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L’anima e lo “stato intermedio”

L'immortalità, che appunto a causa del suo carattere dialogico abbiamo poc'anzi chiamata col nome di 'risveglio alla vita', spetta all'uomo in quanto tale, ad ogni singolo uomo, per cui non è, affatto un dono 'soprannaturale' accordatogli in via secondaria. Resta per altro ancora da chiedersi: che cosa trasforma realmente l'uomo in autentico uomo? E qual è l'elemento che distingue e definisce l'uomo?

Ed ecco ora la risposta obbligata da dare a questa domanda: la componente distintiva dell'uomo è, come testé abbiamo visto, il suo essere chiamato in causa da Dio, ossia il fatto che egli è il diretto interlocutore del dialogo con Dio, l'essere cui Dio ha rivolto il suo appello. Visto dal basso in alto, ciò significa che l'uomo è la creatura capace di pensare Dio, l'essere aperto alla trascendenza. Qui non ci si sta a domandare se egli giunga davvero a pensare Iddio, ad aprirsi effettivamente a lui; si afferma invece che egli è per principio quella creatura, che a ciò è intrinsecamente atta, quand'anche alla prova dei fatti, per qualsiasi motivo, non pervenga forse mai a tradurre in pratica questa sua sublime capacità. Si potrebbe ora obiettare: ma in fin dei conti, non è forse molto più semplice vedere la componente distintiva dell'uomo nel fatto che egli è dotato di un'anima spirituale, immortale? Questa risposta è senz'altro giusta; ma noi stiamo appunto cercando di mettere in luce il suo significato concreto.

Le due affermazioni infatti non si contraddicono, ma si limitano invece solo ad esprimere la stessa cosa sotto due diversi angoli di visuale. In effetti, 'possedere un'anima' spirituale vuol dire precisamente esser tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere un'anima spirituale significa essere una creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. Ciò che noi - usando un linguaggio più accentuatamente sostanziale - designiamo con la frase 'possedere un'anima', viene ora da noi espresso con un linguaggio più spiccatamente storico ed attuale mediante la frase «essere un interlocutore nel dialogo con Dio»
. Con ciò non è detto che l'abituale parlare di anima sia falso (come propende oggi talvolta ad asserire un biblicismo unilaterale e sprovvisto di senso critico); una fraseologia del genere è sovente in un certo senso addirittura necessaria, per esprimere l'intero assunto di cui ci stiamo occupando. Ma d'altra parte essa ha anche bisogno d'integrazione, se non si vuol ricadere in una concezione dualistica incapace di render giustizia alla visione dialogica e personalistica della Bibbia.

Pertanto, quando diciamo che l'immortalità dell'uomo si fonda sulla di lui dialogica polarizzazione su Dio, il cui amore è l'unica forza capace di accordare la vita eterna, non intendiamo affermare un destino peculiare riservato unicamente alle persone buone e pie, bensì porre in evidenza l'essenziale immortalità dell'uomo in quanto tale. Ora, dopo le considerazioni da noi testé fatte, risulta senz'altro possibile sviluppare lo stesso pensiero anche applicandone i dati alla schematica corpo-anima; la cui importanza, per non dire indispensabilità, consiste proprio nel fatto che essa mette a fuoco tale carattere intrinseco dell'immortalità umana. Questa posizione però va continuamente ricollocata nella prospettiva biblica, e corretta in base ad essa, al fine di farla stabilmente servire a quella visione d'insieme che ci è stata aperta dalla fede sul futuro dell'uomo. D'altronde, al punto in cui siamo giunti, risulta ancora una volta chiaro che in definitiva non è possibile fare una netta distinzione fra 'naturale' e 'soprannaturale': il dialogo di fondo, che è il primissimo elemento da cui l'uomo vien costituito nel suo vero stato d'uomo, sfocia senza soluzione di continuità nel dialogo di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo è in tutta realtà il 'secondo Adamo', l'autentico appagamento di quell'infinito anelito che prorompe dal primo Adamo, ossia dall'uomo in genere?...

Se le cose stanno come abbiamo visto, esiste davvero un corpo nato dalla risurrezione, oppure tutto quanto ce ne è stato detto si riduce unicamente ad un linguaggio cifrato, mirante a designare l'immortalità della persona? Ecco il problema che ancora attende da noi una soluzione. Non è affatto un problema nuovo. Già S.Paolo era stato tempestato da interrogativi del genere, come ce lo dimostra il 15° capitolo della I Lettera ai Corinti, in cui l'apostolo si sforza di rispondervi, almeno per quanto risulta possibile fare su uno spinoso punto come questo, che esorbita dai confini della nostra immaginazione e del mondo a noi accessibile. Molte delle immagini usate da S.Paolo per farsi intendere ci sono divenute estranee; ma la sua risposta complessiva resta pur sempre quanto di più grandioso, ardito e convincente sia mai stato detto sull'argomento. Prendiamo le mosse dal versetto 50, che a mio modesto avviso rappresenta una specie di chiave adattissima a far comprendere il tutto: «Quello che affermo, o fratelli, è che né la carne, né il sangue possono ereditare il regno di Dio, né la corruzione può ereditare l'incorruttibilità».

