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Il Gesù Cristo nei preziosi testi di Joseph Ratzinger e poi Benedetto XV

Ultimo Aggiornamento: 26/07/2014 12:41
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17/04/2013 19:44

[SM=g28004]  Il Cristo della fede è il Gesù della storia


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Nel 2012 Benedetto XVI ha finalmente concluso e pubblicato la terza e ultima parte della sua opera su Gesù: complessivamente circa un migliaio di pagine, scritte dal 2003 nel corso di un decennio. Un fatto eccezionale e senza paragoni nella storia del papato, come del resto specularmente singolare nella successione dei Pontefici è il profilo di Joseph Ratzinger, che ha dedicato gran parte dei primi cinquant'anni di vita allo studio e all'insegnamento universitari.
 E il profilo è quello di un teologo che conosce bene la tradizione cristiana ed è molto attento alla storia, un intellettuale che anche nei decenni successivi mai ha in realtà abbandonato la lettura e la ricerca, nonostante gli impegni crescenti e gravosissimi come vescovo, quindi come responsabile per quasi un quarto di secolo dell'organismo dottrinale della Santa Sede, infine come Papa.

 L'impatto mondiale dei tre libri, dal punto di vista mediatico e nel successo riscontrato tra i lettori, è stato di conseguenza notevole, anche se un po' in ombra sono rimaste l'intenzione e la portata dell'opera.

 A dichiararle esplicitamente, oltre ovviamente le tre premesse (in particolare la prima, che è quella di maggior peso e respiro), è il primo capitolo dell'ultimo libro, dedicato ai vangeli canonici dell'infanzia e che l'autore presenta come una sorta di breve prologo all'intera opera. Si tratta infatti di un piccolo libro scritto alla fine di una lunga ricerca e dove, oltre alla spiegazione dei testi evangelici, si ritrovano le riflessioni conclusive dell'autore. Un autore che ha il dono, unanimemente riconosciuto, dell'essenzialità e della chiarezza messe al servizio della volontà di parlare a tutti.
 
Ebbene, il terzo volume si apre con il richiamo -- quasi un flashback nella narrazione complessiva che era iniziata dal battesimo, e dunque dall'inizio della vita pubblica del maestro di Nazaret -- a una scena del racconto giovanneo delle ultime ore di Gesù, condotto di fronte a Pilato: «Di dove sei tu?» (19, 9) gli chiede il rappresentante del potere di Roma. L'interrogativo viene subito dopo accostato a quello di alcuni abitanti di Nazaret, secondo la narrazione di Marco: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?» (6, 3). Al cuore di tutta l'opera è dunque la domanda sulla persona di Gesù posta nei due brani evangelici da chi vede in lui soltanto un uomo ma al tempo stesso sembra intuire oscuramente altro.


 A questa domanda, ricorrente nei secoli, l'autore ha voluto rispondere con il trittico su Gesù di Nazaret, per oltre tre quarti elaborato e scritto durante (e nonostante) l'immane carico del pontificato. Con la precisazione rivelatrice -- nella fondamentale premessa al primo volume (2007), quello che segue appunto le narrazioni evangeliche dal battesimo nel Giordano sino alla trasfigurazione -- di essere «giunto dopo un lungo cammino interiore» a scrivere quest'opera.
 E nella premessa al secondo volume (2011), che segue i racconti evangelici dall'ingresso in Gerusalemme sino alla Risurrezione, aggiunge di sperare «che mi sia stato dato di avvicinarmi alla figura del nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli», fino ad augurarsi, nella terza premessa, di potere in questo modo «aiutare molte persone nel loro cammino verso e con Gesù». Un'opera dunque di riflessione spirituale?

 Certo questa dimensione è esplicitata e presente nelle mille pagine, firmate «Joseph Ratzinger Benedetto XVI» per sottolinearne il carattere di ricerca personale, che di per sé non impegna l'autorità del Pontefice (anche se la distinzione, chiarissima, è sottile e obiettivamente non facile).

 Ma non solo di questo si tratta, come appare con evidenza nella prima premessa. Questa infatti evoca la tensione tra i due classici poli della ricerca scientifica sulla vita di Gesù, in corso ormai da oltre due secoli. In altre parole, della figura storica del predicatore giudeo vissuto al tempo degli imperatori romani Augusto e Tiberio quanto è conservato nell'immagine che si ricava dai primi scritti dei suoi seguaci, soprattutto dai vangeli canonici? La questione riguarda dunque, secondo uno schema ormai classico, il rapporto che intercorre tra “il Gesù della storia” e “il Cristo della fede”: due dimensioni che sempre più sono state allontanate tra loro da alcune tendenze diffuse nella ricerca durante il Novecento dopo Rudolf Bultmann, sino ad arrivare a una divaricazione che finisce per mettere in dubbio e svalutare storicamente le fonti evangeliche. Un nodo decisivo, come si vede, che Ratzinger affronta sin dall'inizio direttamente.
 
L'opera si propone in definitiva di esaminare la questione, semplice e radicale, dell'immagine del predicatore di Nazaret presente nel complesso degli scritti neotestamentari. Cos'è successo nel ventennio tra la sua crocifissione e la cristologia attestata nelle lettere di Paolo?
A questo interrogativo l'autore replica: «Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?».
L'autore risponde di sì a questa domanda, rovesciando la tesi secondo la quale la cristologia alta (come quella, per intendersi, espressa dal vangelo di Giovanni) sia frutto di un'elaborazione teologica successiva delle comunità cristiane, e si dichiara del tutto persuaso che il Gesù dei vangeli -- quello che la ricerca novecentesca ha denominato appunto “il Cristo della fede” -- coincida con il Gesù storico: «Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù -- quello dei Vangeli -- sia una figura storicamente sensata e convincente».


 L'insistenza sulla storia porta Ratzinger nella seconda premessa a specificare di non avere «tentato di scrivere una cristologia», aggiungendo di avere avuto l'intenzione di «trovare il Gesù reale, a partire dal quale, soltanto, diventa possibile qualcosa come una “cristologia dal basso”. Il “Gesù storico”, come appare nella corrente principale dell'esegesi critica sulla base dei suoi presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica: è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui». Fino all'affermazione, nella terza premessa, che «non basta lasciare il testo nel passato» perché davanti «a un testo come quello biblico, il cui ultimo e più profondo autore, secondo la nostra fede, è Dio stesso, la domanda circa il rapporto del passato con il presente fa immancabilmente parte della stessa interpretazione. Con ciò la serietà della ricerca storica non viene diminuita, ma aumentata».

 Al cuore delle preoccupazioni di Benedetto XVI -- che anche in quest'opera si dimostra nello stesso tempo teologo rigorosamente attento alla storia e pastore sapiente -- vi sono ancora una volta la credibilità della fede e la sua compatibilità con la ragione. Che tuttavia non coincidono, anche se la ragione non è nemica di quel cuore da cui è nata l'opera.

Continua infatti Ratzinger, con lucida consapevolezza metodologica, nella prima premessa: «Naturalmente, credere che proprio come uomo egli era Dio e che abbia fatto conoscere questo velatamente nelle parabole e tuttavia in un modo sempre più chiaro, va al di là delle possibilità del metodo storico. Al contrario, se alla luce di questa convinzione di fede si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che è più grande, essi si schiudono, per mostrare una via e una figura che sono degne di fede». Per il Papa, dunque, se la prospettiva della fede è ben distinta da quella della storia, al tempo stesso la prima non è in contrasto con la seconda, e anzi i due punti di vista si arricchiscono l'uno con l'altro.


