza della nostra stessa umanità, il mistero della nostra vita sulla terra ed il sublime destino che ci attende in cielo (cfr Gaudium et spes, 24). La fede inoltre ci insegna che noi siamo creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, dotate di una dignità inviolabile e chiamate alla vita eterna. Laddove l’uomo viene sminuito, è il mondo che ci attornia ad essere sminuito; perde il proprio significato ultimo e manca il suo obiettivo. Ciò che ne emerge è una cultura non della vita, ma della morte. Come si può considerare questo un “progresso”? Al contrario, è un passo indietro, una forma di regressione, che in ultima analisi inaridisce le sorgenti stesse della vita sia degli individui che dell’intera società. 

Sappiamo che alla fine -come sant’Ignazio di Loyola vide in modo così chiaro -l’unico vero “standard” su cui ogni realtà umana può essere misurata è la Croce ed il suo messaggio di amore non meritato che trionfa sul male, sul peccato e sulla morte, che crea vita nuova e perenne gioia. La Croce rivela che ritroviamo noi stessi solo donando le nostre vite, accogliendo l’amore di Dio come dono immeritato ed operando per condurre ogni uomo e ogni donna verso la bellezza di quell’amore e verso la luce della verità che sola reca salvezza al mondo. 

È in questa verità -il mistero della fede -che siamo stati consacrati (cfr Gv 17,17-19), ed è in questa verità che siamo chiamati a crescere, con l’aiuto della grazia di Dio, nella quotidiana fedeltà alla sua parola, entro la comunione vivificante della Chiesa. E tuttavia come è difficile questo cammino di consacrazione! Esige una continua “conversione”, un morire sacrificale a se stessi che è la condizione per appartenere pienamente a Dio, un mutamento della mente e del cuore che porta vera libertà ed una nuova ampiezza di visione. La liturgia odierna ci offre un simbolo eloquente di quella trasformazione spirituale progressiva alla quale ciascuno di noi è chiamato. Dall’aspersione dell’acqua, dalla proclamazione della parola di Dio, dall’invocazione di tutti i Santi, fino alla preghiera di consacrazione, all’unzione e al lavacro dell’altare, al suo essere rivestito di bianco e addobbato di luce -tutti questi riti ci invitano a ri-vivere la nostra propria consacrazione nel Battesimo. Ci invitano a respingere il peccato e le sue false attrattive, e a bere sempre più profondamente alla sorgente vivificante della grazia di Dio

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:54

Benedetto XVI, Udienza Generale, Aula Paolo VI, 7 gennaio 2009

San Paolo (17) Il culto spirituale

(...) in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice. 

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto. 

1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana -“strumento di espiazione” -san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione -“yom kippur” -veniva asperso col sangue di animali sacrificati -sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo. 

San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. 

Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo -l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano -il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” -il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo. 

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile. 

Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo -“vivente” -esprime una vitalità. Il secondo -“santo” -ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo -“gradito a Dio” -richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.). 

Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (“logike latreía”) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico -un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente. 

Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode...” (vv 12). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco -cioè alla persecuzione, alla sofferenza -Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori...Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito...” (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito -il suo desiderio di Dio. 

Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare. 

Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente...: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione -e solo così -possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”. 

Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” -che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”...“Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10,6: CCL 47, 27 ss). 

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione missionaria è -così possiamo dire -la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia -questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza. 

 

Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:56

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Benedetto XVI, Incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 26 febbraio 2009

5) Santo Padre, sono Don Marco Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Ambrogio. Quando ero in formazione non mi rendevo conto, come ora, dell'importanza della liturgia. Certamente le celebrazioni non mancavano, ma non capivo molto come essa sia «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium, 10). La consideravo, piuttosto, un fatto tecnico per la buona riuscita di una celebrazione o una pratica pia e non piuttosto un contatto con il mistero che salva, un lasciarsi conformare a Cristo per essere luce del mondo, una fonte di teologia, un mezzo per realizzare la tanto auspicata integrazione tra ciò che si studia e la vita spirituale. D'altro canto pensavo che la liturgia non fosse strettamente necessaria per essere cristiani o salvi e che bastasse sforzarsi di mettere in pratica le Beatitudini. Ora mi chiedo cosa sarebbe la carità senza la liturgia e se senza di essa la nostra fede non si ridurrebbe ad una morale, un'idea, una dottrina, un fatto del passato e noi sacerdoti non sembreremmo più insegnanti o consiglieri che mistagoghi che introducano le persone nel mistero. La stessa Parola di Dio è un annuncio che si realizza nella liturgia e che con essa ha un rapporto sorprendente: Sacrosanctum Concilium 6; Praenotanda del Lezionario 4 e 10. E pensiamo anche al brano di Emmaus o del funzionario etiope (Atti, 8). Perciò arrivo alla domanda. Senza nulla togliere alla formazione umana, filosofica, psicologica, nelle università e nei seminari, vorrei capire se la nostra specificità non richieda una maggiore formazione liturgica, oppure se l'attuale prassi e struttura degli studi già soddisfino sufficientemente la Costituzione Sacrosanctum Concilium 16, quando dice che la liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti, principali, e va insegnata sotto l'aspetto teologico, storico, spirituale, pastorale e giuridico e che i professori delle altre materie abbiano cura che la connessione con la liturgia risulti chiara. Ho fatto tale domanda perché, prendendo spunto dal proemio del decreto Optatam totius, mi sembra che le molteplici azioni della Chiesa nel mondo e la nostra stessa efficacia pastorale, dipendano molto dall'autocoscienza che abbiamo dell'inesauribile mistero del nostro essere battezzati, crismati e sacerdoti. 

