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Il vero ecumenismo e l'autentico dialogo interreligioso nel pensiero ed insegnamento di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 11/08/2013 19:49
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Sesso: Femminile
11/08/2013 19:08

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A conti fatti io mi sono dichiarato fortemente contrario a forme di riunificazione superficiali e affrettate ed avevo argomentato dicendo che la divisione non può più essere un’opposizione, ma che deve diventare il postulato di una comprensione reciproca, che è di più che non solo tolleranza: un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. In questo contesto avevo parlato anche di una indistruttibile unità già data.

Vorrei sollevare la questione se una personalizzazione così estrema dell’atto di fede corrisponda realmente alla totalità delle acquisizioni della Riforma; se questo totale rinvio della parola e del sacramento, e così anche della chiesa e del suo ministero spirituale, alla dimensione unicamente umana sia veramente la sua ultima parola. La teologia cattolica sa di trovarsi su solido terreno biblico quando non riferisce esclusivamente al singolo e alla sua coscienza l’azione illuminativa e salutare di Dio, ma sa che Dio agisce proprio anche mediante il Corpo di Cristo. Nulla ci autorizza, secondo la mia convinzione, a rinviare tutto il comunitario nell’unicamente umano e a limitare l’azione propria di Dio unicamente a un intimo contatto di Dio percepito dal singolo eletto. Anzi, del tutto al contrario: l’agire di Dio è sempre un agire divino umano, dunque un agire mediato da un altro uomo (il Dio-uomo Gesù Cristo e la sua corporeità). La sua azione consiste precisamente nel fatto che, nell’incontro con Gesù Cristo, vale il detto paolino “io, ma non più io” (Gal 2,20). L’“ubi et quando visum est Deo” non è più dopo Cristo un ignoto chisadove o chissacome, ma si chiama Cristo, e noi non possiamo voler essere più divini di Dio se egli ha legato in tal modo la sua disponibilità al Corpo di Gesù Cristo. Perciò questo ”ubi et quando visum est Deo” opera per prima cosa quanto segue: che l’uomo viene come estratto dal suo io limitato e riceve un nuovo io, una nuova soggettività, nella comunione con Colui che ha patito per noi e per noi è morto e risorto (mistero della sostituzione vicaria!). Così ogni fede cristiana è sapere unitamente con Lui. L’illuminazione consiste appunto nel fatto che io non sono più solo insieme con un Dio lontano, ma con-vivendo nel Corpo di Cristo attingo io stesso il fondo di ogni realtà, perché è diventato il mio proprio fondamento vitale. L’illuminazione è a un tempo salvezza; poiché mi trasforma, io vedo ora in modo nuovo. Ed essa mi trasforma con il restituirmi il mio io nel noi della comunione dei santi.

La fede, ho detto, è essenzialmente una con-fede insieme con la chiesa come nuovo io più grande. L’“io” dell’“io credo” non è il mio io vecchio, in sé chiuso; è l’io dell’anima ecclesiastica, cioè l’io dell’uomo in cui si esprime tutta la comunità della Chiesa in cui lui vive, che in lui vive e di cui vive. Ma ciò significa anche che l’autorità nella Chiesa non è quella di un capo assoluto e neppure quella di un’autorità democratica. Per essa vale la stessa cosa che per ogni singolo: solo in quanto di fatto riflette la totalità della vera Chiesa, essa è autorità.