 Nella seconda premessa Benedetto XVI torna sull'esegesi storico-critica. Il Papa accenna con soddisfazione alle prime reazioni di fronte al suo primo volume e al «fatto che la discussione sul metodo e sull'ermeneutica dell'esegesi come pure sull'esegesi quale disciplina storica e al contempo teologica sta diventando più vivace, nonostante non poche resistenze nei confronti di nuovi passi».
Dopo la pubblicazione del primo volume si è scritto che Ratzinger dimostrerebbe sufficienza, o addirittura avrebbe un atteggiamento liquidatorio, nei confronti dell'esegesi storico-critica, ma nella prima premessa il Papa manifesta «grande riconoscenza» nei suoi confronti, definendola «una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico» e come un metodo «indispensabile a partire dalla struttura della fede cristiana».


 Anche se il Papa ne sottolinea i limiti perché «i singoli testi biblici rimandano in qualche modo al processo vitale dell'unica Scrittura, che si attua in essi». In altre parole, questi testi «vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo. Nella rilettura, nella lettura progrediente, mediante correzioni, approfondimenti e ampliamenti taciti, la formazione della Scrittura si configura come un processo della parola».

In questa prospettiva la Bibbia viene meglio compresa dalla “esegesi canonica”, che si è sviluppata in America soprattutto negli anni Ottanta del Novecento con la caratteristica di leggere e interpretare i testi scritturistici tenendo conto del loro insieme come si articola nei canoni all'interno dell'ebraismo e del cristianesimo. Ratzinger la definisce «lettura dei singoli testi della Bibbia nel quadro della sua interezza», e sottolinea che si tratta di «una dimensione essenziale dell'esegesi che non è in contraddizione con il metodo storico-critico, ma lo sviluppa in maniera organica e lo fa divenire vera e propria teologia».


 Insomma, fede e storia s'intrecciano nell'opera del Papa su Gesù, tenendo insieme cuore e ragione e interpellando chi legge, come sintetizza efficacemente la terza premessa: «È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo?».
Dense e al tempo stesso scorrevoli (anche per la scelta di rinunciare del tutto alle note), le mille pagine traboccano di temi e sono suscettibili di letture a diversi livelli. Con molte accentuazioni e affermazioni importanti che avranno certo seguito.
Tra queste, la costante attenzione al giudaismo del tempo di Gesù, l'evidente interesse per un rapporto sempre più profondo con l'ebraismo contemporaneo, l'apertura ecumenica, la visione d'insieme dei vangeli con la valorizzazione evidente e significativa di quello giovanneo, il dialogo con l'esegesi contemporanea cattolica e protestante. Anche se nell'opera cattura e affascina con evidente immediatezza il coinvolgimento personale dell'autore.

Che già Johann Albrecht Bengel -- il pietista luterano svevo che nella prima metà del Settecento fu tra i fondatori della critica testuale neotestamentaria -- raccomandava in un trasparente latino: Te totum applica ad textum, rem totam applica ad te.

 


(L'Osservatore Romano 17 aprile 2013)


[Modificato da Caterina63 17/04/2013 19:46]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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31/10/2013 12:20





Vaticano
Il sacramento dell’ordine negli studi di Joseph Ratzinger. Oltre la crisi verso il rinnovamento

L'Osservatore Romano

Pastore e teologo.
Anticipiamo stralci della relazione che l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, tiene nel pomeriggio del 30 ottobre a Palermo, nella Facoltà Teologica di Sicilia San Giovanni evangelista, nell’incontro «Joseph Ratzinger pastore e teologo».
Nell’occasione viene presentato il volume dodicesimo dell’opera omnia di Ratzinger Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia. Teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine curato dallo stesso arcivescovo (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pagine 990).

(Gerhard Ludwig Muller) Se Cristo, per mezzo della sua risurrezione, ha superato la più grande crisi mai esistita della fede — la crisi pre-pasquale dei discepoli — e, in particolare, la crisi della missione e della potestà apostolica, e dunque anche del sacerdozio cattolico, allora, è proprio e soltanto nel nostro sguardo rivolto al Signore che è possibile superare anche tutte le crisi storiche del sacerdozio.
Corrispondendo al suo sguardo su di noi e sul nostro sacerdozio, con il nostro sguardo rivolto a Lui, fissando i nostri occhi in quelli del Sommo sacerdote, crocifisso e risorto, possiamo superare ogni ostacolo e difficoltà.
Penso in particolare alla crisi della dottrina del sacerdozio, avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale fra il sacerdozio ordinato e quello comune di tutti i fedeli. E poi alla crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo ed esplosa dopo il concilio Vaticano II, delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo. Joseph Ratzinger, nell’ampio volume Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia — il dodicesimo dell’opera omnia — ha suggerito un superamento di queste crisi con una proposta ad alto livello teologico, donandoci una guida per favorire un rinnovamento del sacerdozio sacramentale istituito da Cristo.
Gli studi scientifici, le meditazioni e le omelie sul servizio episcopale, presbiterale/sacerdotale e diaconale, contenute in questo volume, abbracciano un lasso di tempo di quasi cinquant’anni, a partire dagli anni immediatamente precedenti l’inizio del Vaticano II.

A questo avvenimento, che è stato quello che più ha segnato la storia recente della Chiesa, molti associano, a seconda della rispettiva posizione, l’inizio di una trasformazione conforme allo spirito del tempo, ovvero l’inizio di una profonda crisi della Chiesa e in particolare del sacerdozio.
Il concilio ha inquadrato la costituzione gerarchica della Chiesa — la quale si dispiega nei differenti compiti del vescovo, del sacerdote e del diacono — in un’ecclesiologia di ampio respiro, rinnovata a partire dalle fonti bibliche e patristiche (cfr. Lumen gentium, 18-29). Le affermazioni sui gradi dell’episcopato e del presbiterato vennero approfondite nei decreti Christus Dominus e Presbyterorum ordinis.

In tal modo, il concilio ha cercato di riaprire una nuova strada verso l’autentica comprensione dell’identità del sacerdozio. Perché mai si giunse allora, all’indomani del concilio, a una sua crisi d’identità, paragonabile storicamente solo con le conseguenze della Riforma protestante del XVI secolo?

Nella parte a) del libro, dal titolo «Teologia del sacramento dell’ordine», Joseph Ratzinger intende rispondere anche a questa domanda e mostra, con afflato positivo, sia il fondamento biblico che il conseguente sviluppo storico-dogmatico del sacramento dell’ordine.

Nella parte b), il lettore troverà, sotto il titolo «Servitori della vostra gioia», una raccolta di meditazioni sulla spiritualità sacerdotale. Tale titolo riprende le parole che il novello sacerdote Joseph Ratzinger pose sull’immaginetta-ricordo della sua prima messa.

Seguono, nella parte c), le prediche tenute in occasione di diverse ordinazioni sacerdotali e diaconali, di prime messe e di anniversari di sacerdozio o di episcopato. Non si tratta di lirica devota, ma del tentativo riuscito di portare alla luce le fonti spirituali alle quali ogni sacerdote giornalmente attinge, per essere un servo buono del suo Signore e un servitore della lieta novella di Cristo, capace di entusiasmare: un pastore che non pasce se stesso, ma che, come Cristo, il Pastore supremo, dà la sua vita per le pecore del gregge di Dio.

Ratzinger evidenzia che laddove viene meno il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico, non solo si esaurisce la fonte alla quale si può efficacemente abbeverare una vita alla sequela di Cristo, ma viene meno anche la motivazione che introduce sia a una ragionevole comprensione della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli (cfr. Matteo, 19, 12), che del celibato quale segno escatologico del mondo di Dio che verrà, segno da vivere con la forza dello Spirito Santo, in letizia e certezza.

