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Il Gesù Cristo nei preziosi testi di Joseph Ratzinger e poi Benedetto XV

Ultimo Aggiornamento: 26/07/2014 12:41
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26/07/2014 12:31



"È perciò vuoto romanticismo dire: risparmiateci i dogmi, la cristologia, lo Spirito Santo, la Trinità, perché ci basta annunciare Dio Padre e la fraternità tra gli uomini, e questo vivere senza far ricorso a teorie mistiche - questo soltanto sarebbe importante. 
Un'esigenza che potrebbe sembrare legittima; ma su questa via si arriva davvero a conoscere l'essere così complicato che l'uomo è? 
Donde conosciamo che cosa significa essere padri, essere fratelli, in modo tale da poter fondare su questo la nostra fiducia? (..)
L'Apocalisse parla dell'antagonista di Dio, della bestia. 
La bestia, che esercita un potere contrario a quello di Dio, non ha un nome, ma solo un numero.
La bestia è il numero e trasforma in numeri. Dio, invece, ha un nome e chiama per nome. Egli è persona e cerca la persona. Ha un volto e cerca il nostro volto. Ha un cuore e cerca il nostro cuore. Nome significa possibilità di essere interpellati, significa comunione. "

 

"Ai miei confratelli nel venticinquesimo della nostra ordinazione sacerdotale 1951-1976"

 

 

Prefazione (*)

 

Quando nella primavera del 1973 tenni un quaresimale nella chiesa di S. Emmeram a Regensburg, mi venne offerta l'occasione di vagliare, sul piano pratico, alcuni principi che avevo appena sviluppato nel mio volume Dogma und Verkùndigung [Mùnchen 1973; trad. it., Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974].

Il primo e terzo capitolo di questo piccolo libro ripropongono, con alcune modifiche, quelle prediche, riflessioni sul tema che, nell'opera appena ricordata, avevo abbozzato nel capitolo Predicazione di Dio oggi.

Il secondo capitolo contiene invece delle meditazioni che tenni a Friburgo nel periodo dell'Avvento del 1972, una predica del 1975 in occasione del giubileo del concilio di Nicea e una conferenza sul tema della Pasqua che svolsi alla Radio Bavarese. Di questi testi mi sono poi servito per predicare gli esercizi spirituali a Bad Imnau, Colonia (a dei seminaristi) e a Maria Laach; per l'occasione li ristrutturai secondo la forma che qui assumono.

Benché mi renda conto delle carenze che tale processo di formazione inevitabilmente comporta, nutro comunque la speranza di favorire una saldatura fra teologia e spiritualità, ma anche un'assimilazione personale del contenuto nella misura in cui esso risponde alla fede della chiesa.

Pentling, festa dei santi Pietro e Paolo 1976

Joseph Ratzinger

 

1. Dio

 

Dio ha dei nomi

 

Ci ricordiamo ancora di quando Juri Gagarin, ritornando dal suo viaggio nello spazio - il primo nella storia dell'umanità - affermò di non aver visto alcun dio.

Anche per l'ateo meno sprovveduto era ovvio che una simile affermazione non poteva costituire un argomento convincente contro l'esistenza di Dio.

Che Dio non si possa toccare con le mani o osservare con il telescopio, che non abiti sulla luna, su Saturno, su qualche pianeta o nelle stelle, lo si sapeva già, prima che ce lo dicesse Gagarin, a prescindere dal fatto che questo viaggio nello spazio, pur rimanendo un'impresa straordinaria, se riferito ai parametri dell'Universo può venir considerato tutt'al più una breve passeggiata fuori della porta di casa, e le conoscenze che ci ha fatto acquisire sono di gran lunga inferiori a quelle di cui po-tevamo già disporre in base ai nostri calcoli e os-servazioni.

 

Molto più intensa, invece, è la penosa sensa-zione di assenza di Dio che tutti provano ai nostri giorni. La troviamo formulata in un'antica favola ebraica, dove si racconta che il profeta Geremia un giorno riuscì, assieme al figlio, a combinare correttamente alcune lettere e parole così da dare origine a un uomo vivente. Sulla fronte del Golem - l'uomo formatosi da sé - stavano impresse le lettere che avevano consentito di svelare il mistero della creazione: yhwh È LA VERITÀ. Il Golem strappò una delle sette lettere, di cui si compone la frase nella lingua ebraica, mutando così radicalmente il senso dell'iscrizione, che ora suonava: Dio È MORTO.