(K.Rahner) pensa che “pur riconoscendo una differenza non irrilevante della vita comunitaria nelle comunità cattoliche ed evangeliche in rapporto alla guida delle chiese, tuttavia di fatto anche nelle chiese evangeliche è solitamente presente nelle comunità medie una disponibilità verso l’autorità della chiesa quale è in uso nelle chiese cattoliche”, e che conseguentemente “il pericolo di una ribellione “dal basso” contro le risoluzioni di unione dei capi non si dovrebbe sopravvalutare, se i portatori di questa autorità... si sforzano con sufficiente zelo di ottenere una comprensione per la scelta fatta da parte dei membri delle chiese”.
Io trovo in ogni caso questa posizione inaccettabile. Contro di essa deve protestare non solo un teologo protestante; ma neppure un teologo cristiano la può approvare. Riflette il malinteso illuministico sulla gerarchia, che manipola in modo illecito le coscienze e minaccia chiaramente la tenuta interna della chiesa cattolica. Gerarchia – qui bisogna ricordarlo – non significa sacro dominio, ma sacra origine. Un servizio gerarchico è perciò la custodia di un’origine, che è sacra, non disposizione e decisione autonome. Il ministero ecclesiale e il magistero in genere nella chiesa non è quindi una “guida” nel senso del dominatore illuministico, che si sa in possesso della ragione migliore, la traduce in ordini e conta al riguardo sull’obbedienza dei sudditi, i quali devono accettare la sua ragione e le sue decisioni come una misura voluta per essi da Dio. Il ministero gerarchico non corrisponde neppure a un’istanza democratica, in cui i singoli delegano la loro volontà a dei rappresentanti e si dichiarano in tal modo d’accordo che la volontà della maggioranza deve essere legge. Questa delega e vincolo della volontà di maggioranza non è totalmente senza problemi neppure in campo politico, come si vede nel desiderio crescente di democrazia di base. Ad ogni modo esistono limiti nella delegabilità. Nessun deputato può votare contro la propria coscienza e su certi valori fondamentali della società non si può decidere per via di votazione. Ma nella chiesa, dove c’è davvero chiesa e non un corpo amministrativo, si tratta proprio di quei beni fondamentali che sono sottratti alle nostre votazioni, perché ne rappresentano la direttiva che non è da noi inventata. Per questo motivo l’idea di un concilio delle religioni è una proposta assurda. Chi potrebbe conferire agli eventuali delegati il potere di decidere sulle coscienze dei loro fedeli, o addirittura sulle coscienze di tutti gli uomini in qualche modo religiosi della terra?
Che debbano insorgere simili incongruenze dipende dal fatto (lo dobbiamo riconoscere con vergogna) che anche da noi si è imposta largamente un’idea del potere e del dominio della Chiesa, costruita su modello illuministico, e un’idea del tutto corrispondente del concilio. Ma un concilio non è un parlamento che fa delle leggi alle quali poi le “comunità” si devono adeguare. E’ un luogo di testimonianza. Certo si fonda, per un certo aspetto, sull’idea di rappresentanza. Ma questa rappresentanza non si fonda su una delega delle volontà, bensì sul sacramento. Aver ricevuto il “sacramento dell’ordine” significa: rappresentare la fede di tutta la Chiesa, la “santa origine”; significa essere testimoni della fede della Chiesa. E’ una forma, fondata sulla fede, della vocazione alla “sostituzione vicaria” (Stellvertretung). Dato, però, che questa vicarietà è sacramentale, essa può rappresentare unicamente ciò che è Chiesa, e non operare ciò che essa dovrebbe diventare secondo l’opinione di questi o di quelli (o del rappresentante stesso). Un sacramento è per sua essenza eliminazione dell’arbitrio, del far da sé. Stare nel sacramento significa: vivere dalla radice dell’io nuovo, di cui si è detto poco sopra, e così parlare veramente nel senso della totalità (non nel senso di un’opinione media). Praticamente significa: le affermazioni di fede, che vengono “decise” al concilio, non sono “decisioni” nel senso corrente. L’accordo morale, che per esse è necessario, è per la Chiesa il segno che così si è affermata la fede comune della Chiesa. Non creano qualcosa, ma danno espressione a ciò che già è nella Chiesa del Signore, e lo rendono pubblicamente vincolante in quanto espressione dell’anima ecclesiastica.
Esiste dunque la sola fede della Chiesa in cui e per cui i credenti si riconoscono come membri di essa. Ed esiste perciò un diritto e un dovere della Chiesa di dire chi è colui che non condivide questa fede e che dunque non appartiene ad essa. Ma tutto questo è qualcosa di molto diverso da una decisone di alcuni capi, che dichiarano qualcosa di vero e obbligano gli altri ad accettarlo o almeno a non opporvisi. Bisogna riconoscere che la questione del rapporto intrinseco tra io e noi, tra evidenza di coscienza ed evidenza comune dell’unica fede, che noi possiamo accogliere solamente nella comunione di fede, è lungi dall’essere risolta con chiarezza.

Anche Caietano ha cercato di interpretare il problema dell’esistenza cristiana a partire da questo testo (di Gal2,20). Dall’indissolubile comunione del cristiano con Cristo, descritta in Gal 2,20, “segue che io posso dire in tutta verità: ”Io agisco meritando, ma non io bensì il Cristo opera il merito in me” …. In questo modo il merito della vita eterna viene attribuito non tanto alle nostre opere, quanto piuttosto alle opere di Cristo, del Capo, in noi e attraverso di noi”.