Se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l’unica causa della penuria di sacerdoti. Non da ultimo, scompare poi anche l’evidenza, per il magistero e la prassi della Chiesa, che il sacramento dell’ordine debba essere amministrato solo a uomini. Un ufficio concepito in termini funzionali, nella Chiesa, si espone al sospetto di legittimare un dominio, che invece dovrebbe essere fondato e limitato in senso democratico.
La crisi del sacerdozio nel mondo occidentale, negli ultimi decenni, è anche il risultato di un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandolo così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica.

Attendere tutto da Dio e fondare tutta la propria vita su Dio, che in Cristo ci ha donato tutto: questa sola può essere la logica di una scelta di vita che, nella completa donazione di sé, si pone in cammino alla sequela di Gesù, partecipando alla sua missione di Salvatore del mondo, missione che egli compie nella sofferenza e nella croce, e che Egli ha ineludibilmente rivelato attraverso la sua risurrezione dai morti.
Ma, alla radice di questa crisi del sacerdozio, bisogna rilevare anche dei fattori infra-ecclesiali. Come mostra nei suoi primi interventi, Raztinger possiede fin dall’inizio una viva sensibilità nel percepire da subito quelle scosse con cui si annunciava il terremoto: e ciò soprattutto nell’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

Spesso, da parte cattolica, non ci si è resi conto delle visioni pregiudiziali che soggiacevano all’esegesi scaturita dalla Riforma. E così sulla Chiesa cattolica (e ortodossa) si è abbattuta la furia della critica al sacerdozio ministeriale, nella presunzione che questo non avesse un fondamento biblico.
Il sacerdozio sacramentale, tutto riferito al sacrificio eucaristico — così come era stato affermato al concilio di Trento — a prima vista non sembrava essere biblicamente fondato, sia dal punto di vista terminologico, sia per quel che riguarda le particolari prerogative del sacerdote rispetto ai laici, specialmente per ciò che attiene al potere di consacrare. La critica radicale al culto — e con essa il superamento, a cui si mirava, di un sacerdozio che limitasse la pretesa funzione di mediazione — sembrò far perdere terreno a una mediazione sacerdotale nella Chiesa.

Alla critica formulata dalla Riforma al sacerdozio sacramentale — il quale avrebbe messo in discussione l’unicità del sommo sacerdozio di Cristo (in base alla Lettera agli Ebrei) e avrebbe emarginato il sacerdozio universale di tutti i fedeli (secondo 1 Pietro, 2, 5) — si è unita infine la moderna idea di autonomia del soggetto, con la prassi individualista che ne deriva, la quale guarda con sospetto a qualunque esercizio dell’autorità.

Da una parte, osservando che Gesù, da un punto di vista sociologico-religioso, non era un sacerdote con funzioni cultuali e dunque (per usare una formulazione anacronistica) era un laico, e dall’altra parte, basandosi sul fatto che, nel Nuovo Testamento, per i servizi e i ministeri, non viene addotta alcuna terminologia sacrale, bensì denominazioni ritenute profane, è sembrato che si potesse considerare dimostrata come inadeguata la trasformazione — nella Chiesa delle origini, a partire dal III secolo — di coloro che svolgevano mere “funzioni” all’interno della comunità, in impropri detentori di un nuovo sacerdozio cultuale.
Joseph Ratzinger sottopone, a sua volta, a un puntuale esame critico, la critica storica improntata alla teologia protestante e lo fa distinguendo i pregiudizi filosofici e teologici dall’uso del metodo storico. In tal modo, egli riesce a mostrare che con le acquisizioni della moderna esegesi biblica e una precisa analisi dello sviluppo storico-dogmatico si può giungere in modo assai fondato alle affermazioni dogmatiche prodotte soprattutto nei concili di Firenze, di Trento e del Vaticano II.

La teologia cattolica potrebbe comprendere le obiezioni rivolte contro il suo sacerdozio se questo venisse da lei inteso come una mediazione autosufficiente, o anche solo integrativa, accanto o a esclusione di quella di Cristo. Perciò, anche le obiezioni di Martin Lutero, in realtà non toccano il nucleo centrale dell’insegnamento dogmatico vincolante sul sacerdozio sacramentale.

Il concilio di Trento, nel suo decreto sul sacramento dell’ordine, si limitò a respingere le obiezioni del primo riformatore, ma rinunciò a presentarne un’ampia trattazione teologica. E tuttavia, i decreti tridentini di riforma, per lo più a torto trascurati — Ratzinger lo sottolinea con forza — danno importanza alla concezione biblica del sacerdote come servitore della Parola e dei sacramenti, e anche come pastore sollecito della salute spirituale dei fedeli.

Nel dialogo ecumenico devono peraltro essere messi a tema, al di là delle differenze di contenuto, anche i principi formali della teologia: la Scrittura, la tradizione e il magistero, i quali, pur differendo fra essi, cooperano al fine di preservare la totalità della rivelazione. Rivelazione che deve essere protetta da un’esegesi soggettivistica e arbitraria, così da preservarne la pienezza e la pretesa totale.
Qui emerge anche quella dimensione del sacramento dell’ordine che va oltre le funzioni del presbitero e del diacono. Si tratta della responsabilità propria dei vescovi, come successori degli apostoli, nel loro ufficio magisteriale e pastorale rispetto alla Chiesa universale.

Per questo, secondo la concezione cattolica, anche il servizio del vescovo di Roma, quale successore di Pietro, è di imprescindibile importanza. A tal proposito, Ratzinger rimanda di continuo a Ireneo di Lione che, con il principio della Scrittura apostolica, della tradizione apostolica e della successione apostolica dei vescovi, ne ha stabilito il criterio normativo permanente.
In fondo, già nell’opera di delimitazione della gnosi, compiuta da Ireneo con l’Adversus haereses, sono contenuti anche i tratti essenziali circa la dottrina del primato papale, tanto che il successivo sviluppo del magistero, nella sua intenzione autentica, può essere chiarito proprio a partire da Ireneo.
Fa parte della riconquista dell’identità sacerdotale la disponibilità a intendere se stessi come servitori della Parola e testimoni di Dio nella sequela di Cristo, e a vivere in comunione con Lui. Perché questo sia possibile, sono richieste al sacerdote sia una buona formazione teologica che un costante rapporto con la teologia scientifica.

L'Osservatore Romano, 31 ottobre 2013.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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10/11/2013 10:29





Se Gesù non è risorto, l’ultima parola sulla vita umana non è l’amore, è la morte.
Che cosa potremmo dire?
Che quando una persona muore il suo ricordo rimane per sempre?
Non è vero: i ricordi non durano per sempre, rimangono per un po’ nella mente di qualcuno e poi scompaiono con la morte di chi li ricorda. Noi non crediamo in un ricordo, noi crediamo in una persona viva.

Se Gesù non è risorto, il Vangelo allora è una ideologia, al più una proposta di ideali, ma non porta in sé un valore assoluto. Vale quanto le parole dette da qualunque altra persona saggia e intelligente, ma non ha un valore trascendente, perché non dice parole di vita eterna.
Se il Signore non è risorto, con chi stiamo parlando noi durante la Messa? Noi siamo lì a parlare con Gesù, o stiamo parlando con un ricordo, con un’idea?

Noi parliamo con una Persona viva; altrimenti tutta la preghiera di duemila anni di storia si perde in un parlare a vuoto, in un parlare con nessuno. Ecco perché noi abbiamo la viva speranza verso i nostri Defunti; ecco perché crediamo nella Comunione dei Santi: tutto è reso vivo e possibile perché Gesù, che ce lo ha promesso, è veramente Risorto.
C'è più vita in Cielo di quanta ce ne possa essere su questa terra, ed è vita eterna.