Inorriditi, il profeta e il figlio gli chiesero che intenzioni mai avesse. La risposta dell'uomo nuovo fu: da quando voi siete in grado di creare l'uomo, Dio è morto .

 

La mia vita è la morte di Dio. Se l'uomo ha ogni potere, Dio non ne ha più alcuno.

 

Questa antichissima storia ebraica, inventata nel Medioevo cristiano, esprime, come in un sogno angoscioso, il dramma dell'uomo dell'età della tecnica. Questi ha ormai ogni potere sul mondo, conosce le sue funzioni e le leggi che ne governano il corso. Il suo sapere è potere: egli è in grado, per così dire, di smontare questo mondo per poi ricomporlo; per lui è un complesso di funzioni, di cui ci si può servire e che si possono piegare al proprio servizio. In un simile mondo, così sotto controllo, non c'è più alcuna possibilità d'intervento di Dio.

L'uomo può trovare aiuto soltanto nel suo simile, perché il potere sul mondo può essere esercitato soltanto dall'uomo. Ma un Dio privato di ogni potere non è più Dio. Se il potere sta soltanto nelle mani dell'uomo, non esiste più alcun Dio.

 

Queste riflessioni evidenziano alcuni aspetti fondamentali del problema della conoscenza umana di Dio. Qui si osserva che questa conoscenza, in ultima analisi, non pone soltanto problemi d'ordine teorico, ma è innanzitutto una questione di prassi vitale. Dipende dal rapporto che l'uomo stabilisce fra sé e il mondo, fra sé e la propria vita. Il problema del potere è soltanto un aspetto, mentre decisioni importanti sono già state prese nella sfera dei rapporti dell'Io con il Tu e con il Noi: nell'esperienza dell'essere-amati o dell'essere- respinti.

Da queste esperienze e decisioni di fondo, nel rapporto dell'Io con il Tu e con il Noi, dipende poi il fatto che l'uomo veda nell'essere-con e nel precedere del Totalmente Altro un concorrente, o un pericolo, oppure il fondamento della nostra fiducia. E da questo dipende anche la possibilità di contestare questo testimone o di accettarlo con rispetto e riconoscenza.

 

Questa idea, che ci riporta alle radici del problema di Dio, e che è lontana dalla discussione sulle prove della sua esistenza, potrebbe venir illustrata un po' di più a partire dalla storia delle religioni. Nella storia religiosa del genere umano, la quale, nelle culture più elevate, coincide con la sua storia spirituale, Dio compare ovunque come l'Essere che ha occhi dappertutto, come il Vedere: un'idea arcaica che viene mantenuta anche nell'immagine dell'occhio di Dio, tramandataci nell'arte cristiana . Dio è Occhio, Dio è Vista. Qui si cela anche una sensazione originaria dell'uomo, quella del sentirsi conosciuto.

Egli sa che una segretezza assoluta non esiste, che la sua vita è sempre esposta allo sguardo di Qualcuno, che il suo vivere è un esser-visto.

 

Nella preghiera di uno dei Salmi più belli dell'Antico Testamento troviamo espressa la convinzione che ha accompagnato l'uomo lungo l'intero corso della sua storia:

 

"Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo.

Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo.

Ti sono note tutte le mie vie;

la mia parola non è ancora sulla lingua

e tu, Signore, già la conosci tutta.

Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano.

Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo.

Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?

Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti.

Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare,

anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra.

Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra

e intorno a me sia la notte»;

nemmeno le tenebre per te sono oscure,

e la notte è chiara come il giorno;

per te le tenebre sono come luce" (Sai 138,1-12).

 

Come abbiamo detto, questa sensazione di esser-visti può suscitare nell'uomo due reazioni opposte. Questo essere-esposto può turbarlo, farlo sentire in pericolo, un essere limitato nel suo stesso ambito vitale. Sensazione che può tramutarsi in irritazione e intensificarsi fino al punto da ingaggiare una lotta appassionata contro il testimone invidioso della sua libertà, della capacità illimitata del suo volere e agire.