Se le cose stanno così, se nella nebbia generale nessuno vede l’altro e nessuno vede la verità, allora si è in ogni caso verificata la “tolleranza teoretico-conoscitiva”, il fatto cioè che nessuno è in contraddizione con l’altro. Nell’oscurità delle “tendenze alla differenziazione” della nostra cultura resta ancora chiaramente visibile il comandamento di unità di Cristo, il quale comandamento diventa allora, in fondo, l’unico contenuto in qualche modo chiaro. Le “autorità” esistono per dar corso a quest’unità e, dal momento che evidentemente nessuno può giudicare il proprio pensiero, tanto meno quello altrui, non dovrebbe essere proprio difficile un’obbedienza di fronte a questo comandamento.
Ma quale unità è allora un’unità come questa? Un’unità formale senza contenuti chiari non è in fondo nessuna unità, e una semplice congiunzione delle istituzioni non è, in se stessa, un valore. Una unità così concepita è fondata sullo scetticismo comune, non sulla conoscenza comune. Si fonda sulla capitolazione di fronte alla possibilità di avvicinarsi nella verità. E’ fuor di dubbio che una parte non piccola di cristiani d’oggi la pensa così e che una parte dei superiori ecclesiastici opera su questa base. Ma è altrettanto evidente che in questo modo noi non camminiamo verso l’unità. Io vorrei a questo punto riformulare la domanda circa l’autorità nella Chiesa. Un’autorità che serve alla verità, come dovrebbe essere un’autorità nella Chiesa fondata sul sacramento, è un’autorità di obbedienza. Un’autorità fondata sullo scetticismo è un’autorità autonoma. E non si deve forse dire che, spesso, proprio coloro che, dopo il Concilio, si pensano come le punte del progresso, in tutta la loro critica dell’obbedienza presuppongono e impongono come ovvia l’obbedienza dei fedeli, per poter fare della Chiesa ciò che ad essi sembra utile?

Nella divisione, non solo rispettarsi ma amarsi, nella convinzione che noi siamo a vicenda necessari anche nella divisione, che riceviamo l’uno dall’altro, viviamo uno per l’altro, siamo cristiani l’uno insieme con l’altro. La divisione – fino a che il Signore la permette – può essere anche feconda, può portare a una ricchezza maggiore della fede e in tal modo preparare l’una-molteplice Chiesa, che noi non ci sappiamo ancora immaginare, ma nella quale nulla sarà perduto di ciò che di positivo è cresciuto nella storia, dappertutto nel mondo. Forse abbiamo bisogno di separazioni per arrivare a tutta la pienezza che il Signore aspetta.
(da Appendice a Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.119-130)

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10. In effetti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese particolari; per esempio i patriarcati o province metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro, quando l'espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.

11. Si può anche parlare in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come ricordato più sopra, non si può affermare correttamente che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese. Non è semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto una questione di rispetto di una verità fondamentale della fede cattolica: quella dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, c'è un'unica Chiesa, e perciò il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle Chiese particolari.

Di conseguenza, si deve evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di confusione teologica, l'uso di formulazioni quali "le nostre due Chiese" che, se applicate alla Chiesa cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma anche a livello dell'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene in questo modo oscurata.
Infine, si deve anche tenere in mente che l'espressione Chiese sorelle in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato ed un'eucaristia validi.
(Nota sull'espressione "chiese sorelle", 30 giugno 2000, preceduta dallalettera ai presidenti delle Conferenze episcopali: La Chiesa cattolica è "madre", non "sorella")

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INTERVISTA DALL'OSSERVATORE ROMANO:

- Ormai la parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara dimostrazione.


La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserlo.

- Questa questione è stata affrontata dal Concilio Vaticano II?

Il Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse esistono "elementi dì salvezza e verità". Può darsi che il termine "elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e dell'amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.

- Invece Eberhard Jüngel vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione "Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai, Vescovi in comunione con lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna esclusività.

Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l'evento.

- Ma allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi frammenti?

In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.

- Forse è proprio la libertà che spetta al cristiano a far interpretare un tale "patchwork" anche come soggettivismo o individualismo.

La Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che una definizione del genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la fedeltà a Lui. La Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non è un'utopia irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il "subsistit" intende proprio questo: il Signore garantisce l'esistenza della Chiesa contro tutti i nostri errori e i nostri peccati, che senza dubbio e in maniera palese sono presenti in essa. Con il "subsistit" si è voluto dire anche che, sebbene il Signore mantenga la sua promessa, esiste una realtà ecclesiale anche al di fuori della comunità cattolica ed è proprio questa contraddizione la più forte sollecitazione a perseguire l'unità. Se il Concilio avesse voluto dire semplicemente che la Chiesa di Gesù Cristo è anche nella Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità. Il Concilio sarebbe entrato in netta contraddizione con tutta la storia di fede della Chiesa, il che non sarebbe venuto in mente a nessun Padre conciliare.