(Benedetto XVI - J.Ratzinger - dal libro Escatologia)




Fraternamente CaterinaLD

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10/12/2013 17:34


Gesù di Nazaret nella trilogia di Joseph Ratzinger e Benedetto XVI (Müller)

 
Figura e messaggio

Anticipiamo brani della prolusione che l’arcivescovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede tiene martedì 10 dicembre alla Pontificia Università Lateranense per la presentazione del volume VI,1 dell’opera omnia di Joseph Ratzinger e Benedetto XVI Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio nelle edizioni in lingua italiana (Libreria Editrice Vaticana) e tedesca (Herder), che presenta riuniti i tre volumi su Gesù apparsi nel 2007, nel 2011 e nel 2012.


(©L'Osservatore Romano 11 dicembre 2013)


Gesù di Nazaret nella trilogia di Joseph Ratzinger e Benedetto XVI 


Incontro personale 


di GERHARD LUDWIG MÜLLER


L’unità di Gesù con Dio è il contenuto della confessione di fede originaria, riconosciuta sia nella forma predicata e vissuta dal Gesù pre-pasquale, sia nella relazione intradivina del Figlio eterno col Padre, cui si accede mediante l’evento pasquale. Tale percezione, tuttavia, rimane inaccessibile a una conoscenza puramente naturale dei discepoli, perciò dipende dall’azione dello Spirito Santo, dono del Crocifisso-Risorto tornato al Padre. Sullo sfondo di questa ermeneutica cristologica fondamentale, tra storicità e trascendenza, prende forma lo studio storico-teologico di Benedetto XVI. Come la confessione di fede primitiva scaturisce dall’incontro personale dei discepoli con Gesù Crocifisso — risuscitato dal Padre — nello Spirito, così Benedetto XVI offre la propria testimonianza di quello stesso incontro, con il linguaggio di oggi, mediato dalla sua esperienza ecclesiale.

In quanto studio critico e insieme meditazione teologica, la trilogia su Gesù di Nazaret si propone di illustrare il cammino messianico di Gesù in mezzo al suo popolo, fino al suo esito pasquale, cui si aggiungono i racconti dell’infanzia. Lo stile adottato dell’autore si avvicina a quello dei Padri della Chiesa, che amavano collegare alcuni riferimenti dell’Antico Testamento alle scene evangeliche, per mostrare la novità di Gesù, in una sorta di continuità con l’antica alleanza. Ciò che la comunità cristiana crede viene così custodito nella fedeltà alle radici ebraiche, sulle quali fiorisce il compimento delle promesse fatte da Dio al suo popolo Israele, per dilatarsi in un orizzonte universale. Al lettore si domanda di lasciarsi avvolgere da quel clima di fiducia che dispone a entrare nella sequela.

Nel primo volume — Dal battesimo alla trasfigurazione — Benedetto XVI mette in risalto la singolare immediatezza del rapporto di Gesù con Dio, al quale si riferisce in quanto Figlio: «Egli vive al cospetto di Dio, non solo come amico ma come Figlio: vive in profonda unità col Padre» (Gesù I, p. 26). In tal modo, quella che potrebbe sembrare una prospettiva “dall’alto”, in verità, appartiene a ciò che i Vangeli trasmettono nel modo più naturale e continuo — potremmo dire “dal basso” del Figlio che si rivolge “all’alto” del Padre. Infatti, mai si dubita che Egli si sia percepito in questa relazione filiale di ascolto e obbedienza: «L’Io di Gesù impersona la comunione di volontà del Figlio col Padre. È un io che ascolta e obbedisce» (Gesù I, p. 145). La viva umanità di Gesù è sempre riferita e orientata al Padre, come alla sua origine e al suo destino. Il Padre sta dietro di Lui, in quanto lo ha inviato; gli sta dinanzi, come Colui che lo sostiene e lo attende. Vengono così in luce i tratti essenziali della figura di Gesù, lungi dalla preoccupazione di entrare nell’intimo della sua coscienza, peraltro di difficile accesso attraverso testi non da Lui scritti.

Il volto del Signore, com’è percepito dal senso della fede che ogni credente sa riconoscere, viene qui rappresentato lungo la strada che va dal fiume Giordano al monte Tabor.

L’autore presenta i quadri del ministero pubblico di Gesù nella loro successione cronologica e tematica (il battesimo; le tentazioni; l’annuncio del Regno; il discorso della montagna; l’insegnamento del Padre nostro; i discepoli; le parabole; le immagini giovannee; la professione di fede di Pietro e la trasfigurazione; una conclusione sulle affermazioni di Gesù su se stesso). Egli parte da un testo o da un episodio, ne ricostruisce la base anticotestamentaria, illumina il senso della scena o dell’insegnamento in rapporto ad altri passi evangelici, attinge a qualche interpretazione patristica, per concludere mostrando il significato che questo avvenimento può acquisire per il nostro presente. Senza alcun timore nei confronti del metodo storico-critico, lungi dalla vivisezione di un cadavere che dovrebbe essere rianimato dalla strumentazione esegetica e filologica, l’esposizione dell’autore si muove tra storia e trascendenza. La persona di Gesù è colta nella prospettiva di fede, secondo una profonda ragionevolezza, che si rivolge umilmente alla libertà di chi legge. La scelta di questa ermeneutica fondamentale si basa sul fatto che i Vangeli ci mostrano un Gesù sostanzialmente armonico, pur sotto diverse angolature. Quella che potrebbe apparire come riduzione della pluralità neotestamentaria all’unità del soggetto Gesù Cristo, che parla e agisce coerentemente, in realtà, è ciò da cui trae origine la varietà delle testimonianze evangeliche. Attraverso questa feconda tensione tra unità e pluralità si dischiude l’accesso alla continuità sostanziale tra il Gesù storico dei Vangeli e quello predicato dalla Chiesa.

Il quadro centrale della trilogia — Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione — è composto da dieci scene (ingresso in Gerusalemme e purificazione del Tempio; il discorso escatologico di Gesù; la lavanda dei piedi; la preghiera sacerdotale di Gesù; l’ultima cena; Getsèmani; il processo a Gesù; la crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro; la risurrezione di Gesù dalla morte; è salito al cielo, siede alla destra di Dio Padre e di nuovo verrà nella gloria). Proseguendo con il medesimo stile, l’autore si confronta con la letteratura esegetica e teologica, alla ricerca delle scelte che sostengono la maggiore plausibilità storica degli avvenimenti considerati. Alcuni riferimenti al tempo presente sono rivolti all’attualizzazione del messaggio di Gesù. L’inseparabile legame tra l’identità filiale divina di Gesù, pienamente rivelata nell’evento pasquale, e la professione della fede ecclesiale costituisce la base fondamentale della meditazione teologica. Potremmo dire che in quest’opera, Benedetto XVI espone in forma narrativa e meditativa il contenuto della sua prospettiva cristologica fondamentale, presentata in modo sistematico nel volume Introduzione al cristianesimo (1968).