Ma può anche dare origine a un atteggiamento contrario: l'uomo che si apre all'amore, in questa presenza che continuamente lo circonda può scorgere il mistero cui aspira tutto il suo essere.

Qui egli potrà cogliere il superamento della propria solitudine, che nessuna creatura umana riuscirà mai a eliminare e che costituisce comunque una vera e propria contraddizione per l'essere che tende al Tu, a essere con l'altro. In questa presenza misteriosa egli può trovare il fondamento di quella fiducia che gli consente di vivere. È questo il luogo in cui trovare risposta al problema di Dio.

Essa dipende dal modo in cui l'uomo considera originariamente la propria vita: se vuole rimanere non-visto, se preferisce restare da solo - «Sarete come Dio!» - oppure se egli, nonostante le sue inadeguatezze, anzi proprio perché essere inadeguato, è invece riconoscente a Colui che riempie e sostiene tutte le sue solitudini.

 

Le ragioni che sostengono l'una o l'altra scelta sono le più diverse. Dipende dalle esperienze di fondo che si fanno con il Tu: se in esso si scorge l'amore o, invece, una minaccia.

E dipende anche dalla figura in cui Dio incontra l'uomo: se nelle vesti di un terribile sorvegliante che medita il momento della condanna, o come l'amore creatore che ci aspetta. Dipende inoltre dalle decisioni attraverso le quali l'uomo accetta o modifica, nel corso della propria vita, le esperienze fatte in passato.

Da queste riflessioni dovrebbe risultare chiara almeno l'impossibilità di dissociare il problema dell'esistenza di Dio da quello di chi o che cosa Dio è.

 

Non si può provare o negare che Dio esiste, per poi chiedersi chi o che cosa egli propriamente sia.

Il contenuto racchiuso nell'idea che l'uomo si fa di Dio decide anche della possibilità o meno che qui si sviluppi una conoscenza, dove però questa conoscenza e questi contenuti sono talmente intrecciati con le decisioni di fondo che connotano la nostra vita umana, restringono o dilatano il nostro raggio di conoscenza, che la pura teoria qui rivela tutta la sua impotenza.

 

Ma chiediamoci: come si mostra il Dio biblico? Chi è propriamente questo Dio? Nella storia biblica della rivelazione, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, di fondamentale importanza si è rivelata sempre l'autopresentazione di Dio a Mosè, così come ci viene descritta in Es. 3.

Qui bisogna anzitutto tenere ben presenti il contesto storico e il luogo in cui Dio si manifesta. Il contesto storico ci è presentato dalla stessa parola di Dio: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (v. 7).

 

Dio si rende garante del diritto. Egli difende i deboli dai potenti. E' questo il suo vero volto. È questo il nucleo della legislazione veterotestamentaria, che mette sotto la protezione personale di Dio la vedova, l'orfano, lo straniero.

E lo ritroviamo anche al centro della predicazione di Gesù, che si è messo dalla parte di quelli che vengono accusati, dei condannati, dei morenti e che, appunto così, li ha posti sotto la protezione di Dio.

In tale contesto rientra anche la sua lotta per il significato del sabato (ne basti un accenno): nell'Antico Testamento il sabato è il giorno della libertà delle creature, il giorno nel quale l'uomo e l'animale, lo schiavo e il padrone riposano. È il giorno in cui viene ripristinata, in mezzo a un mondo dove regnano la disuguaglianza e la schiavitù, la comunione fraterna di tutte le creature. Per un giorno la creazione ritorna al punto di partenza: tutti sono liberi in virtù della libertà di Dio.

L'atteggiamento che Gesù assume nei confronti del sabato si traduce in una lotta non contro il giorno di sabato, ma perché questo giorno riacquisti il suo significato originario: perché sia il giorno della libertà di Dio e non si tramuti, sotto l'influenza dei legulei, nel suo contrario, in un giorno tormentato dall'osservanza di prescrizioni minuziose.

 

Il luogo dell'avvenimento descritto da Es. 3 è il deserto.