R. Dunque, se ho capito bene, si tratta della questione: quale sia, nell'insieme del nostro lavoro pastorale, molteplice e con tante dimensioni, lo spazio e il luogo dell'educazione liturgica e della realtà del celebrare il mistero. In questo senso, mi sembra, è anche una questione sull'unità del nostro annuncio e del nostro lavoro pastorale, che ha tante dimensioni. Dobbiamo cercare che cosa è il punto unificante, affinché queste tante occupazioni che abbiamo siano tutte insieme un lavoro del pastore. Se ho capito bene, lei è del parere che il punto unificante, che crea la sintesi di tutte le dimensioni del nostro lavoro e della nostra fede, potrebbe proprio essere la celebrazione dei misteri. E, quindi, la mistagogia, che ci insegna a celebrare.

Per me è importante realmente che i sacramenti, la celebrazione eucaristica dei sacramenti, non sia una cosa un po' strana accanto a lavori più contemporanei come l'educazione morale, economica, tutte le cose che abbiamo già detto. Può accadere facilmente che il sacramento rimanga un po' isolato in un contesto più pragmatico e divenga una realtà non del tutto inserita nella totalità del nostro essere umano. Grazie per la domanda, perché realmente noi dobbiamo insegnare a essere uomo. Dobbiamo insegnare questa grande arte: come essere un uomo. Questo esige, come abbiamo visto, tante cose: dalla grande denuncia del peccato originale nelle radici della nostra economia e nei tanti rami della nostra vita, fino a concrete guide alla giustizia, fino all'annuncio ai non credenti. Ma i misteri non sono una cosa esotica nel cosmo delle realtà più pratiche. Il mistero è il cuore dal quale viene la nostra forza e al quale ritorniamo per trovare questo centro. E perciò penso che la catechesi diciamo mistagogica è realmente importante. Mistagogica vuol dire anche realistica, riferita alla vita di noi uomini di oggi. Se è vero che l'uomo in sé non ha la sua misura -che cosa è giusto e che cosa non lo è -ma trova la sua misura fuori di sé, in Dio, è importante che questo Dio non sia lontano ma sia riconoscibile, sia concreto, entri nella nostra vita e sia realmente un amico con il quale possiamo parlare e che parla con noi. Dobbiamo imparare a celebrare l'Eucaristia, imparare a conoscere Gesù Cristo, il Dio con il volto umano, da vicino, entrare realmente con Lui in contatto, imparare ad ascoltarLo e imparare a lasciarLo entrare in noi. Perché la comunione sacramentale è proprio questa interpenetrazione tra due persone. Non prendo un pezzo di pane o di carne, prendo o apro il mio cuore perché entri il Risorto nel contesto del mio essere, perché sia dentro di me e non solo fuori di me, e così parli dentro di me e trasformi il mio essere, mi dia il senso della giustizia, il dinamismo della giustizia, lo zelo per il Vangelo. 

Questa celebrazione, nella quale Dio si fa non solo vicino a noi, ma entra nel tessuto della nostra esistenza, è fondamentale per poter realmente vivere con Dio e per Dio e portare la luce di Dio in questo mondo. Non entriamo adesso in troppi dettagli. Ma è sempre importante che la catechesi sacramentale sia una catechesi esistenziale. Naturalmente, pur accettando e imparando sempre più l'aspetto misterico -là dove finiscono le parole e i ragionamenti -essa è totalmente realistica, perché porta me a Dio e Dio a me. Mi porta all'altro perché l'altro riceve lo stesso Cristo, come me. Quindi se in lui e in me c'è lo stesso Cristo, anche noi due non siamo più individui separati. Qui nasce la dottrina del Corpo di Cristo, perché siamo tutti incorporati se riceviamo bene l'Eucaristia nello stesso Cristo. Quindi il prossimo è realmente prossimo: non siamo due «io» separati, ma siamo uniti nello stesso «io» di Cristo. Con altre parole, la catechesi eucaristica e sacramentale deve realmente arrivare al vivo della nostra esistenza, essere proprio educazione ad aprirmi alla voce di Dio, a lasciarmi aprire perché rompa questo peccato originale dell'egoismo e sia apertura della mia esistenza in profondità, tale che possa divenire un vero giusto. In questo senso, mi sembra che tutti dobbiamo imparare sempre meglio la liturgia, non come una cosa esotica, ma come il cuore del nostro essere cristiani, che non si apre facilmente a un uomo distante, ma è proprio, dall'altra parte, l'apertura verso l'altro, verso il mondo. Dobbiamo tutti collaborare per celebrare sempre più profondamente l'Eucaristia: non solo come rito, ma come processo esistenziale che mi tocca nella mia intimità, più che ogni altra cosa, e mi cambia, mi trasforma. E trasformando me, dà inizio anche alla trasformazione del mondo che il Signore desidera e per la quale vuol farci suoi strumenti.