- Le argomentazioni di Jüngel sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha appena esposto, sia "fuorviante". Infatti secondo la terminologia della Vecchia Chiesa "sussiste" anche l'unico essere divino e non in una sola Persona, ma in tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la seguente: se dunque Dio stesso "sussiste" nella differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo e tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre reciproche alterità, perché ciò non dovrebbe valere anche per la Chiesa che rappresenta il "mysterium trinitatis" nel mondo?

Mi rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel. Prima di tutto bisogna osservare che la Chiesa d'Occidente nella traduzione della formula trinitaria in latino non ha accolto direttamente la formula orientale, nella quale Dio è un essere in tre ipostasi ("sussistenze"), ma ha tradotto la parola ipostasi con il termine "persona" perché in latino la parola sussistenza come tale non esisteva e quindi non sarebbe adeguata per esprimere l'unità e la differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma soprattutto sono molto determinato a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre divinità.

- Insomma, perché non si può paragonare "l'alterità" del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con la diversità delle comunità ecclesiali? Quella di Jüngel non è forse una formula affascinante e piena di armonia?

Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre "Persone" costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo ben preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque intendevano dire che l'essere della Chiesa in quanto tale è un'entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio.

- Facciamo un passo indietro. Colpisce la curiosa semantica a volte presente nei documenti ecclesiali. Lei stesso ha evidenziato che l'espressione "elementi di Verità", che è centrale nello scontro attuale, non è proprio felice. L'espressione elementi di verità non tradisce forse una sorta di concetto chimico di verità? La verità come sistema periodico degli elementi? Ossia: l'idea di poter separare mediante teoremi la verità dalla falsità o dalla verità parziale, non ha un che di prepotente, dal momento che certi teoremi pretendono di ridurre la complessa realtà di Dio a un modello disegnato con il compasso?

La costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano II parla di "parecchi elementi di santificazione e di verità", che si trovano al di fuori dell'organismo visibile della Chiesa (I n. 8); il decreto sull'ecumenismo elenca alcuni di questi elementi: "La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili" (I n. 3). Forse esiste un termine migliore di "elementi", ma il significato reale è chiaro: la vita della fede, al servizio della quale è la Chiesa, è una struttura molteplice e vi si possono distinguere diversi elementi che sono all'interno o anche all'esterno di essa.

- Ciononostante, non deve forse sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi un fenomeno che si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede religiosa?

Per quanto riguarda la fede e il suo essere comprensibile attraverso teoremi, si travisa il Dogma se lo si considera una raccolta di teoremi: il contenuto della fede si esprime nella sua professione, che trova il suo momento privilegiato nell'amministrazione del Sacramento del Battesimo, e che dunque è parte di un processo esistenziale. E' l'espressione di un nuovo orientamento dell'esistenza che però non ci offriamo da soli, ma che riceviamo in dono. Questo nuovo orientamento dell'esistenza significa al contempo uscire dal nostro io e dal nostro individualismo ed entrare in quella comunità di fedeli che si chiama Chiesa. Il punto focale della formula del Battesimo è il riconoscimento del Dio trinitario. Tutti i dogmi successivi non sono altro che precisazioni di questa professione e fanno in modo che il suo orientamento di fondo, il dono di sé al Dio vivente, resti inalterato. Solo quando si interpreta il dogma in questo modo, lo si comprende in maniera giusta.

- Ciò significa che da questa prospettiva spirituale non si giunge più così al contenuto della fede?

No, la fede cristiana ha una sua certezza contenutistica. Non è un'immersione in una dimensione mistico - inesprimibile, nella quale non si arriva mai ai contenuti. Il Dio, nel quale il cristiano crede, ci ha mostrato il suo volto e il suo cuore in Gesù Cristo: si è rivelato a noi. Come ha detto san Paolo, questa concretezza di Dio era già uno scandalo per i Greci e naturalmente lo è ancora oggi. Questo è inevitabile.

- Allora, dopo la pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della "Diversità riconciliata" è ancora valida?