L’essere di Gesù totalmente relativo al Padre, in relazione intima e incomparabile con Lui, è l’assunto centrale su cui si fonda l’inscindibile unità tra il suo essere e agire, dando luogo a una sorta di “concretizzazione ontologica”: «Egli è tutto insieme Figlio, Verbo, missione; il suo agire penetra sino alla estrema radice del suo essere, formando un tutto unico con esso.
Ed è precisamente in questa inscindibile unità fra essere e agire, che sta la sua peculiarità» (Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969, p. 178). La persona di Gesù, Verbo eterno di Dio, vive i giorni della sua carne alla presenza del Padre da cui viene e a cui torna, attraverso il suo ministero di mediatore escatologico del Regno di Dio. Conseguentemente, non è possibile interpretare le affermazioni cristologiche dei Concili antichi in discontinuità con le testimonianze neotestamentarie, nel momento in cui formularono con la concettualità greca quanto proveniente dall’ambiente semitico dei Vangeli. Per introdurre il lettore al mistero dell’origine di Gesù, l’autore ci ha offerto il terzo quadro, sui racconti dell’infanzia («Di dove sei tu?»; l’annuncio della nascita di Giovanni Battista e della nascita di Gesù; la nascita di Gesù a Betlemme: i magi d’oriente e la fuga in Egitto; Gesù dodicenne nel Tempio) — coerentemente con l’evoluzione storica, letteraria e teologica dei Vangeli. La domanda che Pilato rivolge a Gesù — «Di dove sei tu?» (Giovanni, 19, 9) — va ben oltre una richiesta d’informazione; è la domanda sulla sua intima origine e sulla sua vera natura, che sta sotto uno strano paradosso: «L’origine di Gesù è insieme nota e ignota, è apparentemente facile da spiegare e, tuttavia, con ciò non è trattata in modo esauriente» (Infanzia, p. 12). Ora, i Vangeli di Matteo e Luca, per rispondere a questa domanda, premettono ai racconti le loro genealogie. Invece, Giovanni apre il suo Vangelo con un Prologo (1, 1-18), rispondendo in modo differente alla domanda sul “di dove” riguardo a Gesù, che ha come conseguenza la nostra genealogia di credenti.
Egli viene da Dio, in principio è con Lui, e la sua carne è la tenda dell’incontro, ove s’inaugura un nuovo modo di essere uomini. Perciò, «chi crede in Gesù, entra, mediante la fede, nell’origine personale e nuova di Gesù, riceve questa origine come origine propria. (...) la nostra vera “genealogia” è la fede in Gesù, che ci dona una nuova provenienza, ci fa nascere “da Dio”» (Infanzia, p. 21).

Da questo tipo di accostamento tra le diverse prospettive evangeliche, emerge una profonda coerenza circa l’origine di Gesù: Colui che nasce nel tempo da Maria è il medesimo che era “in principio” presso Dio. Su questa base, sarà possibile formulare il dogma dell’unione ipostatica, senza con ciò inventare quanto nei Vangeli non avrebbe fondamento. In conclusione, con la trilogia di Joseph Ratzinger Benedetto XVI, abbiamo di fronte la vivida rappresentazione del «protagonista finalmente apparso» (Infanzia, p. 27), che non corrisponde al cadavere vivisezionato dell’esegesi scientifica, quanto piuttosto alla presenza attuale di Gesù nella vita della Chiesa, trasmesso dalla tradizione dei testimoni, nella ininterrotta catena che va da Pietro ai suoi successori. Tale opera vale dunque a mostrare che il Verbo di Dio veduto, udito, toccato e contemplato dai discepoli (cfr. 1 Giovanni, 1, 1-4), la cui memoria viva è trasmessa dalla Chiesa, è la misura per tutti coloro che nutrono speranza che Dio possa incontrarli nella storia, nella loro storia.


(©L'Osservatore Romano 11 dicembre 2013)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/05/2014 17:56




 


     


Il dilemma della teologia moderna: Gesù o Cristo


"Il tentativo, eludendo il cristianesimo storico, di costruire un puro Gesù ricavato dagli alambicchi degli storici, del quale poi si dovrebbe poter vivere, è intrinsecamente assurdo. ... Gesù contro Cristo; il che significa: via dal dogma e avanti con la carità!" (Ratzinger)

 

Partendo dalla fatidica domanda di Gesù Cristo: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo? ...Voi chi dite che io sia?» (Mt.16,13-18) si legga anche qui, appare evidente che oggi assistiamo ad una vera spaccatura fra il "Cristo", l'unto di Dio, e il "Gesù" nome e persona propria del "Dio-con-noi" (Mt.1,23).

Ci troviamo davanti ad una vera "fine" del Cristianesimo convenzionale?

Secondo l'allora giovane teologo Joseph Ratzinger siamo andati anche ben oltre! C'è una vera spaccatura fra il Gesù storico e il Figlio di Dio-Dio nostro.

Senza aggiungere altro vi lasciamo alla lettura integrale del capitolo tratto da "Introduzione al Cristianesimo", Vi preghiamo di non estrapolare i singoli pensieri rischiando così di non comprendere bene e correttamente quanto vi è scritto nell'insieme.

 

II. Gesù il Cristo: la forma fondamentale della professione di fede cristologica (1)

1.Il dilemma della teologia moderna: Gesù o Cristo ?

Dopo quanto abbiamo detto, può ancora meravigliarci che la teologia, in una maniera o nell’altra, cerchi di sfuggire al dilemma della contemporaneità di fede e storia, tanto più se fra le due si frappone la parete divisoria dello ‘storico’?

Così, oggi, c’imbattiamo, or qua or là, nel tentativo di sottoporre a verifica la cristologia sul piano storico, mostrandone l’evidenza malgrado tutto mediante il metodo dell’‘esatto’ e documentabile , oppure scegliendo molto più semplicemente di ridurla sbrigativamente a dato comprovabile .

Il primo di questi tentativi non può riuscire, perché - come già abbiamo visto - il dato ‘storico’ in senso stretto implica una forma di pensiero che sottintende una limitazione al phainómenon (al documentabile), per cui non potrà mai far nascere la fede, allo stesso modo in cui la fisica non sarà mai in grado di far scaturire la professione di fede in Dio.

Il secondo, poi, non potrà mai soddisfare pienamente, perché in tal modo non si riesce ad afferrare la totalità di quanto è allora accaduto e ciò che si propone come affermazione è in realtà espressione di una privata concezione del mondo e non il puro risultato di un’indagine storica . Sicché a questi sforzi si accompagna sempre più il terzo tentativo, ossia di sfuggire completamente al dilemma storicistico lasciandoselo alle spalle come superfluo. E quanto avviene alla grande già in Hegel; e pure l’opera di R. Bultmann, sebbene si distingua da quella di Hegel, ha in comune la stessa direzione. Che ci si riduca all’idea o al kèrygma non è senz’altro la medesima cosa; la distinzione, tuttavia, non è così totale come sembrano supporre gli stessi sostenitori della teologia-del- kèrygma.

Il dilemma in cui si dibattono ambedue le vie - da un lato quella di trasporre o ridurre la cristologia a storia (Historie), dall’altro quella di sfuggire completamente alla storia, lasciandosela alle spalle come superflua per la fede - si può benissimo riassumere nell’alternativa che tormenta la teologia moderna: Gesù o Cristo?

La teologia inizia dapprima con il distaccarsi da Cristo per rifugiarsi in Gesù quale figura storicamente tangibile; ma poi, all’apice di questo movimento, con Bultmann, inverte la marcia fuggendo nella direzione opposta, da Gesù indietro verso Cristo: una corsa, questa, che al momento presente comincia già a tramutarsi nuovamente in una fuga da Cristo a Gesù.

Cerchiamo di approfondire maggiormente questo movimento a zig-zag della teologia moderna, perché osservandone le mosse ci avviciniamo meglio al problema stesso. Seguendo la prima tendenza - fuga da Cristo a Gesù - al principio del XX secolo Hamack ha abbozzato la sua opera Essenza del cristianesimo: un libro che propone una forma di cristianesimo satura di orgoglio e ottimismo razionalistico, secondo la quale il liberalismo aveva depurato il Credo originario.

Un’affermazione basilare di quest’opera suona: «Non il Figlio, ma solo il Padre deve stare dentro il vangelo, così come Gesù l’ha annunziato» .

