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CAPITOLO I. UN INCONTRO INSOLITO

Passione e ragione


"Un tedesco aggressivo, dal portamento fiero, un asceta che porta la croce come una spada".

"Un bavarese rubicondo, dall'apparenza cordiale, che abita in semplicità un piccolo appartamento vicino al Vaticano".

"Un Panzer-Kardinal che non ha mai abbandonato le vesti fastose e la croce pettorale principe di Santa Romana Chiesa".

"Gira solo in giacca e cravatta, spesso guidando lui stesso per Roma una piccola utilitaria: a vederlo nessuno penserebbe che è tra gli uomini più importanti del Vaticano.

Si potrebbe continuare con queste citazioni contraddittorie, tratte da articoli apparsi sui giornali del mondo intero. Sono articoli a commento di alcune primizie (pubblicate nel novembre 1984 sul mensile italiano Jesus e tradotte poi in molte lingue) dei contenuti dell'intervista concessaci dal cardinal Joseph Ratzinger, dal gennaio 1982 Prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede. e, come si sa, l'istituzione vaticana che, fino a vent'anni fa e per quattro secoli, fu detta "Inquisizione Romana e Universale" o "Sant'Uffizio".

Leggendo descrizioni tanto contrastanti dello stesso aspetto fisico del card. Ratzinger, qualche malizioso sospetterà che anche il resto di quei commenti sia piuttosto distante da quell'ideale di "oggettività dell'informazione" di cui discutiamo spesso noi giornalisti nelle nostre assemblee.

Non ci pronunciamo in merito; ci limitiamo a ricordare che in ogni cosa c'è anche un lato positivo.

Nel nostro caso, in queste contraddittorie "trasfigurazioni" subite dal Prefetto della Fede sotto la penna di qualche collega (non di tutti, certo), c'è forse il segno dell'interesse appassionato con il quale è stata accolta l'intervista con il responsabile di una Congregazione il cui riserbo era leggendario, la cui norma suprema era il segreto.

L'avvenimento, in effetti, era davvero insolito. Dandoci alcuni giorni di colloquio, il card. Ratzinger ha concesso quella che è in assoluto la più lunga e completa tra le sue rarissime interviste. Occorre poi considerare che nessun altro nella Chiesa – a parte, ovviamente, il Papa - avrebbe potuto rispondere alle nostre domande con maggiore autorità. La Congregazione per la dottrina della fede è infatti lo strumento per mezzo del quale la Santa Sede promuove l'approfondimento della fede e vigila sulla sua integrità. e, dunque, la depositaria stessa dell'ortodossia cattolica. Non a caso sta al primo posto nell'elenco ufficiale delle Congregazioni della Curia romana; infatti, come scrisse Paolo VI dandole la precedenza su tutte nella riforma postconciliare, "è la Congregazione che tratta le cose più importanti".

Vista dunque la singolarità di una simile intervista del Prefetto della Fede - e visti anche i contenuti, espliciti e franchi al limite della crudezza è ben comprensibile che in alcuni commentatori l'interesse si sia trasformato in passione, in bisogno di schierarsi: pro o contro. Una presa di posizione che ha coinvolto la stessa persona fisica del card. Ratzinger, trasformata in positiva o in negativa dallo stato d'animo del giornalista.

Vacanze da cardinale

Per quel che mi riguarda, di Joseph Ratzinger conoscevo gli scritti ma non lo avevo incontrato che una volta di sfuggita. Il nostro appuntamento era per il 15 agosto 1984 in quella piccola, illustre città che gli italiani chiamano Bressanone e i tedeschi Brixen: una delle capitali di quella terra che è l’Alto Adige per gli uni, Sud Tirol per gli altri; luogo di principi vescovi, di lotte tra papi e imperatori; terra di incontro - e di scontro, oggi come sempre - tra cultura latina e germanica. Un posto quasi simbolico, dunque, anche se non certo scelto apposta. Perché, allora, Bressanone-Brixen?

Qualcuno, forse, pensa ancora ai membri del Sacro Collegio, ai Cardinali di Santa Romana Chiesa come a principi che l'estate si muovono dai loro fastosi palazzi dell'Urbe per andare a villeggiare in qualche luogo di delizie.

Per Sua Eminenza Joseph Ratzinger, Cardinale Prefetto, la realtà è piuttosto diversa. I pochissimi giorni che riesce a strappare alla Roma d'agosto, li passa nella non freschissima conca di Bressanone. Lì non abita in qualche villa od albergo, ma sta nel seminario, che affitta a prezzi economici alcune stanze: la diocesi ne ricava qualche entrata per il mantenimento degli studenti in teologia.

