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INCONTRI.... con il pensiero di Joseph Ratzinger sull'Escatologia ed altro

Ultimo Aggiornamento: 10/08/2013 23:39
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10/08/2013 22:45

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Purgatorio

La dottrina cattolica del purgatorio ha ricevuto la sua forma ecclesiale definitiva in quei due Concili del Medioevo che intendevano promuovere l’unione con le Chiese orientali; in seguito essa venne formulata ancora una volta in sintesi dal Concilio di Trento, in occasione delle dispute con i movimenti riformatori. Con queste constatazioni è insieme già accennato il suo luogo storico e la sua problematica ecumenica...

Nella dottrina del purgatorio la Chiesa ha conservato qualcosa dell’idea dello “stadio intermedio”: sebbene con la morte la vita dell’uomo è decisa in modo definitivo e irrevocabile (DS 1000), l’uomo non necessariamente deve raggiungere immediatamente il destino definitivo; può anche essere che la scelta di fondo d’un uomo sia in certo qual modo coperta da scelte secondarie e debba essere, per modo di dire, ancora tratta alla luce: è questo lo “stadio intermedio” che nella tradizione occidentale è definito “purgatorio”...

I greci, pur rifiutando la dottrina di una pena e di un’espiazione nell’al di là, condividono però con i Latini l’intercessione per i defunti mediante preghiere, elemosine, opere buone e anzitutto l’offerta dell’Eucarestia per i defunti (Karmiris, 116 s), mentre i riformatori vedono proprio nella “Messa funebre” un attacco contro l’efficacia espiatoria universale della morte in croce del Cristo (cfr. CA XXIV). D’altronde, pure la loro dottrina della giustificazione non lasciava spazio all’espiazione nell’al di là...

La formula più sintetica, più corretta, risulta quella di Trento: “Illuminata dallo Spirito Santo, attingendo dalla Sacra Scrittura e dall’antica tradizione dei Padri, la Chiesa cattolica ha insegnato nei sacri Concili e in ultimo in questa assemblea plenaria: esiste un “luogo di purificazione” (purgatorium) e le anime ivi trattenute trovano aiuto nelle intercessioni dei credenti, ma soprattutto nel sacrificio dell’altare a Dio accetto” (DS 1820). Il Concilio di Trento vi aggiunge inoltre un’esplicita esortazione ai Vescovi a opporsi energicamente a ogni cavillosità, curiosità e superstizione: la protesta dei riformatori contro la prassi corrente e i suoi abusi viene accolta e tradotta in un mandato di riforma; viene respinta la confutazione della dottrina, ottenebrata dagli abusi, e del modo d’agire religioso a essa coordinato.
Le prime radici della dottrina del purgatorio ci rinviano nuovamente, come d’altronde l’intera questione dello “stadio intermedio”, all’ambito arcaico-giudaico; in 2 Mac 12,32-46 (1° sec. a.C.) viene riferito che sui caduti ebraici erano stati trovati degli amuleti pagani, per cui la loro morte venne interpretata come punizione per l’apostasia dalla Legge. Secondo il racconto, si ricorse alla preghiera, “supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”. Inoltre si fece una colletta che venne inviata a Gerusalemme, affinché vi fosse offerto un sacrificio espiatorio. L’autore loda un tale comportamento come espressione della fede nella resurrezione dei morti...

(Il fatto che l’ancoramento ecclesiale dell’uomo non viene interrotto o revocato dalla morte) si fonda sul pensiero paolino-giovanneo (Fi1,21; Gv3,16-21), secondo il quale la vera linea della distinzione non corre tra la vita terrena e la non-vita, bensì tra l’ “essere con Cristo” e l’essere senza di lui o contro di lui. Per cui nel battesimo è avvenuto il passaggio decisivo, il quale, benché divenga definitivo con la morte terrena, può tuttavia continuare ad approfondirsi e purificarsi oltre la soglia della morte nell’attraversare il fuoco del giudizio della vicinanza del Cristo e nell’essere parte della comunità della Chiesa tutta...

