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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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11/08/2013 19:18

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E’ necessario analizzare bene le diverse forme religiose, nelle loro diversità

La vicenda storica si potrebbe presentare schematicamente come segue:

  • Esperienze primitive
  • Religioni mitiche
  • Triplice uscita dal mito:
    • Mistica
    • Rivoluzione monoteistica
    • Illuminismo

In questo schema di massima si dovrebbe afferrare l’esito a cui può condurre una “critica della ragione storica” in materia di religione... Tra l’idea di una pluralità sconfinata e quella di una altrettanto sconfinata in-distinzione siamo rimandati invece a un numero limitato di strutture, che sono preordinate a un determinato sviluppo spirituale. Inoltre è risultato che l’instaurarsi di un’assolutezza non è, come abitualmente si ritiene, una peculiarità della sola “via monoteistica”, ma è proprio di tutt’e tre le vie sulle quali l’uomo ha abbandonato il mito. Come il “monoteismo” afferma l’assolutezza della chiamata divina da esso udita, così la mistica parte dall’assolutezza della spiritual experience come l’unica cosa davvero reale in tutte le religioni, mentre fa passare tutto quel che è dicibile e formulabile per forme simboliche secondarie e fungibili. Risiede qui il vero e proprio nocciolo del malinteso tra l’uomo di oggi, affascinato dalla teologia dell’in-distinzione della mistica spiritualistica, e il cristianesimo. L’uomo di oggi (manteniamo per ragioni di semplicità questo termine collettivo) è urtato dall’affermazione di assolutezza del cristianesimo, che gli sembra poco credibile di fronte a così tante relatività storiche a lui ben note, si sente molto più compreso e attirato dal simbolismo e dallo spiritualismo di un Radhakrishnan (N.d.C. Presidente della Repubblica Indiana), che insegna la relatività di tutti i messaggi religiosi articolabili e la validità della sola e unica esperienza spirituale mai adeguatamente dicibile, la quale (sebbene si presenti di grado diverso) è, a suo parere, una e la medesima.

Per quanto significativa, questa opzione poggia tuttavia su un cortocircuito.

Infatti, solo in apparenza Radhakrishnan oppone al punto di vista “partigiano” di chi è cristiano una apertura super partes verso tutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da una dottrina dell’assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa; e per il cristianesimo (in genere per ogni tipo di vero e proprio “monoteismo”) la pretesa della sua via non rappresenta una pretesa minore di quella che l’assolutezza cristiana rappresenta per la propria. Infatti, se egli insegna l’assolutezza dell’ineffabile esperienza spirituale e la relatività di tutto il resto, chi è cristiano nega la validità unica ed esclusiva dell’esperienza mistica e insegna l’assolutezza della chiamata divina che s’è fatta udibile in Cristo. In ultima analisi, inculcare per forza a chi è cristiano l’assolutezza della mistica quale sola realtà vincolante costituisce una pretesa non inferiore al sostenere di fronte a chi non è cristiano l’assolutezza di Cristo. Infine, bisognerebbe aggiungere che anche la terza delle vie da noi evidenziate, che abbiamo chiamato “illuminismo”, con cui si potrebbe designare l’emergere di una impostazione basata su una concezione della realtà rigorosamente razionale, ha una sua propria assolutezza: l’assolutezza della conoscenza razionale (“scientifica”). Dove la scienza diviene “visione del mondo” (ed è esattamente questo che dev’essere designato col termine “illuminismo), quest’assolutezza diventa esclusiva, diviene la tesi dell’esclusiva validità del conoscere scientifico e di conseguenza diventa contestazione dell’assolutezza religiosa, che di per sé si colloca su tutt’altro piano.

(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.28-30)

Una grande e rilevante differenza fra le religioni della “mistica dell’in-distinzione” e religioni della “comprensione di Dio come persona” (in un contributo giovanile teologico le aveva chiamate religioni “mistiche” e “monoteistiche”)