Nei corridoi e nel refettorio dell'antico edificio barocco si incontrano anziani ecclesiastici attirati in quella modesta villeggiatura dalle rette modiche; si incrociano comitive di pellegrini tedeschi e austriaci in tappa nel loro viaggio verso Sud.

Il cardinal Ratzinger sta lì, mangia le semplici cose preparate dalle suore tirolesi, seduto allo stesso tavolo con i preti in villeggiatura. Da solo, senza il segretario tedesco che l'assiste a Roma, con la temporanea compagnia dei familiari che vengono a trovarlo dalla vicina Baviera.

Un suo giovane collaboratore, a Roma, ci ha parlato della intensa dimensione di preghiera con cui contrasta il pericolo di trasformarsi in Grande Burocrate, nel firmatario di decreti che non si curino dell'umanità delle persone coinvolte. "Spesso - ci diceva quel giovane - ci raduna nella cappella del palazzo per una meditazione e una preghiera in comune. C'è in lui un bisogno continuo di radicare il nostro lavoro quotidiano (spesso ingrato, a contatto con la patologia della fede), in un cristianesimo vissuto come servizio al popolo di Dio".

Destra/sinistra; ottimismo/pessimismo

Un uomo, dunque, interamente calato in una dimensione religiosa. Ed è solo ponendosi in questa sua prospettiva che è possibile capire davvero il senso di quanto dice. Da questo punto di vista non hanno più senso quegli schemi (conservatore-progressista; destra-sinistra) che vengono da una dimensione ben diversa, quella delle ideologie politiche, e non sono dunque applicabili alla visione religiosa che, per dirla con Pascal, "è di un altro ordine che supera, in profondità e in altezza, tutti i restanti".

Così, sarebbe fuorviante applicargli un altro schema grossolano (ottimista; pessimista): quanto più l'uomo di fede fa suo l'evento che fonda l'ottimismo per eccellenza - la Risurrezione del Cristo -, tanto più può permettersi il realismo, la lucidità, il coraggio di chiamare i problemi con il loro nome per affrontarli, senza chiudere gli occhi o schermarseli con lenti rosa.

In una conferenza dell'allora teologo professor Ratzinger (era il 1966) troviamo questa conclusione a proposito della situazione della Chiesa e della fede: "Forse vi sareste attesi un quadro più lieto e luminoso. E ce ne sarebbe forse anche motivo, per certi aspetti. Ma mi sembra importante mostrare i due volti di quanto ci ha riempito di gioia e di gratitudine al Concilio, comprendendo così anche l'appello e l'incarico che vi sono contenuti. E mi sembra importante segnalare il pericoloso, nuovo trionfalismo nel quale cadono spesso proprio i denunciatori del trionfalismo passato. Fino a quando la Chiesa è pellegrina sulla terra, non ha diritto di gloriarsi di se stessa. Questo nuovo modo di gloriarsi potrebbe diventare più insidioso di tiare e sedie gestatorie che, comunque, sono ormai motivo più di sorriso che di orgoglio".

Questa sua consapevolezza che "il posto della Chiesa sulla terra, è solo vicino alla croce" non porta certo - per lui -alla rassegnazione ma, anzi, al suo contrario: "Il Concilio - dice - voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a "conservatore" non è "progressista" ma "missionario"".

"Il cristiano - ricorda ancora a chi lo sospettasse di pessimismo - sa che la storia è già salvata, che dunque alla fine lo sbocco sarà positivo. Ma non sappiamo attraverso quali vicende e traversie arriveremo a quel gran finale. Sappiamo che le potenze degli inferi "non prevarranno sulla Chiesa", ma ignoriamo a quali condizioni questo avverrà".

A un certo punto l'ho visto allargare le braccia e indicare la sua unica ricetta davanti a una situazione ecclesiale in cui vede luci ma anche insidie: "Oggi più che mai il Signore ci ha resi consapevoli che Lui soltanto può salvare la Sua Chiesa. Essa è di Cristo, tocca a Lui provvedere. A noi è chiesto di lavorare al massimo delle forze, senza angosce, con la serenità di chi è consapevole di essere servo inutile pur dopo avere fatto tutto il suo dovere. Anche in questo richiamo alla nostra pochezza vedo una delle grazie di questo periodo difficile"."Un periodo - continua - in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell'amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza".