Per Mosè, Elia e Gesù, esso è il luogo della vocazione e della preparazione. Se non si esce dall'ingranaggio della vita quotidiana, se non ci si confronta con la potenza della solitudine, non si può fare nessuna esperienza di Dio. Se per quanto concerne il contesto storico diremo che un cuore avido ed egoistico non può conoscere Dio, tenendo conto di questo secondo aspetto dovremo ammettere che Dio non può essere trovato nemmeno da un cuore confuso e distratto.

Ma andiamo al nocciolo del problema.

Dio si presenta a Mosè con un nome che traduce nella formula: «Io sono colui che sono!» .

Questo processo di traduzione è inesauribile.

Tutta la storia di fede che seguirà, fino alla professione di fede in Dio da parte di Gesù, è un'interpretazione continua e rinnovata di queste parole che, in questo modo, acquistano sempre maggior profondità. Ma fin dall'inizio è chiaro che con una simile spiegazione il nome di 'YHWH' si differenzia nettamente da tutti gli altri nomi cui si ricorre per qualificare gli dèi.

Questo non è un nome fra i tanti, poiché colui che lo porta non è uno che possa confondersi con altri.

Il suo nome è mistero, e lo pone in una condizione che non può essere equiparata a quella di qualsiasi altro.

«Io sono colui che sono!»: ciò significa vicinanza, potere sul presente e sul futuro.

Dio non è prigioniero di quel che avviene «dall'eternità»; egli è sempre presenza:

«Io sono».

È contemporaneo a ogni tempo e anteriore a ogni tempo. Posso invocare questo Dio qui e ora: Lui è qui e mi risponde in questo momento. Alcuni secoli più tardi, alla fine del grande esilio, si rivelò decisivo un altro aspetto. Le potenze di questo mondo, che hanno operato meraviglie così grandi e dichiarato morto 'YHWH', vengono detronizzate nel corso di una notte. Sono potenze che passano. Lui, invece, rimane! Egli 'è'. Il suo «Io sono» non significa soltanto presenza di Dio, ma anche la sua stabilità. Mentre tutto passa, egli è oggi, ieri e domani. Eternità non significa passato, ma affidabilità incondizionata, solidità che sempre sostiene. Dio è: questo vale anche per noi, in un tempo in cui si confonde ampiamente ciò che è conforme al tempo con il bene, il moderno con il vero. Ma il tempo non è Dio. Dio è l'eterno, mentre il tempo è un idolo, quando diventa oggetto di venerazione .

Si pone però un altro interrogativo, ancor più generale, più fondamentale: che significa propriamente un «nome di Dio»?

Il fatto che nell'Antico Testamento Dio abbia dei nomi non esprime forse la reminiscenza del mondo politeistico, quando la fede israelitica dovette progressivamente imporre la sua immagine?

 

A favore di questa interpretazione stanno i diversi nomi di Dio che abbondano nei più antichi racconti della tradizione, mentre progressivamente scompaiono nello sviluppo successivo della fede veterotestamentaria; si mantiene il nome di 'YHWH', ma, per rispetto del secondo comandamento, prima di Gesù non lo si pronuncia più da molto tempo.

Il Nuovo Testamento non conosce precisi nomi divini, e nella traduzione greca dell'Antico Testamento il nome di YHWH era stato continuamente sostituito dalla designazione di 'Signore'.

Questo, però, è soltanto un aspetto.

E' vero, i singoli nomi di Dio scompaiono nella misura in cui ci si distanzia dalle posizioni politeistiche; d'altra parte, però, l'idea che Dio abbia un nome gioca un ruolo decisivo proprio del Nuovo Testamento.

Nel cap. 17 del vangelo di Giovanni, che per diversi aspetti può essere considerato il vertice dell'evoluzione della fede neotestamentaria, ricorre quattro volte la locuzione «il nome di Dio».

Il brano principale risulta caratterizzato, nei vv. 6 e 26, dalla confessione di Gesù, il quale attesta di essere stato inviato per rivelare agli uomini il nome di Dio: Gesù appare come il nuovo Mosè che compie e realizza pienamente ciò che era iniziato nel roveto ardente in modo soltanto frammentario e oscuro.