L’intento di questo libro... si limita a discutere l’alternativa più fondamentale – a mio parere – tra mistica dell’in-distinzione e mistica dell’amore personale.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.88)

il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io allora – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... Vorrei indicare già qui le fondamentali conclusione sul tema che recentemente ha tirato J.Sudbrack nel suo libro sullo Pseudo-Dionigi Areopagita e sulla storia del suo influsso. Nel misterioso scrittore del VI secolo che si è celato sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita, Sudbrack scorge il più importante costruttore di ponti tra l’Occidente e l’Oriente, tra il personalismo cristiano e la mistica asiatica. Egli formula l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo in questo modo: “Si tratta del dissolversi nell’Uni-totalità o della fiducia originaria in un “tu” infinito, in Dio o qualunque altro sia il nome che si possa dare a quest’entità”. Egli analizza questo problema, secondo la via tracciata da Martin Buber.
Il grande pensatore ebreo, nel 1909, nella sua opera Confessioni estatiche, aveva favorito una specie di mistica dell’unità. Dopo la sua conversione “la rifiutò così radicalmente da proibire la ristampa del libro”. Nella sua nuova visione, “non la fusione per giungere all’unità, ma l’incontro è l’elemento fondamentale dell’umana esperienza dell’Essere”. Egli era giunto a capire che quando si parla di mistica spesso vengono scambiati due tipi di accadimento: “Il primo è l’unificarsi dell’anima, che rende l’uomo idoneo all’opera dello Spirito. L’altro accadimento è quella imprecisabile modalità dello stesso atto del relazionarsi, in cui si immagina che due diventino uno”. Sundbrack richiama poi l’attenzione sul modo in cui Lévinas nella sua filosofia dell’ “altro” ha approfondito queste vedute di Buber. Lévinas considera il risolversi della molteplicità in una unità che tutto assorbe come uno smarrimento del pensiero e come una forma di esperienza spirituale che non va fino in fondo. Per lui l’ “infinità” di Hegel rappresenta l’esempio atto a dissuadere da una tale visione dell’unità. Bisogna opporsi al fatto che nella filosofia e nella mistica dell’in-distinzione il “volto dell’altro”, la cui libertà non può mai divenire un possesso, si dissolva in una “totalità” senza nome. In realtà, secondo lui, soltanto se si punta con fiducia sul libero “rimanere altro” dell’altro, si sperimenta la vera infinità. All’unità fusionale, con la sua tendenza al dissolvimento, dev’essere contrapposta l’esperienza personale: l’unità dell’amore è superiore all’ineffabile in-distinzione.

Horst Bürkle ha mostrato che non si può rinunciare al concetto di persona, decisivo a livello della pratica della vita sociale. “Lo sviluppo dell’induismo dell’età moderna mostra che, anche per l’odierna immagine indiana dell’uomo, questo modo di intendere la persona è irrinunciabile [...]. Nelle Upanishad, l’esperienza dell’in-distinzione, del tat tvam asi [“questo tu sei”] non è in grado di fondare il valore e la dignità permanenti d’ogni singolo uomo. Valore e dignità che non si possono conciliare con l’idea che la vita terrena sia solo una fase transeunte nel ritmo dei successivi gradi di rinascita. Il valore proprio della persona e la sua dignità non si possono mantenere saldi in quanto stadio transitorio e sotto la condizione della loro variabilità [...]. Le riforme dell’induismo nell’epoca moderna, pertanto, prendono le mosse anche, coerentemente, dal problema della dignità umana. La maniera cristiana d’intendere la persona viene assunta nel contesto complessivo dell’induismo senza essere però fondata nel modo d’intendere Dio”. Non sarebbe difficile mostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore e della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati nell’idea di Dio.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.45-47)

Nell’ultimo stadio di tale esperienza, il “mistico” (N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto) non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.32)

L’esperienza vissuta, da cui nella mistica (N.d.C. sempre nel senso precedentemente esposto di religione dell’in-distinzione) tutto dipende, si esprime solo in simboli, il suo nucleo è identico in tutti i tempi. Non è il momento cronologico dell’esperienza vissuta ad essere importante, ma unicamente il suo contenuto, che equivale a un travalicamento e a una relativizzazione di ogni realtà temporale. Al contrario, la chiamata divina, da cui il profeta sa d’essere raggiunto, è databile; ha un “qui” ed “ora”, con essa ha inizio una storia, stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quello che noi chiamiamo storia. Jean Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto, sottolineando a più riprese che il cristianesimo è “essenzialmente fede in un evento”, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno “che si oppone al mondo nel tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia”. La mistica, del resto, condivide questo carattere dell’astoricità con il mito e con le religioni primitive, nelle quali, secondo Mircea Eliade, è tipica “la ribellione contro il tempo concreto, la loro nostalgia d’un periodico ritorno al mitico tempo originario”. D’altronde, qui sarebbe il caso di mettere in rilievo quanto ha di particolare il cristianesimo nell’ambito della via monoteistica, poiché si potrebbe mostrare che solo nel cristianesimo l’impostazione storica è stata seguita in modo del tutto rigoroso, e che quindi solo nel cristianesimo la via monoteistica ha esplicato i suoi effetti in modo davvero autentico.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.38-39)