Come sembra semplice, liberante, tutto ciò!

Mentre la professione di fede nel Figlio ha diviso - cristiani da non-cristiani, cristiani di diverse confessioni fra di loro - la conoscenza del Padre può invece unire. Mentre il Figlio appartiene solo a pochi, il Padre appartiene a tutti e tutti appartengono a lui. Mentre la fede ha diviso, l’amore può invece unire.

Gesù contro Cristo; il che significa: via dal dogma e avanti con la carità!

Il fatto che dal Gesù che annuncia, il quale aveva annunciato a tutti gli uomini il loro Padre comune rendendoli così fratelli, si sia passati al Cristo annunciato, che ora esigeva fede ed era diventato un dogma, secondo Hamack ha prodotto la frattura decisiva. Gesù aveva proclamato il messaggio non-dottrinale dell’amore, inaugurando così la grandiosa rivoluzione con cui egli fece saltare la corazza dell’ortodossia farisaica, introducendo al posto dell’intollerante fede formale la fiducia semplice nel Padre, la fratellanza degli uomini e la vocazione a un unico amore.

Ebbene, al posto di tutto questo, si sarebbe poi sostituita la dottrina dell’uomo-Dio, del ‘Figlio’, e così al posto della tolleranza e della fraternità, che sono la salvezza, una dottrina salvifica che può significare soltanto rovina e ha scatenato lotte su lotte, divisioni su divisioni. Donde la necessità di una nuova parola d’ordine: marcia indietro dal Cristo annunciato, oggetto di una fede che divide, e ritorno al Gesù che annuncia, all’appello alla potenza unificante dell’amore sotto l’unico Padre e con i molti fratelli.

Non si può certo negare che queste siano affermazioni incisive e stimolanti, alle quali non si può passare sopra tanto facilmente. Eppure, mentre Harnack stava ancora proclamando il suo ottimistico messaggio di Gesù, si sentivano già alla porta i passi di coloro che avrebbero portato la sua opera alla sepoltura. In quello stesso tempo, infatti, si fornivano già le prove che il Gesù di cui egli parlava era solo un romantico sogno, una fata morgana dello storico, il riflesso della sua sete e del suo desiderio che si dissolve a mano a mano ci si avvicina.

Bultmann imboccò così decisamente l’altra strada. Per quanto riguarda Gesù è assolutamente importante solo il ‘che’ (das Dass), il fatto che egli sia esistito; per il resto, la fede non si aggrappa a ipotesi così malsicure, sulle quali non c’è verso di raggiungere alcuna certezza storica, ma fa riferimento unicamente all’evento della parola nella predicazione, tramite il quale la chiusa esistenza umana viene aperta alla sua autenticità.

Ma un vuoto ‘che’ (Dass) è forse più facile da sostenere di uno riempito di contenuto?

Si è forse guadagnato qualcosa liquidando come insignificante la questione di chi, che cosa e come era questo Gesù e perciò legando così l’uomo a un semplice evento della parola? Quest’ultimo ha luogo senz’altro, giacché viene annunciato; ma la sua legittimazione e il suo contenuto di realtà continuano a rimanere, battendo questa via, quanto mai problematici.

Tenendo presenti questi problemi, è comprensibile che torni a crescere il numero di coloro che dal puro kèrygma e dal Gesù storico, ridotto per così dire al fantasma del puro ‘che’, ritornano ora indietro al più umano fra gli uomini, la cui umanità appare loro, in un mondo sdivinizzato, come l’ultimo barlume del divino sopravvissuto alla ‘morte di Dio’.

Questo accade oggi nella cosiddetta ‘teologia della morte di Dio’, la quale ci dice che, sì, non abbiamo più Dio, ma ci è rimasto tuttavia Gesù come segno della fiducia che ci rincuora a proseguire il cammino . In un mondo svuotato di Dio la sua umanità deve diventare una specie di rappresentanza di quel Dio che non riusciamo più a trovare. Ma quanto poco critici sono, su questo punto, coloro che prima si atteggiavano a critici tanto da volere permettere unicamente una teologia senza Dio, semplicemente per non apparire alquanto superati agli occhi dei loro contemporanei progressisti!

Del resto, bisognerebbe forse porre la questione già prima e riflettere se non si manifesti una pericolosa assenza di senso critico già nell’intenzione di praticare una teologia - discorso su Dio — prescindendo da Dio.

Non c’è bisogno che ci occupiamo di questo; per quanto concerne la nostra questione, resta comunque assodato che non possiamo cancellare gli ultimi quarant’anni, e che il ritorno al solo Gesù ci è irrevocabilmente precluso.

 Il tentativo, eludendo il cristianesimo storico, di costruire un puro Gesù ricavato dagli alambicchi degli storici, del quale poi si dovrebbe poter vivere, è intrinsecamente assurdo.

La semplice storia (Historie) non crea alcun presente, ma constata ciò che è stato. Pertanto, il romanticismo su Gesù è, in sostanza, altrettanto privo di avvenire: e tagliato fuori dal presente quanto doveva esserlo la fuga nel puro evento della parola.

Tuttavia, l’oscillare dello spirito moderno tra Gesù e Cristo, le cui tappe più significative nel XX secolo ho cercato di enucleare, non è stato inutile.

Penso che possa persino diventare un autentico segnavia, indicante che non esiste l’uno (Gesù) senza l’altro (Cristo), sicché si continua necessariamente a venir rimandati dall’uno all’altro, perché in verità Gesù sussiste soltanto come il Cristo e il Cristo non altrimenti che in Gesù.

Noi dobbiamo fare un passo innanzi e, prima di ogni ricostruire, che può offrirci sempre e soltanto dei rifacimenti, ossia delle figure artificiose ricavate in un secondo tempo, cercare semplicemente di comprendere che cosa ci dica la fede, la quale non è ricostruzione, ma presenza, non è teoria, bensì realtà viva ed esistenziale.

Forse dovremmo fidarci di più dell’attualità della fede che resiste ai secoli, fede che per sua stessa natura non ha voluto essere altro che un comprendere - comprendere, cioè, chi e che cosa sia veramente stato questo Gesù forse dovremmo contare più su di essa che sulla ricostruzione, la quale cerca la propria strada astraendo dalla realtà; perlomeno, però, dobbiamo cercare una buona volta di conoscere che cosa questa fede veramente dice.

2. L’immagine di Cristo nella professione di fede

 

Il Simbolo, da noi seguito in questo libro come sintesi rappresentativa della fede, formula la sua professione di fede in Gesù con questa semplicissima frase: «... e (io credo) in Gesù Cristo».

In essa, il fatto per noi più sorprendente è che, come nel linguaggio preferito dall’apostolo Paolo, il termine Cristo, il quale originariamente non era un nome, bensì un titolo (‘Messia’), nel testo originale viene premesso al nome (‘Cristo Gesù’).

Ora, si può dimostrare che alla comunità cristiana di Roma, cui si deve la formulazione della nostra professione di fede, il termine Cristo era già ben noto in tutta la sua portata contenutistica. La sua trasformazione in un puro e semplice nome proprio, così come lo intendiamo oggi, si è verificata già nei primissimi tempi; tuttavia qui l’appellativo ‘Cristo’ viene ancora impiegato come designazione di ciò che in realtà questo Gesù è.

La sua fusione col nome Gesù è, d’altronde, già molto avanzata, ci troviamo quasi all’ultima tappa nell’evoluzione del significato del termine Cristo.

Ferdinand Kattenbusch, il grande studioso del Simbolo apostolico, ha chiarito il dato di fatto con un azzeccatissimo esempio mutuato dalla realtà del suo tempo (1897).