Accetto il concetto di "diversità riconciliata", se con esso non si intende uguaglianza di contenuti ed eliminazione della questione della verità al fine di considerarci una cosa sola, anche se crediamo in cose diverse e le insegniamo. Secondo me questo concetto è utilizzato bene se afferma che noi, nonostante i contrasti che non ci permettono di considerarci meri frammenti di una Chiesa di Gesù Cristo che in realtà non esisterebbe, ci incontriamo nella pace di Cristo riconciliati l'uno con l'altro, ossia quando riconosciamo la nostra divisione come contraddizione alla volontà del Signore e il dolore ci spinge a cercare l'unità e implorare il Signore sapendo che abbiamo tutti bisogno del suo amore.

- Occasionalmente si leggono passaggi del Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della Cristianità in una trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa allora parla di "cause metastoriche" della divisione e nel suo libro "Varcare la soglia della speranza" si chiede: "Non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente". Così la divisione dei cristiani sembra un compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per la conoscenza e l'azione umane è significativa anche una "certa dialettica". Lei stesso scrive: "Anche se le divisioni sono opere umane e colpe umane, esiste in esse una dimensione propria della compagine divina". Se le cose stanno così, ci si chiede con quale diritto si contrasta la didattica divina identificando la Chiesa di Cristo con la Chiesa romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali che si deplorano nel dialogo ecumenico non esistono anche nelle speculazioni della storia della salvezza sulla didattica di Dio?

Questo è un argomento difficile che riguarda la libertà umana e il governo divino. Non esistono risposte valide in maniera assoluta perché noi non oltrepassiamo il nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelare il mistero che lega questi due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre e di me, si potrebbe applicare grossolanamente alla nota formula secondo la quale Dio scrive anche con righe storte. Le righe restano storte e ciò significa che le divisioni hanno a che fare con la colpa umana. La colpa non diventa mai  qualcosa di positivo per il fatto che da essa può derivare un processo di maturazione quando la si interpreta come qualcosa che si può superare con la conversione e eliminare con il perdono.
[SM=g28002] Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal suo insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato produce grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6, 19).
Il fatto che Dio possa trasformare in bene anche i nostri peccati non significa certo che il peccato sia una cosa buona. E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi dalla divisione, non la trasforma in una cosa di per sé positiva.
Le indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono dovute all'inquietante insondabilità del rapporto fra la libertà di peccare e la libertà della grazia. La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che da una parte la Chiesa non affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali antitetici all'interno di un sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la grazia di Dio esiste e sussiste realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di Cristo è la garanzia che questo soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra parte è vero che questo soggetto è ferito, in quanto realtà ecclesiali esistono ed operano al di fuori di esso. In ciò si delinea al massimo il dramma della colpa e l'ampiezza paradossale della promessa di Dio. Se si rimuove questa tensione, per addivenire a formule chiare e si afferma che tutte le comunità ecclesiali sono Chiesa e tutte sono pur con i loro contrasti quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno perché non esiste più alcun motivo per ricercare l'unità autentica.


- La stessa questione si ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della professione religiosa sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché missione, perché lo scontro sulla "verità" e documenti vaticani, se l'uomo alla fine può giungere a Dio attraverso tutte le vie?

Il Documento non riprende assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica, secondo la quale ognuno può divenire santo a suo modo. Questa è un'interpretazione cinica, nella quale io percepisco disprezzo per la questione della verità e della giusta etica. Il Documento afferma con il Concilio che Dio dona luce ad ognuno. Chi cerca la verità si trova obiettivamente sulla via che porta a Cristo e con ciò anche sulla via verso la comunità, nella quale egli rimane presente alla storia, cioè alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la coscienza, purificare il proprio ascolto interiore, queste sono condizioni di salvezza per tutti. In esse esiste un legame intimo e obiettivo con Cristo e con la Chiesa. In questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e preghiere, che possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ma si dice anche che ciò non vale per tutti i riti. Ne esistono infatti alcuni (chiunque conosce un po' di Storia delle Religioni non può che essere d'accordo), che allontanano l'uomo dalla luce. Così la vigilanza e la purificazione interiori si ottengono mediante una vita che segue la coscienza, che aiuta a individuare le differenze, un'apertura che alla fine significa appartenenza interiore a Cristo.
Per questo il Documento può affermare che la missione resta importante in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno bisogno nella loro ricerca della verità e del bene.