A dire il vero (per quanto vale quella "oggettività dell'informazione" di cui parlavamo) nei giorni passati insieme non mi è parso di scorgere in lui nulla che giustificasse l'immagine di dogmatico, duro Grande Inquisitore che alcuni hanno voluto cucirgli addosso. L'ho visto talvolta amareggiato, ma l'ho anche sentito ridere di gusto, raccontando un aneddoto o commentando una battuta. Al senso dello humour affianca un'altra caratteristica che contrasta anch'essa con lo schema da "inquisitore": la capacità di ascolto, la disponibilità a farsi interrompere dalle domande e la prontezza a rispondere a tutte con estrema franchezza, lasciando che il registratore continui a girare. Un uomo, dunque, lontano dal cliché che vuole il "cardinale di curia" sfuggente e sornionamente diplomatico. Giornalista ormai da molti anni, abituato dunque a ogni genere di interlocutori (alti prelati vaticani compresi), confesso di essermi stupito di trovare una risposta chiara e diretta a ogni mio quesito, anche il più delicato.

Il troppo e il troppo poco

Al giudizio del lettore (quali che siano poi le sue conclusioni) affidiamo dunque le sue affermazioni, come le abbiamo trascritte sforzandoci di essere fedeli a quanto abbiamo sentito.

Non sarà inutile ricordare che i contenuti di questo libro sono stati rivisti dall'interessato che, approvandoli (non solo nell'originale italiano ma anche nelle traduzioni, a cominciare da quella tedesca, normativa per le molte altre), ha dichiarato di riconoscervisi.

Questo diciamo a chi - nei vivacissimi commenti ai preannunci sul giornale - è sembrato insinuare che nell'intervista ci fosse troppo dell'intervistatore. L'approvazione del card. Ratzinger ai testi fa sì che questa non sia "il card. Ratzinger secondo un giornalista", ma "il Ratzinger che, intervistato da un giornalista, ne ha riconosciuto la fedeltà di interpretazione".

Altri - al contrario - hanno sospettato che, nel testo, ci fosse troppo poco di nostro: quasi si fosse trattato di un'operazione "pilotata", di una mossa all'interno di chissà quale complessa strategia, dove il giornalista è ridotto a mero prestanome. Sarà allora bene precisare lo svolgimento dei fatti, nella loro semplice verità. Una generica richiesta di intervista era stata avanzata dagli editori con i quali collaboro. Si diceva che, qualora il cardinale avesse potuto mettere a disposizione non qualche ora, ma qualche giorno, l'articolo previsto per un giornale avrebbe potuto trasformarsi in libro. Dopo qualche tempo, la segreteria del card. Ratzinger ha risposto convocando il giornalista a Bressanone. Qui, il Prefetto si è messo a disposizione dell'intervistatore, senza alcun accordo previo, con la sola condizione della revisione dei testi prima della pubblicazione. Nessun contatto precedente, dunque, e nessun contatto o intervento successivo ma piena fiducia e libertà (nella ovvia fedeltà) per l'estensore del colloquio.

Tra coloro che hanno sospettato un troppo poco ci sono forse anche quelli che ci hanno rimproverato di non essere stati con Joseph Ratzinger abbastanza "polemici", "critici", magari "cattivi". Ma queste obiezioni vengono da chi è fautore di ciò che a noi sembra, semplicemente, del pessimo giornalismo. Il giornalismo, cioè, in cui l'interlocutore non è che un pretesto per permettere al cronista di intervistare se stesso, di esibirsi, facendo risaltare la sua visione delle cose.

Crediamo invece che il servizio vero di noi che ci diciamo "informatori" sia appunto quello di informare i lettori sul punto di vista dell'intervistato, lasciando ai lettori stessi il giudizio. Stimolare l'interlocutore a spiegarsi, dargli voce in ciò che ha da dire: come con ogni altro, così abbiamo cercato di fare anche con il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Non nascondendo però (lo precisiamo a evitare ipocrite declamazioni su impossibili "neutralità") di essere noi stessi coinvolti nell'avventura della Chiesa, in questa svolta della sua storia. Non nascondendo di avere approfittato della occasione per cercare noi stessi di capire che cosa avviene in una dimensione ecclesiale che, seppure laici, ci riguarda però personalmente. Seppure avanzate a nome dei lettori, le domande al cardinale erano dunque anche nostre, rispondevano anche al nostro bisogno di comprendere. È un dovere, ci pare, di chiunque si dice credente; di chiunque si riconosce membro della Chiesa cattolica.


Un teologo e un pastore

È indubbio che, nominando Joseph Ratzinger responsabile dell'ex-Sant'Uffizio, Giovanni Paolo II ha voluto compiere una scelta di "prestigio". Dal 1977, chiamatovi da Paolo VI, era cardinale arcivescovo di una diocesi dal passato illustre e dal presente importante come Monaco di Baviera. Ma il sacerdote messo a sorpresa su quel seggio episcopale era già uno dei più famosi studiosi cattolici, con un posto preciso in ogni storia della teologia contemporanea.