 

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale di Scozia in visita “ad Limina Apostolorum”, 5 febbraio 2010

La testimonianza di sacerdoti che sono autenticamente impegnati nella preghiera e gioiosi nel loro ministero reca frutti non solo nelle vite spirituali dei fedeli, ma anche nelle nuove vocazioni. Tuttavia, ricordate che le vostre lodevoli iniziative per promuovere le vocazioni devono essere accompagnate da una catechesi permanente fra i fedeli sul significato autentico del sacerdozio. Enfatizzate il ruolo indispensabile del sacerdote nella vita della Chiesa, soprattutto nell'offrire l'Eucaristia con la quale la Chiesa stessa riceve la vita. Incoraggiate quanti hanno per compito la formazione dei seminaristi a fare tutto il possibile per preparare una nuova generazione di sacerdoti impegnati e zelanti, ben dotati umanamente, accademicamente e spiritualmente per il compito del ministero nel ventunesimo secolo. 

Di pari passo con un corretto apprezzamento del ruolo del sacerdote va una corretta comprensione della vocazione specifica del laicato. A volte, la tendenza a confondere l'apostolato laicale con il ministero laicale ha portato a una concezione del suo ruolo ecclesiale che guarda all'interno. Tuttavia, secondo la visione del concilio Vaticano II, ovunque i fedeli laici vivano la propria vocazione battesimale, nella famiglia, a casa, sul luogo di lavoro, partecipano attivamente alla missione della Chiesa di santificare il mondo. Una rinnovata attenzione all'apostolato laicale aiuterà a chiarire i ruoli del clero e del laicato e a dare così un forte impulso al compito di evangelizzare la società.

 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/03/2013 12:57

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile (Regione Norte 2) in visita “ad Limina Apostolorum”, 15 aprile 2010

La minore attenzione che a volte si presta al culto del Santissimo Sacramento è indice e causa dell'oscuramento del significato cristiano del mistero, come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore. Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio - secondo "la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati" (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice.

 

Benedetto XVI, Parole nel pranzo con i Membri del Comitato “Vox Clara”, Casina Pio IV, 28 aprile 2010

(...) vi ringrazio per l'opera che Vox Clara ha compiuto negli ultimi otto anni, assistendo e consigliando la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti nell'adempimento delle sue responsabilità relativamente alle traduzioni in inglese di testi liturgici. Si è trattato di un'impresa veramente collegiale. Non solo fra i membri del Comitato sono rappresentati tutti i cinque continenti, ma siete stati assidui nel trarre contributi dalle Conferenze episcopali nei territori anglofoni in tutto il mondo. Vi ringrazio per il grande impegno profuso nel vostro studio delle traduzioni e nell'elaborazione dei risultati delle numerose consultazioni fatte. Ringrazio gli esperti per aver offerto i frutti del loro studio al fine di rendere un servizio alla Chiesa universale. Ringrazio i Superiori e i Funzionari della Congregazione per la loro faticosa opera quotidiana di supervisione della redazione e della traduzione di testi che proclamano la verità della nostra redenzione in Cristo, il Verbo Incarnato di Dio. 

Sant'Agostino ha parlato in modo molto bello del rapporto fra Giovanni Battista, la vox clara che risuonava sulle sponde del Giordano, e la Parola che annunciava. Una voce, diceva, serve a condividere con chi ascolta il messaggio che è già nel cuore di chi parla. Una volta pronunciata la parola, essa è presente nel cuore di entrambi e quindi la voce, dopo aver svolto il suo compito, può svanire (cfr Sermone 293). Accolgo con favore la notizia che la traduzione inglese del Messale Romano sarà presto pronta per la pubblicazione cosicché i testi che avete faticato tanto a preparare possano essere proclamati nella liturgia che si celebra nel mondo anglofono. Attraverso questi testi sacri e le azioni che li accompagnano, Cristo sarà reso presente e attivo fra la sua gente. La voce che ha contribuito a far scaturire queste parole avrà completato il suo compito.

Poi si presenterà un nuovo compito, che non rientra nelle competenze dirette di Vox Clara, ma che, in un modo o nell'altro, coinvolgerà tutti voi, il compito di preparare la ricezione della nuova traduzione da parte del clero e dei fedeli laici. Molti troveranno difficile adattarsi a testi insoliti dopo quasi quarant'anni di uso costante della traduzione precedente. Il cambiamento dovrà essere introdotto con la dovuta sensibilità e l'opportunità di catechesi che esso presenta dovrà essere colta con fermezza. Prego affinché in questo modo venga evitato qualsiasi rischio di confusione o disorientamento e il cambiamento serva invece come trampolino per un rinnovamento e per un approfondimento della devozione eucaristica in tutto il mondo anglofono. 

Cari Fratelli Vescovi, Reverendi Padri, Amici, voglio che sappiate quanto apprezzo il grande sforzo collaborativo al quale avete contribuito. Presto i frutti delle vostre fatiche saranno resi disponibili alle congregazioni anglofone ovunque. Come le preghiere del popolo di Dio stanno davanti a Lui come incenso (cfr Sal 140, 2), che la benedizione del Signore discenda su tutti coloro che hanno impiegato il proprio tempo e la propria esperienza per la redazione dei testi in cui quelle preghiere sono espresse. Grazie, e che possiate essere abbondantemente ripagati per il vostro servizio generoso al popolo di Dio.