Nella nostra conversazione con i Padri avevamo incontrato 1Cor 3,10-15, dove si dice che sul fondamento posto – Gesù Cristo – gli uni costruiscono con oro o con argento oppure con pietre preziose; gli altri con legno, fieno o paglia, ma che “l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno (del Signore) che si manifesterà col fuoco e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”. J.Gnilka ha dimostrato che questo fuoco di verifica indica il Signore stesso che viene, che esso (in riferimento a Is 66,15s) è la “raffigurazione della Maestà di Dio che si manifesta... dell’inavvicinabilità del tutto Santo” (126). Con ciò è liquidata per lui (contro J.Jeremias, in GLNT, II, 378-380) ogni interpretazione nel senso d’un purgatorio; poiché non esiste alcun fuoco: esso è il Signore; non esiste alcun tempo, perché si tratta dell’incontro escatologico con il Giudice; non esiste purificazione, ma unicamente l’affermazione che un simile uomo “sarà salvato a stento” (LThK EV, 51). Proprio accettando questa esegesi, si dovrà sincerarsi nuovamente se la sua impostazione sia giusta, oppure se anche qui il suo metro sia troppo ristretto. Premettendo un concetto semplicistico-oggettivante del purgatorio, non troveremo certamente alcuna risposta al riguardo.

Ma d’altro canto possiamo anche obiettare che, proprio al contrario, il “purgatorio” diviene un concetto specificamente cristiano se lo si intende nel senso cristologico, cioè, che il Signore stesso è il fuoco giudicante, che trasforma l’uomo e lo rende “conforme” al suo Corpo glorificato (cfr. Rom 8,29; Fi3,21). Non consegue forse la vera cristianizzazione dell’immagine arcaico-giudaica del purgatorio proprio dalla conoscenza che la purificazione non avviene tramite un fattore qualsiasi, ma mediante la forza trasformante del Signore, che scioglie e fonde col suo fuoco le catene del nostro cuore e lo rimodella affinché diventi idoneo a essere inserito nell’organismo vivente del suo Corpo? E inoltre, che cosa significa concretamente l’asserzione di Gnilka, che gli uomini verrebbero salvati “a stento”? In che cosa consiste questo “a stento”? Non diviene la sua affermazione mitica se non ci dice nulla circa l’uomo stesso, circa la sua ricerca personale della salvezza, in modo che questo “a stento” non si riferisca a un fattore a lui estraneo, ma invece espressamente alla difficoltà del suo cuore di poca fede di avvicinarsi al fuoco del Signore che lo libererà da se stesso e lo purificherà perché possa ascendere a lui?


Il “momento” trasformante di questo incontro si sottrae alle misure di tempo terrene: esso non è eterno, ma un passaggio; tuttavia volerlo qualificare come molto breve o molto lungo, secondo le misure di tempo derivate dalla fisica, sarebbe altrettanto ingenuo e non farebbe alcuna differenza. La sua “misura di tempo” sta nella profondità degli abissi di questa esistenza, i quali vengono misurati a passi e trasformati nel fuoco. Voler misurare un simile tempo di “esistenza” col metro del tempo terreno significherebbe travisare la particolarità dello spirito umano nel suo rapporto col mondo e nel suo distacco da esso.