Egli lo paragona al nostro modo di dire quando si parla del ‘Kaiser Guglielmo’: qui il titolo di Kaiser è divenuto quasi parte integrante del nome, tanto indissolubilmente uniti vanno i termini Kaiser e ‘Guglielmo’; eppure tutti sanno che con questa parola non si esprime soltanto un nome, bensì una funzione.

Qualcosa del genere troviamo anche qui, nell’abbinamento delle parole ‘Cristo Gesù’, che presenta la stessa formazione: Cristo è sì un titolo, ma è anche già una parte del nome proprio con cui si indica l’Uomo di Nazaret.

In questo processo di fusione del nome col titolo, del titolo in nome, si riflette qualcosa di ben diverso da una delle tante sbadataggini della storia, di cui qui avremmo un esempio in più. In esso emerge piuttosto in piena luce il nucleo più profondo di quel lavoro di comprensione che è stato compiuto dalla fede nei confronti della figura di Gesù di Nazaret.

La fede, infatti, ci viene appunto a dire che in quel Gesù non è possibile distinguere tra ufficio e persona: tale differenziazione è, nei suoi confronti, assolutamente priva di fondamento. La persona è l’ufficio, l’ufficio è la persona. Le due cose sono ormai inseparabili: qui non c’è alcuno spazio riservato al privato, all’Io, che in fin dei conti permane dietro le proprie azioni e attività, e perciò talvolta può essere anche "fuori servizio"; qui invece non c'è alcun "Io" staccato dalla sua opera: l'Io è l'opera, e l'opera è l' "Io".

 

(si legga in proposito: Mt.10,34 / 12,18 / 24,5 / Mc.14,62 / Lc.5,32 / 9,18 / 22,70 / 24,39 /

Gv.4,26 / 5,43 / 6,35 / 7,7 / 8,12 / 8,18 / 8,24 / 8,58 / 9,39 / 10,9 / 12,46 / 13,19 / 14,6 / 15,5 / 17,16 / Att.9,5 /

2Pt.1,13 /

 Apoc. 1,8 / 1,17 / 2,23 / 3,21 / 21,6 / 22,16 / )

 

Note

1)  Joseph Ratzinger - Introduzione al Cristianesimo - Queriniana - 1968 nuova riedizione 2000 - 2005, pag.187-193


 


[Modificato da Caterina63 05/06/2014 14:26]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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26/07/2014 12:31



"È perciò vuoto romanticismo dire: risparmiateci i dogmi, la cristologia, lo Spirito Santo, la Trinità, perché ci basta annunciare Dio Padre e la fraternità tra gli uomini, e questo vivere senza far ricorso a teorie mistiche - questo soltanto sarebbe importante. 
Un'esigenza che potrebbe sembrare legittima; ma su questa via si arriva davvero a conoscere l'essere così complicato che l'uomo è? 
Donde conosciamo che cosa significa essere padri, essere fratelli, in modo tale da poter fondare su questo la nostra fiducia? (..)
L'Apocalisse parla dell'antagonista di Dio, della bestia. 
La bestia, che esercita un potere contrario a quello di Dio, non ha un nome, ma solo un numero.
La bestia è il numero e trasforma in numeri. Dio, invece, ha un nome e chiama per nome. Egli è persona e cerca la persona. Ha un volto e cerca il nostro volto. Ha un cuore e cerca il nostro cuore. Nome significa possibilità di essere interpellati, significa comunione. "

 

"Ai miei confratelli nel venticinquesimo della nostra ordinazione sacerdotale 1951-1976"

 

 

Prefazione (*)

 

Quando nella primavera del 1973 tenni un quaresimale nella chiesa di S. Emmeram a Regensburg, mi venne offerta l'occasione di vagliare, sul piano pratico, alcuni principi che avevo appena sviluppato nel mio volume Dogma und Verkùndigung [Mùnchen 1973; trad. it., Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974].

Il primo e terzo capitolo di questo piccolo libro ripropongono, con alcune modifiche, quelle prediche, riflessioni sul tema che, nell'opera appena ricordata, avevo abbozzato nel capitolo Predicazione di Dio oggi.

Il secondo capitolo contiene invece delle meditazioni che tenni a Friburgo nel periodo dell'Avvento del 1972, una predica del 1975 in occasione del giubileo del concilio di Nicea e una conferenza sul tema della Pasqua che svolsi alla Radio Bavarese. Di questi testi mi sono poi servito per predicare gli esercizi spirituali a Bad Imnau, Colonia (a dei seminaristi) e a Maria Laach; per l'occasione li ristrutturai secondo la forma che qui assumono.

Benché mi renda conto delle carenze che tale processo di formazione inevitabilmente comporta, nutro comunque la speranza di favorire una saldatura fra teologia e spiritualità, ma anche un'assimilazione personale del contenuto nella misura in cui esso risponde alla fede della chiesa.

Pentling, festa dei santi Pietro e Paolo 1976

Joseph Ratzinger

 

1. Dio

 

Dio ha dei nomi

 

Ci ricordiamo ancora di quando Juri Gagarin, ritornando dal suo viaggio nello spazio - il primo nella storia dell'umanità - affermò di non aver visto alcun dio.

Anche per l'ateo meno sprovveduto era ovvio che una simile affermazione non poteva costituire un argomento convincente contro l'esistenza di Dio.

Che Dio non si possa toccare con le mani o osservare con il telescopio, che non abiti sulla luna, su Saturno, su qualche pianeta o nelle stelle, lo si sapeva già, prima che ce lo dicesse Gagarin, a prescindere dal fatto che questo viaggio nello spazio, pur rimanendo un'impresa straordinaria, se riferito ai parametri dell'Universo può venir considerato tutt'al più una breve passeggiata fuori della porta di casa, e le conoscenze che ci ha fatto acquisire sono di gran lunga inferiori a quelle di cui po-tevamo già disporre in base ai nostri calcoli e os-servazioni.

 

Molto più intensa, invece, è la penosa sensa-zione di assenza di Dio che tutti provano ai nostri giorni. La troviamo formulata in un'antica favola ebraica, dove si racconta che il profeta Geremia un giorno riuscì, assieme al figlio, a combinare correttamente alcune lettere e parole così da dare origine a un uomo vivente. Sulla fronte del Golem - l'uomo formatosi da sé - stavano impresse le lettere che avevano consentito di svelare il mistero della creazione: yhwh È LA VERITÀ. Il Golem strappò una delle sette lettere, di cui si compone la frase nella lingua ebraica, mutando così radicalmente il senso dell'iscrizione, che ora suonava: Dio È MORTO.

Inorriditi, il profeta e il figlio gli chiesero che intenzioni mai avesse. La risposta dell'uomo nuovo fu: da quando voi siete in grado di creare l'uomo, Dio è morto .

 

La mia vita è la morte di Dio. Se l'uomo ha ogni potere, Dio non ne ha più alcuno.

 

Questa antichissima storia ebraica, inventata nel Medioevo cristiano, esprime, come in un sogno angoscioso, il dramma dell'uomo dell'età della tecnica. Questi ha ormai ogni potere sul mondo, conosce le sue funzioni e le leggi che ne governano il corso. Il suo sapere è potere: egli è in grado, per così dire, di smontare questo mondo per poi ricomporlo; per lui è un complesso di funzioni, di cui ci si può servire e che si possono piegare al proprio servizio. In un simile mondo, così sotto controllo, non c'è più alcuna possibilità d'intervento di Dio.

L'uomo può trovare aiuto soltanto nel suo simile, perché il potere sul mondo può essere esercitato soltanto dall'uomo. Ma un Dio privato di ogni potere non è più Dio. Se il potere sta soltanto nelle mani dell'uomo, non esiste più alcun Dio.