Benedetto XVI, Discorso nell'incontro con i vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia, Birmingham, 19 settembre 2010

Infine vorrei parlarvi di due materie specifiche che riguardano in questo tempo il vostro ministero episcopale. Una è l’imminente pubblicazione della nuova traduzione del Messale Romano. In questa circostanza desidero ringraziare tutti voi per il contributo dato, con così minuziosa cura, all’esercizio collegiale nella revisione e nell’approvazione dei testi. Ciò ha fornito un immenso servizio ai cattolici di tutto il mondo anglofono. Vi incoraggio a cogliere l’occasione che questa nuova traduzione offre, per una approfondita catechesi sull’Eucaristia e per una rinnovata devozione nei modi in cui essa viene celebrata. “Quanto più viva è la fede eucaristica nel popolo di Dio, tanto più profonda è la sua partecipazione alla vita ecclesiale che Cristo ha affidato ai suoi discepoli” (Sacramentum caritatis, 6)


Fraternamente CaterinaLD

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21/03/2013 12:58

Liturgia – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale del’Australia in visita “ad limina apostolorum”, 20 ottobre 2011

Infine, come Vescovi siete consapevoli del vostro particolare dovere di preoccuparvi della celebrazione della liturgia. La nuova traduzione del Messale Romano, frutto di un’importante cooperazione tra Santa Sede, Vescovi ed esperti di tutto il mondo, è volta ad arricchire e ad approfondire il sacrificio di lode offerto a Dio dal suo popolo. Aiutate il vostro clero ad accogliere e ad apprezzare ciò che è stato fatto, affinché possa a sua volta assistere i fedeli mentre tutti si adeguano alla nuova traduzione. Come sappiamo, la sacra liturgia e le sue forme sono iscritte profondamente nel cuore di ogni cattolico. Realizzate ogni sforzo necessario per aiutare i catechisti e i musicisti nella loro rispettiva preparazione, per rendere la celebrazione del Rito Romano nelle vostre diocesi un tempo di maggior grazia e bellezza, degno del Signore e spiritualmente edificante per ciascuno. In tal modo, come in tutti i vostri sforzi pastorali, guiderete la Chiesa in Australia verso la sua patria celeste sotto il segno della Croce del Sud.

 

Liturgia – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Discorso a un gruppo di vescovi della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d’America in visita “ad limina apostolorum”, 26 novembre 2011

In questi giorni, la Chiesa negli Stati Uniti sta elaborando la traduzione riveduta del Messale Romano. Sono grato dei vostri sforzi per garantire che questa nuova traduzione ispiri una catechesi permanente che evidenzi la natura autentica della liturgia e, soprattutto, il valore unico del sacrificio salvifico di Cristo per la redenzione del mondo. Un senso indebolito del significato e dell’importanza del culto cristiano può portare soltanto a un senso indebolito della vocazione specifica ed essenziale del laicato che consiste nel permeare l’ordine temporale di spirito evangelico. L’America ha un’orgogliosa tradizione di rispetto per la domenica. Questa eredità deve essere consolidata come esortazione al servizio del Regno di Dio e al rinnovamento del tessuto sociale secondo la sua verità immutabile.

 

Fraternamente CaterinaLD

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21/03/2013 12:59

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Liturgia – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Lectio divina nel Pontificio Seminario Romano Maggiore, 15 febbraio 2012

A che cosa esorta, in questo senso, Paolo? “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (v. 1). “Offrire i vostri corpi”: parla della liturgia, parla di Dio, della priorità di Dio, ma non parla di liturgia come cerimonia, parla di liturgia come vita. Noi stessi, il nostro corpo; noi nel nostro corpo e come corpo dobbiamo essere liturgia. Questa è la novità del Nuovo Testamento, e lo vedremo ancora dopo: Cristo offre se stesso e sostituisce così tutti gli altri sacrifici. E vuole “tirare” noi stessi nella comunione del suo Corpo: il nostro corpo insieme con il suo diventa gloria di Dio, diventa liturgia. Così questa parola “offrire” - in greco parastesai - non è solo un’allegoria; allegoricamente anche la nostra vita sarebbe una liturgia, ma, al contrario, la vera liturgia è quella del nostro corpo, del nostro essere nel Corpo di Cristo, come Cristo stesso ha fatto la liturgia del mondo, la liturgia cosmica, che tende ad attirare a sé tutti.

“Nel vostro corpo, offrire il corpo”: questa parola indica l’uomo nella sua totalità, indivisibile - alla fine - tra anima e corpo, spirito e corpo; nel corpo siamo noi stessi e il corpo animato dall’anima, il corpo stesso, deve essere la realizzazione della nostra adorazione. E pensiamo - forse direi che ognuno di noi poi rifletta su questa parola - che il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita - e non solo alcuni pensieri - siano liturgia, siano adorazione. Paolo poi dice: “Offrire i vostri corpi come sacrifico vivente” (v. 1): la parola greca è logike latreia e appare poi nel Canone Romano, nella Prima Preghiera Eucaristica, “rationabile obsequium”. E’ una definizione nuova del culto, ma preparata sia nell’Antico Testamento, sia nella filosofia greca: sono due fiumi - per così dire - che guidano verso questo punto e si uniscono nella nuova liturgia dei cristiani e di Cristo. Antico Testamento: dall’inizio hanno capito che Dio non ha bisogno di tori, di arieti, di queste cose. Nel Salmo 50 [49], Dio dice: Pensate che io mangi dei tori, che io beva sangue di arieti? Io non ho bisogno di queste cose, non mi piacciono. Io non bevo e non mangio queste cose. Non sono sacrificio per me. Sacrificio è la lode di Dio, se voi venite a me è lode di Dio (cfr vv. 13-15.23). Così la strada dell’Antico Testamento va verso un punto in cui queste cose esteriori, simboli, sostituzioni, scompaiono e l’uomo stesso diventa lode di Dio.