Con ciò si è ora chiarita l’interpretazione cristiana della natura del purgatorio: esso non è una sorta di campo di concentramento dell’al di là (come per Tertulliano), dove l’uomo debba espiare delle pene che gli vengono assegnate in un modo più o meno positivistico. Piuttosto, esso è quel processo necessario della trasformazione spirituale dell’uomo, che lo pone in grado di essere vicino al Cristo, vicino a Dio e di unirsi all’intera Communio sanctorum. Chi osservi l’uomo anche solo con un minimo di realismo comprenderà la necessità di un simile processo, nel quale non è che la grazia venga sostituita con le opere, ma la grazia può vincere pienamente come grazia. Ciò che salva è il “sì” alla fede. In realtà però, nella maggior parte di noi questa scelta di fondo è coperta da grandi quantità di fieno, di legna e di paglia; soltanto a fatica essa fa capolino dall’intreccio degli egoismi che l’uomo non è stato capace di rimuovere. Egli riceve sì misericordia, ma dev’essere trasformato. L’incontro con il Signore è questa trasformazione, il fuoco che lo tramuta in quella forma priva di scorie che può diventare recipiente della gioia eterna (cfr Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, 47). Una simile concezione contrasterebbe con la dottrina della grazia solamente qualora la penitenza fosse in contraddizione con la grazia e non la sua forma, la possibilità gratuita che ne scaturisce.

E’ possibile che qualcun altro partecipi al processo estremamente personale dell’incontro con il Cristo, del trasformarsi di un “Io” nel fuoco della sua vicinanza? Non è questo un fatto che si svolge esclusivamente nell’intimo di quel determinato uomo, per cui non consente né sostituzione né rappresentanza? Non si fonda tutta la religiosità riguardante le anime in pena sul fatto che la loro sofferenza viene valutata in base al criterio dell’ “avere”, mentre, secondo le nostre considerazioni, si tratta invece del loro “essere”, ossia di ciò che non è delegabile? A queste obiezioni possiamo replicare che neppure l’essere dell’uomo è una monade chiusa, poiché sia nell’amore sia nell’odio l’uomo è in rapporto con gli altri, il suo essere personale è quindi presente negli altri o come colpa o come grazia. L’uomo non è mai solamente se stesso, o meglio, egli è se stesso soltanto negli altri, con gli altri e mediante gli altri. Se gli altri lo maledicono o lo benedicono, oppure se gli perdonano e tramutano la sua colpa in amore, tutto questo fa parte del suo destino personale. L’affermazione che anche i Santi “giudicano” significa che l’incontro con Cristo è un incontro con l’intero suo Corpo, un incontro della mia colpa nei confronti delle membra sofferenti di questo Corpo con il suo amore, che scaturisce da Cristo e che perdona.

Questa intercessione è l’unico e fondamentale aspetto del “giudicare” dei Santi; proprio perché giudicano, essi, come oranti e salvatori, fanno parte della dottrina del purgatorio e della rispettiva pratica cristiana...

Per il cristiano le possibilità di aiutare e di donare non si estinguono con la morte, ma coinvolgono l’intera Communio sanctorum al di qua come al di là della soglia della morte. Fin dai tempi più remoti, la possibilità e il dovere di un simile amore oltre le tombe sono stati addirittura il principio portante di questo ambito della tradizione, principio che ha trovato una prima chiara espressione in 2 Mac 12, 42-45 (forse già in Sir 7,33). Questo principio di fondo non è nemmeno mai stato fatto oggetto di controversie tra l’Occidente e l’Oriente e fu messo in discussione (certamente a motivo di pratiche in parte gravemente devianti) soltanto dalle confessioni riformate. Forse qui potrebbe essere individuato pure il cammino dell’ecumene, almeno tra l’Oriente e l’Occidente, riguardo al nostro problema: la pratica del “potere e del dovere pregare” è ciò che è veramente primaria; mentre in una unione delle Chiese l’interpretazione del suo corrispondente nell’al di là non ha bisogno di essere stabilita in modo unitario e vincolante, sebbene, come è stato dimostrato, il contenuto e i motivi della dottrina occidentale siano ancorati nella più antica tradizione e in principi centrali della fede.





(da Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, vol.9 della collana diretta da Johann Auer-Joseph Ratzinger, Piccola Dogmatica Cattolica, Assisi, Cittadella Editrice, 1996, pagg.204-245)

[Modificato da Caterina63 10/08/2013 23:10]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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