 

Che cosa significa, dunque, il nome di Dio?

 

Lo comprenderemo forse alla luce della contrapposizione che a esso soggiace. L'Apocalisse parla dell'antagonista di Dio, della bestia.

La bestia, che esercita un potere contrario a quello di Dio, non ha un nome, ma solo un numero.

Per il veggente questo suo numero è 666 (13,18). È un numero e rende numeri.

Che cosa significhi lo abbiamo vissuto nei campi di concentramento, orrendi soprattutto perché cancellano il volto, cancellano la storia, trasformano l'uomo in nu-mero, lo riducono a ingranaggio di un'enorme macchina. L'uomo qui non è altro che una funzione.

Oggi non dovremmo mai dimenticare che il campo di concentramento prefigurava la sorte di un mondo che corre il rischio di assumere, se accetta la legge universale della 'macchina', la stessa struttura dei campi di concentramento. Infatti, se non si danno altro che funzioni, anche l'uomo si ridurrà a una funzione. Le macchine che egli ha costruito gli impongono la loro stessa legge.

L'uomo deve poter essere letto dal computer, e ciò è possibile soltanto se egli viene tradotto in numeri. Tutto il resto non conta. Ciò che non è funzione non ha valore alcuno.

La bestia è il numero e trasforma in numeri. Dio, invece, ha un nome e chiama per nome. Egli è persona e cerca la persona. Ha un volto e cerca il nostro volto. Ha un cuore e cerca il nostro cuore. Per Lui noi non siamo una funzione all'interno della grande macchina mondiale. Sono proprio gli individui che non assolvono delle funzioni quelli che egli predilige. Nome significa possibilità di essere interpellati, significa comunione.

 

Per questo motivo Cristo è il vero Mosè, il compimento ultimo della rivelazione del nome. Egli non porta un nome nuovo, ma fa di più: lui stesso è il volto di Dio, è il nome di Dio, la possibilità di invocare Dio come un Tu, come persona, come cuore.

Il nome proprio di Gesù svela il mistero del nome del roveto ardente.

Ora appare chiaro che Dio non aveva detto in modo definitivo il proprio nome e che il suo discorso era stato temporaneamente interrotto. Il Nome di Gesù, infatti, contiene la voce 'YHWH' nella sua forma ebraica e vi aggiunge dell'altro: «Dio salva». Io sono colui che sono, ora, a partire da Gesù, significa: Io sono colui che vi salva.

Il suo essere è redenzione.

 

Oggi, 8 marzo, la chiesa celebra la festa di san Giovanni 'di Dio', la cui istituzione, quella dei 'Fratelli della misericordia (Fatebenefratelli)' svolge anche ai nostri giorni un'attività a favore degli ammalati. Fin dall'istante della sua conversione, quest'uomo ha vissuto la propria vita consumandosi interamente a favore degli altri: dei sofferenti e dei reietti, e anche per i più poveri di allora, i malati di mente e le prostitute, ai quali cercò di rendere possibile un nuovo modo di vivere. Leggendo le sue lettere avvertiamo immediatamente la passione in cui quest'uomo si consumò per alleviare le sofferenze degli oppressi.

«Sto lavorando oberato dai debiti e sono prigioniero per amore di Cristo. Così carico di debiti che spesso non ho neppure il coraggio di varcare la soglia di casa, per paura delle ingiunzioni di pagamento. La mia più grande afflizione sta nel vedere tanti fratelli e prossimi soffrire oltre ogni limite, osservare la miseria che li opprime nel corpo o nell'anima, e non poterli aiutare. Ma io edifico su Cristo, poiché è lui che conosce il mio cuore» .

 

A me sembra davvero profondamente sensato che a quest'uomo sia stato dato l'appellativo 'di Dio'. E in realtà, in questa vita che si consumò per gli uomini appare chiaramente chi Dio è: il Dio del roveto ardente, il Dio di Gesù Cristo, colui che è il diritto di chi è privato di ogni diritto, l'eterno e vicino a noi che ha un nome e dà nome.

Potessimo anche noi essere sempre di più 'di Dio', per conoscerlo in modo sempre più approfondito e aiutare anche i nostri simili a giungere alla sua conoscenza.

 








Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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