Lo stesso avviene nel mondo della filosofia greca. Anche qui si capisce sempre più che non si può glorificare Dio con queste cose - con animali od offerte -, ma che solo il “logos” dell’uomo, la sua ragione divenuta gloria di Dio, è realmente adorazione, e l’idea è che l’uomo dovrebbe uscire da se stesso e unirsi con il “Logos”, con la grande Ragione del mondo e così essere veramente adorazione. Ma qui manca qualcosa: l’uomo, secondo questa filosofia, dovrebbe lasciare - per così dire - il corpo, spiritualizzarsi; solo lo spirito sarebbe adorazione. Il Cristianesimo, invece, non è semplicemente spiritualizzazione o moralizzazione: è incarnazione, cioè Cristo è il “Logos”, è la Parola incarnata, e Lui ci raccoglie tutti, cosicché in Lui e con Lui, nel suo Corpo, come membri di questo Corpo diventiamo realmente glorificazione di Dio. Teniamo presente questo: da una parte certamente uscire da queste cose materiali per un concetto più spirituale dell’adorazione di Dio, ma arrivare all’incarnazione dello spirito, arrivare al punto in cui il nostro corpo sia riassunto nel Corpo di Cristo e la nostra lode di Dio non sia pura parola, pura attività, ma sia realtà di tutta la nostra vita. Penso che dobbiamo riflettere su questo e pregare Dio, perché ci aiuti affinché lo spirito diventi carne anche in noi, e la carne diventi piena dello Spirito di Dio.

La stessa realtà la troviamo anche nel capitolo quarto del Vangelo di San Giovanni, dove il Signore dice alla samaritana: Non si adorerà in futuro su quel colle o sul quell’altro, con questi o altri riti; si adorerà in spirito e in verità (cfr Gv 4,21-23). Certamente è spiritualizzazione, uscire da questi riti carnali, ma questo spirito, questa verità non è un qualunque spirito astratto: lo spirito è lo Spirito Santo, e la verità è Cristo. Adorare in spirito e verità vuol dire realmente entrare attraverso lo Spirito Santo nel Corpo di Cristo, nella verità dell’essere. E così noi diventiamo verità e diventiamo glorificazione di Dio. Divenire verità in Cristo esige il nostro coinvolgimento totale.

E poi continuiamo: “Santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Secondo versetto: dopo questa definizione fondamentale della nostra vita come liturgia di Dio, incarnazione della Parola in noi, ogni giorno, con Cristo - la Parola incarnata -, san Paolo continua: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare” (v. 2). “Non conformatevi a questo mondo”. C’è un non conformismo del cristiano, che non si fa conformare. Questo non vuol dire che noi vogliamo fuggire dal mondo, che a noi non interessa il mondo; al contrario vogliamo trasformare noi stessi e lasciarci trasformare, trasformando così il mondo. E dobbiamo tenere presente che nel Nuovo Testamento, soprattutto nel Vangelo di San Giovanni, la parola “mondo” ha due significati e indica quindi il problema e la realtà della quale si tratta. Da una parte il “mondo” creato da Dio, amato da Dio, fino al punto di dare se stesso e il suo Figlio per questo mondo; il mondo è creatura di Dio, Dio lo ama e vuol dare se stesso affinché esso sia realmente creazione e risposta al suo amore. Ma c’è anche l’altro concetto del “mondo”, kosmos houtos: il mondo che sta nel male, che sta nel potere del male, che riflette il peccato originale. Vediamo questo potere del male oggi, per esempio, in due grandi poteri, che di per sé stessi sono utili e buoni, ma che sono facilmente abusabili: il potere della finanza e il potere dei media. Ambedue necessari, perché possono essere utili, ma talmente abusabili che spesso diventano il contrario delle loro vere intenzioni.

 

Liturgia – Partecipazione attiva

Benedetto XVI, Messaggio per la chiusura del 50° Congresso Eucaristico Internazionale, Dublino 17 giugno 2012

Il Congresso inoltre si svolge in un periodo in cui la Chiesa in tutto il mondo si prepara a celebrare l’Anno della Fede, per commemorare il 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II, un evento che lanciò il più ampio rinnovamento del Rito Romano mai visto prima. Basato su un apprezzamento sempre più profondo delle fonti della liturgia, il Concilio ha promosso la piena ed attiva partecipazione dei fedeli al Sacrificio eucaristico. Oggi, a distanza di tempo dai desideri espressi dai Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico, e alla luce dell’esperienza universale della Chiesa nel periodo seguente, è chiaro che il risultato è stato molto grande; ma è ugualmente chiaro che vi sono state molte incomprensioni ed irregolarità. Il rinnovamento delle forme esterne, desiderato dai Padri Conciliari, era proteso a rendere più facile l’entrare nell’intima profondità del mistero. Il suo vero scopo era di condurre la gente ad un incontro personale con il Signore, presente nell’Eucaristia, e così al Dio vivente, in modo che, mediante questo contatto con l’amore di Cristo, l’amore reciproco dei suoi fratelli e delle sue sorelle potesse anch’esso crescere. Tuttavia, non raramente, la revisione delle forme liturgiche è rimasta ad un livello esteriore, e la "partecipazione attiva" è stata confusa con l’agire esterno. Pertanto, rimane ancora molto da fare sulla via del vero rinnovamento liturgico. In un mondo cambiato, sempre più fisso sulle cose materiali, dobbiamo imparare a riconoscere di nuovo la presenza misteriosa del Signore Risorto, il solo che può dar respiro e profondità alla nostra vita.