Nato nel 1927 a Marktl-am-Inn, nella diocesi bavarese di Passau, ordinato nel 1951 a Freising (diocesi di Monaco), laureato con una tesi su sant'Agostino e poi docente di teologia dogmatica nelle più celebri università tedesche (Munster, Tubingen, Regensburg), Ratzinger aveva alternato pubblicazioni scientifiche a saggi di alta divulgazione divenuti best-seller in molti Paesi. I critici rilevano nella sua produzione non eruditi interessi settoriali, ma la ricerca globale di quello che i tedeschi chiamano das Wesen, l'essenza stessa della fede e la sua possibilità di confrontarsi con il mondo moderno. Tipica, al proposito, quella sua Einfùhrung in das Christentum, introduzione al cristianesimo, una sorta di classico continuamente ristampato, sul quale si è formata una generazione di chierici e di laici, attirati da un pensiero del tutto "cattolico" e nel contempo del tutto "aperto" al nuovo clima del Vaticano II. Al Concilio, il giovane teologo Ratzinger prese parte come esperto dell'episcopato tedesco, conquistando la stima e la solidarietà di coloro che nella storica assise vedevano una occasione preziosa per adeguare ai tempi la prassi e la pastorale della Chiesa.

Un equilibrato "progressista", insomma, se si vuole usare quello schema deviante di cui parlavamo. In ogni caso - a conferma della sua fama di studioso attento e moderno - nel 1964 il professor Ratzinger è tra i fondatori di quella rivista internazionale Concilium in cui si riunisce la cosiddetta "ala progressista" della teologia. Un gruppo imponente, con il cervello direttivo in un'apposita "Fondazione Concilium" a Nimega, in Olanda, e che può disporre di un mezzo migliaio di collaboratori internazionali, i quali ogni anno producono oltre duemila pagine tradotte in tutte le lingue. Vent'anni fa Joseph Ratzinger era là, tra i fondatori e i direttori di un giornale-istituzione che doveva divenire l'interlocutore assai critico proprio della Congregazione per la dottrina della fede.

Cosa ha significato questa collaborazione per colui che sarebbe poi diventato Prefetto dell'ex-Sant'Ufficio? Un infortunio? Un peccato di gioventù? E che è successo nel frattempo? Una svolta nel suo pensiero? Un "pentimento"?

Glielo chiederò un po' scherzoso, ma la risposta sarà pronta e seria: "Non sono cambiato io, sono cambiati loro. Sin dalle prime riunioni, feci presente ai miei colleghi due esigenze. Primo: il nostro gruppo non doveva essere settario, arrogante, come se noi fossimo la nuova, vera Chiesa, un magistero alternativo con in tasca la verità sul cristianesimo. Secondo: bisognava confrontarsi con la realtà del Vaticano II, con la lettera e con lo spirito autentici del Concilio autentico, non con un immaginario Vaticano III; senza, dunque, fughe solitarie in avanti. Queste esigenze, in seguito, sono state tenute sempre meno presenti sino a una svolta - situabile attorno al 1973 - quando qualcuno cominciò a dire che i testi del Vaticano II non potevano più essere il punto di riferimento della teologia cattolica. Si diceva infatti che il Concilio apparteneva ancora al "momento tradizionale, clericale" della Chiesa e che bisognava dunque superarlo: un semplice punto di partenza, insomma. Ma, in quegli anni, io mi ero già da tempo dimesso, sia dal gruppo di direzione che da quello dei collaboratori. Ho sempre cercato di restare fedele al Vaticano II, questo oggi della Chiesa, senza nostalgie per uno ieri irrimediabilmente passato e senza impazienze per un domani che non è nostro".

Continua, passando dall'astrazione teorica alla concretezza dell'esperienza personale: "Amavo il mio lavoro di insegnante e di studioso. Non ho certo aspirato a essere messo a capo prima dell'arcidiocesi di Monaco, poi della Congregazione per la dottrina della fede. È un servizio pesante che mi ha permesso però di capire, scorrendo ogni giorno i rapporti che da tutto il mondo giungono sul mio tavolo, che cosa sia la preoccupazione per la Chiesa universale. Dalla mia sedia così scomoda (ma che permette almeno di vedere il quadro generale) ho capito che certa "contestazione" di certi teologi è segnata da mentalità tipiche della borghesia opulenta dell'Occidente. La realtà della Chiesa concreta, dell'umile popolo di Dio, è ben diversa da come se la raffigurano in certi laboratori dove si distilla l'utopia".


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)