- Ma la domanda resta: se la salvezza, purché, come lei ha detto, si viva ascoltando la propria coscienza, si può ottenere mediante tutte le vie, allora la missione non perde urgenza teologica? Infatti, la tesi del "collegamento intimo e obiettivo" di vie di salvezza non cattoliche con Cristo cos'altro significa se non che Cristo stesso rende superflua la distinzione fra verità di salvezza "piena" e "deficitaria", dal momento che Egli, se è presente come strumento di salvezza, lo è sempre e logicamente in modo "pieno"?

[SM=g28002]  Io non ho detto che la salvezza si può ottenere mediante tutte le vie.

La via della coscienza, il tenere lo sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, è una strada unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e di situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità e di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata, ma è necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di superare i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se esistono veramente la verità e il bene. Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se egli non esistesse
. Vivere con gli occhi del cuore aperti, purificarsi interiormente, cercare la luce sono condizioni indispensabili per la salvezza dell'uomo. Annunciare la verità, ossia lasciar risplendere la luce ("non sotto il moggio, ma sul candelabro") è assolutamente necessario.


- A irritare il protestante non è il concetto di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di "Dominus Iesus", in cui si afferma che "bisogna opporsi alla tendenza a leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal Magistero della Chiesa" e a "presupposti che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata". Dice Jüngel: "La rivalutazione inopportuna dell'autorìtà del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna dell'Autorità delle Sacre Scritture".

Forte di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente, insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne deriva semplicemente non esistono. Nel 1928, Adolf von Harnack, nel suo carteggio con Erik Peterson, dichiarò con la sua tipica crudezza che: "Il cosiddetto "principio formale" del vecchio luteranesimo è una impossibilità critica e che al contrario quello cattolico è il migliore". Ernst Käsernann ha dimostrato che il canone delle Sacre Scritture in quanto tale non fonda l'unità della Chiesa, ma la molteplicità delle confessioni. Di recente uno degli esegeti evangelici più importanti, Ulrich Luz, ha mostrato che la "Scrittura da sola" dà adito a tutte le possibili interpretazioni.
Infine, anche nella prima generazione della Riforma si dovette cercare "il centro della Scrittura" per ottenere una chiave di interpretazione che non si riusciva a estrapolare dal testo in quanto tale. Ancora un esempio pratico: nello scontro con Gerd Lüdemann, un professore che negava la risurrezione di Cristo, la sua divinità ecc., si è evidenziato che anche la Chiesa evangelica non può fare a meno di una sorta di Magistero.
Nello sfumare dei contorni della fede in un coro di sforzi esegetici antitetici (esegesi materialista, femminista, liberazionista, ecc.) appare evidente che proprio il rapporto con le professioni di fede, quindi con la tradizione viva della Chiesa, garantisce l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, proteggendole dal soggettivismo e conservandone l'originarietà e l'autenticità. Perciò il Magistero non sminuisce l'autorità delle Sacre Scritture, ma le protegge collocandosi in un posizione inferiore rispetto ad esse e lasciando affiorare la fede che da esse deriva
.


- Quale criterio decisivo per la definizione di "Chiesa sorella" della Chiesa cattolica romana, la Dichiarazione della sua Congregazione indica l'accettazione della "Successione apostolica". Un protestante come Jüngel rifiuta questo principio come non biblico. Per lui successore degli apostoli non è il Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui chi vive secondo le Scritture è successore degli apostoli.

L'affermazione che il Canone sarebbe il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola cose troppo diverse fra loro. Il canone della Scrittura è stato trovato dalla Chiesa in un processo che sarebbe durato fino al quinto secolo. Il canone quindi non esiste senza il ministero dei successori degli apostoli, e nello stesso tempo stabilisce il criterio del loro servizio. La parola scritta non sostituisce i testimoni vivi, così come questi ultimi non possono sostituirsi alla parola scritta. Testimoni vivi e parola scritta rimandano l'uno all'altro. Condividiamo la struttura episcopale della Chiesa come modo per essere in comunione con gli Apostoli, con tutta la Chiesa antica e con le Chiese ortodosse e ciò dovrebbe far riflettere. Quando si afferma che chi vive secondo le Scritture è successore degli Apostoli, non si risponde alla seguente domanda: chi decide che cosa significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si viva effettivamente secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore degli Apostoli non è il Vescovo, bensì il Canone biblico è un chiaro rifiuto del concetto di Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo questo stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una logica che non capisco.

(Intervista al card. J.Ratzinger di Christian Geyer per il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 22 settembre 2000, tradotta da L'Osservatore Romano dell'8 ottobre 2000)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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