L’Eucaristia è il culto di tutta la Chiesa, ma richiede anche il pieno impegno di ogni singolo cristiano nella missione della Chiesa; contiene un appello ad essere il popolo santo di Dio, ma pure l’appello alla santità individuale; è da celebrarsi con grande gioia e semplicità, ma anche nella maniera più degna e riverente possibile; ci invita a pentirci del nostri peccati, ma anche a perdonare i fratelli e le sorelle; ci unisce insieme nello Spirito, ma anche ci comanda, nello stesso Spirito, di recare la buona novella della salvezza agli altri.

Inoltre, l’Eucaristia è il memoriale del sacrificio di Cristo sulla croce, il suo corpo e il suo sangue offerto nella nuova ed eterna alleanza per la remissione dei peccati e la trasformazione del mondo. L’Irlanda è stata plasmata per secoli dalla Messa al livello più profondo e, dalla sua potenza e grazia, generazioni di monaci, di martiri e di missionari hanno vissuto eroicamente la fede nella propria terra e diffuso la Buona Novella dell’amore e del perdono di Dio ben al di là dei vostri lidi. Siete gli eredi di una Chiesa che è stata una potente forza di bene nel mondo, e che ha offerto a moltissimi altri un amore profondo e duraturo per Cristo e per la sua Santa Madre. I vostri antenati nella Chiesa in Irlanda seppero come impegnarsi per la santità e la coerenza nella vita personale, come predicare la gioia che viene dal Vangelo, come promuovere l’importanza di appartenere alla Chiesa universale in comunione con la Sede di Pietro, e come trasmettere alle generazioni future amore per la fede e le virtù cristiane. La nostra fede cattolica, imbevuta di un senso profondo della presenza di Dio, rapita dalla bellezza della creazione che ci circonda, e purificata mediante la penitenza personale e la consapevolezza del perdono di Dio, è una eredità che sicuramente è perfezionata e nutrita quando è deposta con regolarità sull’altare del Signore nel Sacrificio della Messa. Ringraziamento e gioia per una così grande storia di fede e di amore sono stati di recente scossi in maniera orribile dalla rivelazione di peccati commessi da sacerdoti e persone consacrate nei confronti di persone affidate alle loro cure. Al posto di mostrare ad essi la strada verso Cristo, verso Dio, al posto di dar testimonianza della sua bontà, hanno compiuto abusi su di loro e minato la credibilità del messaggio della Chiesa. Come possiamo spiegare il fatto che persone le quali hanno ricevuto regolarmente il corpo del Signore e confessato i propri peccati nel sacramento della Penitenza abbiano offeso in tale maniera? Rimane un mistero. Eppure evidentemente il loro cristianesimo non veniva più nutrito dall’incontro gioioso con Gesù Cristo: era divenuto semplicemente un’abitudine. L’opera del Concilio aveva in realtà l’intento di superare questa forma di cristianesimo e di riscoprire la fede come una relazione personale profonda con la bontà di Gesù Cristo. Il Congresso Eucaristico ha un simile scopo. Qui desideriamo incontrare il Signore Risorto. Chiediamo a Lui di toccarci nel profondo. Possa Colui che ha alitato sugli Apostoli a Pasqua, comunicando loro il suo Spirito, donare alla stessa maniera anche a noi il suo soffio, la potenza dello Spirito Santo, aiutandoci così a divenire veri testimoni del suo amore, testimoni della sua verità. La sua verità è amore. L’amore di Cristo è verità.   

 



Fraternamente CaterinaLD

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21/03/2013 15:57

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE  

 

Osservanza delle norme liturgiche e ars celebrandi

 

1. La situazione nel post-Concilio

Il Concilio Vaticano II ha ordinato una riforma generale della sacra liturgia[1]. Essa è stata effettuata, dopo la chiusura del Concilio, da una commissione comunemente detta, per brevità, il Consilium[2]. È noto che la riforma liturgica è stata sin dall'inizio oggetto tanto di critiche, a volte radicali, quanto di esaltazioni, in certi casi eccessive. Non è nostra intenzione soffermarci su questo problema. Possiamo invece dire che si è generalmente d'accordo nel notare un forte aumento degli abusi in campo celebrativo dopo il Concilio.

Anche il Magistero recente ha preso atto della situazione e in molti casi ha richiamato alla stretta osservanza delle norme e delle rubriche liturgiche. D'altro canto, le leggi liturgiche stabilite per la forma ordinaria (o di Paolo VI) - quella che, eccezioni a parte, si celebra sempre e dovunque nella Chiesa di oggi - sono molto più "aperte" rispetto al passato. Esse consentono molte eccezioni e diverse applicazioni, e anche prevedono molteplici formulari per i diversi riti (la pluriformità persino aumenta nel passaggio dalla editio typica latina alle versioni nazionali). Nonostante ciò, un gran numero di sacerdoti ritiene di dover ulteriormente ampliare lo spazio lasciato alla "creatività", che si esprime soprattutto con il frequente cambiamento di parole o di intere frasi rispetto a quelle fissate nei libri liturgici, con l'inserimento di "riti" nuovi e spesso del tutto estranei alla tradizione liturgica e teologica della Chiesa e anche con l'uso di paramenti, vasi sacri e arredi che non sempre sono adeguati e, in alcuni casi più rari, rasentano persino il ridicolo. Il liturgista Cesare Giraudo ha sintetizzato la situazione con queste parole:

«Se prima [della riforma liturgica] c'erano fissità, sclerosi di forme, innaturalezza, che rendevano la liturgia di allora una "liturgia di ferro", oggi ci sono naturalezza e spontaneismo, indubbiamente sinceri, ma spesso fraintesi, malintesi, che fanno - o perlomeno rischiano di fare - della liturgia una "liturgia di caucciù", sgusciante, glissante, saponosa, che a volte si esprime in un ostentato affrancamento da ogni normativa rubricale. [...] Questa spontaneità fraintesa, che si identifica di fatto con l'improvvisazione, la faciloneria, il pressappochismo, il permissivismo, è il nuovo "criterio" che affascina innumerevoli operatori della pastorale, sacerdoti e laici.

[...] Non parliamo poi di quei sacerdoti che, talvolta e in taluni luoghi, si arrogano il diritto di utilizzare preghiere eucaristiche selvagge, o di comporne lì per lì il testo o parti di esso»[3].

Papa Giovanni Paolo II, nell'enciclica Ecclesia de Eucharistia, ha manifestato il suo malcontento per gli abusi liturgici che spesso avvengono, particolarmente nella celebrazione della S. Messa, in quanto «l'Eucaristia è un dono troppo grande, per sopportare ambiguità e diminuzioni»[4]. E ha aggiunto:

«Occorre purtroppo lamentare che, soprattutto a partire dagli anni della riforma liturgica post-conciliare, per un malinteso senso di creatività e di adattamento, non sono mancati abusi, che sono stati motivo di sofferenza per molti. Una certa reazione al "formalismo" ha portato qualcuno, specie in alcune regioni, a ritenere non obbliganti le "forme" scelte dalla grande tradizione liturgica della Chiesa e dal suo Magistero e a introdurre innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti.

Sento perciò il dovere di fare un caldo appello perché, nella Celebrazione eucaristica, le norme liturgiche siano osservate con grande fedeltà. Esse sono un'espressione concreta dell'autentica ecclesialità dell'Eucaristia; questo è il loro senso più profondo. La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità nella quale si celebrano i misteri»[5].

2. Cause ed effetti del fenomeno

Il fenomeno della "disobbedienza liturgica" si è talmente esteso, per numero e in certi casi anche per gravità, da formare in molti una mentalità per la quale nella liturgia, fatte salve le parole della consacrazione eucaristica, si potrebbero apportare tutte le modifiche ritenute "pastoralmente" opportune dal sacerdote o dalla comunità. Questa situazione ha indotto lo stesso Giovanni Paolo II a chiedere alla Congregazione per il Culto Divino di preparare un'Istruzione disciplinare sulla Celebrazione dell'Eucaristia, pubblicata col titolo di Redemptionis Sacramentum il 25 marzo 2004. Nella citazione sopra riprodotta della Ecclesia de Eucharistia, si indicava nella reazione al formalismo una delle cause della "disobbedienza liturgica" del nostro tempo. La Redemptionis Sacramentum individua altre cause, tra cui un falso concetto di libertà[6] e l'ignoranza. Quest'ultima in particolare riguarda non solo la non conoscenza delle norme, ma anche una scarsa comprensione del valore storico e teologico di molti testi eucologici e riti: «Gli abusi trovano, infine, molto spesso fondamento nell'ignoranza, giacché per lo più si rigetta ciò di cui non si coglie il senso più profondo, né si conosce l'antichità»[7].

Innestando il tema della fedeltà alle norme in una comprensione teologica e storica, nonché nel contesto dell'ecclesiologia di comunione, l'Istruzione afferma:

«Troppo grande è il Mistero dell'Eucaristia "perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale". [...] Atti arbitrari, infatti, non giovano a un effettivo rinnovamento, ma ledono il giusto diritto dei fedeli all'azione liturgica che è espressione della vita della Chiesa secondo la sua tradizione e la sua disciplina. Inoltre, introducono elementi di deformazione e discordia nella stessa Celebrazione eucaristica che, in modo eminente e per sua natura, mira a significare e realizzare mirabilmente la comunione della vita divina e l'unità del popolo di Dio. Da essi derivano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo del popolo di Dio e, quasi inevitabilmente, reazioni aspre: tutti elementi che nel nostro tempo, in cui la vita cristiana risulta spesso particolarmente difficile in ragione del clima di "secolarizzazione", confondono e rattristano notevolmente molti fedeli.

Tutti i fedeli, invece, godono del diritto di avere una liturgia vera e in particolar modo una celebrazione della Santa Messa che sia così come la Chiesa ha voluto e stabilito, come prescritto nei libri liturgici e dalle altre leggi e norme. Allo stesso modo, il popolo cattolico ha il diritto che si celebri per esso in modo integro il sacrificio della Santa Messa, in piena conformità con la dottrina del Magistero della Chiesa. È, infine, diritto della comunità cattolica che per essa si compia la celebrazione della Santissima Eucaristia in modo tale che appaia come vero sacramento di unità, escludendo completamente ogni genere di difetti e gesti che possano generare divisioni e fazioni nella Chiesa»[8].