A me sembra che quest'affermazione, nel nostro testo, assuma suppergiù la stessa importante posizione tenuta dal versetto 63 nel 6° capitolo eucaristico del vangelo di S.Giovanni; tanto più che questi due testi, apparentemente così lontani uno dall'altro, in realtà sono molto più vicini di quanto lascerebbe sospettare il primo sguardo. In Giovanni, dopo che è stata ribadita con tutta incisività la presenza reale della carne e del sangue di Gesù nell'eucaristia, si dice testualmente: «È lo spirito che vivifica; la carne non giova a nulla» (Gv5,63). Tanto nel testo giovanneo, quanto in quello paolino, tutto mira a sviluppare il realismo cristiano della 'carne'. In Giovanni vien messo in rilievo il realismo dei sacramenti, ossia il realismo della risurrezione di Gesù e della sua 'carne' che in grazia di essa viene accordata a noi; in Paolo, si tratta invece del realismo della risurrezione della 'carne', della risurrezione dei cristiani e della salvezza che in essa si realizza per noi. Ma in ambedue i capitoli vien anche posto un secco contrappunto che, di fronte ad un realismo meramente intra-mondano, d'impronta quasi fisica, mette in luce il realismo cristiano, visto come realismo che va ben oltre la fisica, come realismo dello Spirito Santo.

Su questo punto, la lingua tedesca (e le lingue moderne in genere N.d.T.) si dimostra ben lontana dalla profondità del greco biblico. In esso, il termine 'sóma' equivale a corpo, ma al contempo anche a 'soggetto'. E tale 'sóma' può indicare tanto il 'sàrx', ossia il corpo inteso in senso storico-terreno, vale a dire fisico-chimico, quanto anche il 'pneuma', che stando ai dizionari bisognerebbe tradurre con 'spirito'; in realtà, l'espressione vuol dire questo: l' 'io' stesso, che ora si presenta in un corpo fisio-chimicamente percettibile, può a sua volta apparire definitivamente sotto l'aspetto d'una realtà ultra-fisica. 'Corpo' e 'spirito', nel linguaggio di S.Paolo, non sono due realtà opposte; le realtà opposte si chiamano invece 'corpo della carne' e 'corpo vivente nello stile dello spirito'. Non occorre che ci accolliamo qui la fatica di sbrogliare i complicati problemi storici e filosofici sollevati da questo modo di considerare le cose. Una cosa dovrebbe comunque risultare per principio chiara: tanto Giovanni (6,53), quanto Paolo (1Cor15,50) sottolineano energicamente che la «risurrezione della carne», la 'risurrezione degli esseri corporei', non è affatto una 'risurrezione dei corpi'. Sicché, guardato con gli occhi della mentalità moderna, l'abbozzo tracciatoci da S.Paolo è molto meno ingenuo della successiva erudizione teologica, con tutte le sue sottili costruzioni incentrate sul problema del come possano esistere corpi eterni. Paolo - ripetiamolo ancora una volta - afferma dottrinalmente non la risurrezione dei corpi, bensì quella delle persone; e facendo poi consistere quest'ultima non nella ricostituzione dei 'corpi di carne', ossia delle strutture biologiche, che egli designa esplicitamente come impossibile («il corruttibile non può diventare incorruttibile»), bensì nella diversità specifica che caratterizza la vita della risurrezione, così come si è presentata esemplarmente a noi nel Signore risorto.

Ma allora, la risurrezione non ha proprio alcun rapporto con la materia?...

La méta agognata dal cristiano non è una beatitudine privata, bensì la realizzazione del tutto. Egli crede in Cristo; crede quindi nel futuro del mondo, non solo nel proprio futuro individuale. Sa molto bene che questo futuro ha una portata assai più vasta di quella che sarebbe in grado di dargli lui da solo. Sa inoltre che l'universo ha un senso, accordatogli dalla suprema Mente, il quale non può essere da lui distrutto. Dovrà forse per questo starsene con le mani in mano? Tutt'al contrario! Siccome sa che tutto ha un senso preciso, può e deve affrontare alacremente e senza indugio alcuno l'opera della storia, quand'anche badando al piccolo settore a lui affidato abbia la sensazione che il suo resti pur sempre un lavoro di Sisifo, e che il masso del destino umano venga continuamente e faticosamente rotolato in alto di generazione in generazione, per poi riscivolare di bel nuovo sempre in basso, rendendo così sistematicamente vane le fatiche fatte in precedenza.

Chi davvero crede, sa che si marcia sempre 'in avanti', non in un circolo vizioso. Chi crede, sa che la storia non assomiglia affatto alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per poi venir continuamente disfatta. Potranno magari piombare anche sul cristiano gli incubi angosciosi e terrificanti dell'inutilità di tutto, dai quali il mondo precristiano è stato portato ad escogitare le sconcertanti immagini dell'angoscia causata dalla sterilità d'ogni agire umano. Ma pur nel suo incubo, penetra la voce salvifica e rianimatrice della suprema realtà: «Fatevi coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv16,33).

(da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969, pp.287-297)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)