E’ ancora Jean Daniélou che l’ha riconosciuto con perspicacia. Le sue affermazioni al riguardo meritano di essere abbondantemente citate: “Per il sincretismo [così egli dice. E noi potremmo dire: “per le diverse vie religiose al di fuori della rivoluzione inaugurata dai profeti”], le anime salve sono quelle capaci di interiorità, a qualsiasi religione appartengano. Per il cristianesimo, salve sono quelle che credono, qualunque sia il loro grado di interiorità. Un piccolo fanciullo, un operaio oppresso dal lavoro, se credono, sono superiori ai più grandi asceti. “Noi non siamo grandi personalità religiose, ha meravigliosamente detto Guardiani, “noi siamo i servitori della Parola”. Cristo aveva già detto che san Giovanni Battista poteva essere “il più grande tra i figli degli uomini ma che il più piccolo dei figli del Regno è più grande di lui” (cfr. Lc 7,28). E’ possibile che nel mondo vi siano grandi personalità religiose al di fuori del cristianesimo, è anche possibile persino che le più grandi personalità religiose si trovino al di fuori del cristianesimo: ciò non ha alcuna importanza. Quel che importa è obbedire alla parola di Cristo”...

Mentre nelle religioni mistiche il mistico è “di prima mano” e il credente “di seconda mano”, in assoluto “di prima mano” qui è solo Dio stesso. Gli uomini sono, tutti e ognuno, “di seconda mano”: al servizio della chiamata divina.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.41-42)

Questa situazione può essere colta con particolare evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali di tale teologia, il presbiteriano americano J.Hick, che prende le mosse filosoficamente dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma sempre solo di vederla nel suo apparire attraverso varie “lenti” nel nostro modo di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e proprio, come è in se stessa, ma solo il riflesso nel nostro sistema di misura. Questo approccio, che Hick in un primo tempo aveva tentato di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero (come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma di teocentrismo.
L’identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazaret con il reale stesso, ossia con il Dio vivente, viene respinta ora come una ricaduta nel mito; Gesù viene di proposito relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l’assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, figure ideali che ci rinviano al totalmente Altro, il quale non si può appunto afferrare come tale nella storia. E’ chiaro che con questa tesi anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come incontri reali con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe assolutizzare ciò che è proprio, particolare e travisare perciò l’infinità del Dio totalmente altro.

(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere.

In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche sul piano della religione e dell'etica.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

Nel pensiero di J.Hick, che qui consideriamo in particolare come l’esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la filosofia postmetafisica dell’Europa si collega singolarmente alla teologia negativa dell’Asia, per la quale il divino, in se stesso e svelatamente, non può mai entrare nel mondo dell’apparenza, nel quale viviamo: si mostra solo in riflessi relativi e resta, al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero, nella sua trascendenza assoluta. Queste due filosofie, in sé, sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per la direzione che propongono all’esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell’Europa e dell’America può mutuare dall’India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore reverenziale più nobile di fronte al mistero di Dio e dell’uomo. Viceversa l’appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell’India si ripercuote rafforzando la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra perciò ora imperativo anche per la teologia cristiana in India privare la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di unicità e collocarla quindi sullo steso piano dei miti indiani di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos in assoluto, come non lo è qualsiasi altra figura di salvatore o redentore che appartenga alla storia.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della «conversione» e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del dialogo. Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie concezioni religiose (2). Il dissolvimento relativista della cristologia e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto ciò che si deve evitare.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-tredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo. Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto. La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: «il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia». Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: E’ vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente (N.d.C. da questo tipo di visioni religiose) e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico in quanto resta fondato su di un’unica premessa: “il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia”.

Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i “fedeli” dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma all’adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l’ortoprassi significa, ciò che è dunque un “retto agire”, viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti. Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l’elemento – dossia si riferisce a dóxa, che non veniva certo inteso nel senso di “opinione” (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Dóxa era inteso invece nel senso di “gloria”, “glorificazione”. Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l’Oriente e l’Occidente.

Ma torniamo all’adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui nessuno ha più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto dunque un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell’India. Resta però una cosa: se l’esigenza di un’ortoprassi deve avere un suo significato e non deve servire solo a mascherare l’assenza di un vincolo, vi deve essere allora anche un’ortoprassi comune, riconoscibile da tutti, che vada al di là del discorso generico circa l’incentrarsi sull’Io e il mettersi in relazione con un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine “prassi” può essere adottato in senso etico o politico. L’ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un’etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull’etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sé e ciò che è male in sé. Se si intende ortoprassi in senso politico-sociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.128-129)




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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