Particolarmente significativo in questo testo è il richiamo al diritto dei fedeli di avere la liturgia celebrata secondo le norme universali della Chiesa, nonché la sottolineatura del fatto che trasformazioni e modifiche della liturgia - pur se operate per motivi "pastorali" - non hanno in realtà un effetto positivo in questo campo; al contrario confondono, turbano, stancano e possono perfino far allontanare i fedeli dalla pratica religiosa. 

3. L'ars celebrandi

Ecco i motivi per i quali il Magistero negli ultimi quattro decenni ha richiamato diverse volte i sacerdoti all'importanza dell'ars celebrandi, la quale - se non consiste solo nella perfetta esecuzione dei riti in accordo alle rubriche, ma anche e soprattutto nello spirito di fede e adorazione con cui essi si celebrano - non si può però attuare se ci si discosta dalle norme fissate per la celebrazione[9]. Così si esprime ad esempio il Santo Padre Benedetto XVI:

«Il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del popolo di Dio al Rito sacro è la celebrazione adeguata del Rito stesso. L'ars celebrandi è la migliore condizione per l'actuosa participatio. L'ars celebrandi scaturisce dall'obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cf.1Pt 2,4-5.9)»[10].

Richiamando questi aspetti, non si deve cadere nell'errore di dimenticare i frutti positivi prodotti dal movimento di rinnovamento liturgico. Il problema segnalato, tuttavia, sussiste ed è importante che la soluzione ad esso parta dai sacerdoti, i quali devono impegnarsi innanzitutto a conoscere in maniera approfondita i libri liturgici e anche a metterne fedelmente in pratica le prescrizioni. Solo la conoscenza delle leggi liturgiche e il desiderio di attenersi strettamente ad esse impedirà ulteriori abusi ed "innovazioni" arbitrarie che, se sul momento possono forse emozionare i presenti, in realtà finiscono presto per stancare e deludere. Fatte salve le migliori intenzioni di chi la commette, dopo quarant'anni di esperienza in merito possiamo riconoscere che la "disobbedienza liturgica" non costruisce affatto comunità cristiane migliori, ma al contrario mette in pericolo la solidità della loro fede e della loro appartenenza all'unità della Chiesa Cattolica. Non si può utilizzare il carattere più "aperto" delle nuove norme liturgiche come pretesto per snaturare il culto pubblico della Chiesa:

«Le nuove norme hanno di molto semplificato le formule, i gesti, gli atti liturgici [...]. Ma neppure in questo campo non si deve andare oltre a quello che è stabilito: difatti, così facendo, si spoglierebbe la liturgia dei segni sacri e della sua bellezza, che sono necessari, perché sia veramente attuato nella Comunità cristiana il mistero della salvezza e sia anche compreso sotto il velo delle realtà visibili, attraverso una catechesi appropriata. La riforma liturgica infatti non è sinonimo di desacralizzazione, né vuole essere motivo per quel fenomeno che chiamano la secolarizzazione del mondo. Bisogna perciò conservare ai riti dignità, serietà, sacralità»[11].

Tra le grazie che speriamo di poter ottenere dalla celebrazione dell'Anno Sacerdotale vi è pertanto anche quella di un vero rinnovamento liturgico in seno alla Chiesa, affinché la sacra liturgia sia compresa e vissuta per quello che essa è in realtà: il culto pubblico e integrale del Corpo Mistico di Cristo, Capo e membra, culto di adorazione che glorifica Dio e santifica gli uomini[12].

__________________________________

Note

1) Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 21.

2) Abbreviazione di Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.

3) C. Giraudo, «La costituzione "Sacrosanctum Concilium": il primo grande dono del Vaticano II», in La Civiltà Cattolica (2003/IV), pp. 532; 531.

4) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 10.

5) Ibid., n. 52. Cf. anche Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 28.

6) «Gli abusi non di rado si radicano in un falso concetto di libertà. Dio, però, ci concede in Cristo non quella illusoria libertà in base alla quale facciamo tutto ciò che vogliamo, ma la libertà, per mezzo della quale possiamo fare ciò che è degno e giusto»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 7.

7) Ibid., n. 9.

8) Ibid., nn. 11-12.

9) Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 20: «Per favorire il corretto svolgimento della sacra celebrazione e la partecipazione attiva dei fedeli, i ministri non debbono limitarsi a svolgere il loro servizio con esattezza, secondo le leggi liturgiche, ma debbono comportarsi in modo da inculcare, per mezzo di esso, il senso delle cose sacre».

10) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 38. Si veda il n. 40 che sviluppa adeguatamente il concetto.

11) Sacra Congregazione per il Culto Divino, Liturgicae instaurationes, n. 1. Il testo continua: «L'efficacia delle azioni liturgiche non sta nella ricerca continua di novità rituali, o di ulteriori semplificazioni, ma nell'approfondimento della parola di Dio e del mistero celebrato, la cui presenza è assicurata dall'osservanza dei riti della Chiesa e non da quelli imposti dal gusto personale di un singolo sacerdote. Si tenga presente, poi, che la imposizione di rifacimenti personali dei sacri riti da parte del sacerdote offende la dignità dei fedeli, e apre la via all'individualismo e al personalismo nella celebrazione di azioni che direttamente appartengono a tutta quanta la Chiesa».

12) Cf. Pio XII, Mediator Dei, I, 1; Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 7.

     
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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