 

Queste riflessioni evidenziano alcuni aspetti fondamentali del problema della conoscenza umana di Dio. Qui si osserva che questa conoscenza, in ultima analisi, non pone soltanto problemi d'ordine teorico, ma è innanzitutto una questione di prassi vitale. Dipende dal rapporto che l'uomo stabilisce fra sé e il mondo, fra sé e la propria vita. Il problema del potere è soltanto un aspetto, mentre decisioni importanti sono già state prese nella sfera dei rapporti dell'Io con il Tu e con il Noi: nell'esperienza dell'essere-amati o dell'essere- respinti.

Da queste esperienze e decisioni di fondo, nel rapporto dell'Io con il Tu e con il Noi, dipende poi il fatto che l'uomo veda nell'essere-con e nel precedere del Totalmente Altro un concorrente, o un pericolo, oppure il fondamento della nostra fiducia. E da questo dipende anche la possibilità di contestare questo testimone o di accettarlo con rispetto e riconoscenza.

 

Questa idea, che ci riporta alle radici del problema di Dio, e che è lontana dalla discussione sulle prove della sua esistenza, potrebbe venir illustrata un po' di più a partire dalla storia delle religioni. Nella storia religiosa del genere umano, la quale, nelle culture più elevate, coincide con la sua storia spirituale, Dio compare ovunque come l'Essere che ha occhi dappertutto, come il Vedere: un'idea arcaica che viene mantenuta anche nell'immagine dell'occhio di Dio, tramandataci nell'arte cristiana . Dio è Occhio, Dio è Vista. Qui si cela anche una sensazione originaria dell'uomo, quella del sentirsi conosciuto.

Egli sa che una segretezza assoluta non esiste, che la sua vita è sempre esposta allo sguardo di Qualcuno, che il suo vivere è un esser-visto.

 

Nella preghiera di uno dei Salmi più belli dell'Antico Testamento troviamo espressa la convinzione che ha accompagnato l'uomo lungo l'intero corso della sua storia:

 

"Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo.

Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo.

Ti sono note tutte le mie vie;

la mia parola non è ancora sulla lingua

e tu, Signore, già la conosci tutta.

Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano.

Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo.

Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?

Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti.

Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare,

anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra.

Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra

e intorno a me sia la notte»;

nemmeno le tenebre per te sono oscure,

e la notte è chiara come il giorno;

per te le tenebre sono come luce" (Sai 138,1-12).

 

Come abbiamo detto, questa sensazione di esser-visti può suscitare nell'uomo due reazioni opposte. Questo essere-esposto può turbarlo, farlo sentire in pericolo, un essere limitato nel suo stesso ambito vitale. Sensazione che può tramutarsi in irritazione e intensificarsi fino al punto da ingaggiare una lotta appassionata contro il testimone invidioso della sua libertà, della capacità illimitata del suo volere e agire.

Ma può anche dare origine a un atteggiamento contrario: l'uomo che si apre all'amore, in questa presenza che continuamente lo circonda può scorgere il mistero cui aspira tutto il suo essere.

Qui egli potrà cogliere il superamento della propria solitudine, che nessuna creatura umana riuscirà mai a eliminare e che costituisce comunque una vera e propria contraddizione per l'essere che tende al Tu, a essere con l'altro. In questa presenza misteriosa egli può trovare il fondamento di quella fiducia che gli consente di vivere. È questo il luogo in cui trovare risposta al problema di Dio.

Essa dipende dal modo in cui l'uomo considera originariamente la propria vita: se vuole rimanere non-visto, se preferisce restare da solo - «Sarete come Dio!» - oppure se egli, nonostante le sue inadeguatezze, anzi proprio perché essere inadeguato, è invece riconoscente a Colui che riempie e sostiene tutte le sue solitudini.

 

Le ragioni che sostengono l'una o l'altra scelta sono le più diverse. Dipende dalle esperienze di fondo che si fanno con il Tu: se in esso si scorge l'amore o, invece, una minaccia.

E dipende anche dalla figura in cui Dio incontra l'uomo: se nelle vesti di un terribile sorvegliante che medita il momento della condanna, o come l'amore creatore che ci aspetta. Dipende inoltre dalle decisioni attraverso le quali l'uomo accetta o modifica, nel corso della propria vita, le esperienze fatte in passato.

Da queste riflessioni dovrebbe risultare chiara almeno l'impossibilità di dissociare il problema dell'esistenza di Dio da quello di chi o che cosa Dio è.

 

Non si può provare o negare che Dio esiste, per poi chiedersi chi o che cosa egli propriamente sia.

Il contenuto racchiuso nell'idea che l'uomo si fa di Dio decide anche della possibilità o meno che qui si sviluppi una conoscenza, dove però questa conoscenza e questi contenuti sono talmente intrecciati con le decisioni di fondo che connotano la nostra vita umana, restringono o dilatano il nostro raggio di conoscenza, che la pura teoria qui rivela tutta la sua impotenza.

 

Ma chiediamoci: come si mostra il Dio biblico? Chi è propriamente questo Dio? Nella storia biblica della rivelazione, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, di fondamentale importanza si è rivelata sempre l'autopresentazione di Dio a Mosè, così come ci viene descritta in Es. 3.

Qui bisogna anzitutto tenere ben presenti il contesto storico e il luogo in cui Dio si manifesta. Il contesto storico ci è presentato dalla stessa parola di Dio: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (v. 7).

 

Dio si rende garante del diritto. Egli difende i deboli dai potenti. E' questo il suo vero volto. È questo il nucleo della legislazione veterotestamentaria, che mette sotto la protezione personale di Dio la vedova, l'orfano, lo straniero.

E lo ritroviamo anche al centro della predicazione di Gesù, che si è messo dalla parte di quelli che vengono accusati, dei condannati, dei morenti e che, appunto così, li ha posti sotto la protezione di Dio.

In tale contesto rientra anche la sua lotta per il significato del sabato (ne basti un accenno): nell'Antico Testamento il sabato è il giorno della libertà delle creature, il giorno nel quale l'uomo e l'animale, lo schiavo e il padrone riposano. È il giorno in cui viene ripristinata, in mezzo a un mondo dove regnano la disuguaglianza e la schiavitù, la comunione fraterna di tutte le creature. Per un giorno la creazione ritorna al punto di partenza: tutti sono liberi in virtù della libertà di Dio.

L'atteggiamento che Gesù assume nei confronti del sabato si traduce in una lotta non contro il giorno di sabato, ma perché questo giorno riacquisti il suo significato originario: perché sia il giorno della libertà di Dio e non si tramuti, sotto l'influenza dei legulei, nel suo contrario, in un giorno tormentato dall'osservanza di prescrizioni minuziose.

 

Il luogo dell'avvenimento descritto da Es. 3 è il deserto.

Per Mosè, Elia e Gesù, esso è il luogo della vocazione e della preparazione. Se non si esce dall'ingranaggio della vita quotidiana, se non ci si confronta con la potenza della solitudine, non si può fare nessuna esperienza di Dio. Se per quanto concerne il contesto storico diremo che un cuore avido ed egoistico non può conoscere Dio, tenendo conto di questo secondo aspetto dovremo ammettere che Dio non può essere trovato nemmeno da un cuore confuso e distratto.

Ma andiamo al nocciolo del problema.

Dio si presenta a Mosè con un nome che traduce nella formula: «Io sono colui che sono!» .

Questo processo di traduzione è inesauribile.

Tutta la storia di fede che seguirà, fino alla professione di fede in Dio da parte di Gesù, è un'interpretazione continua e rinnovata di queste parole che, in questo modo, acquistano sempre maggior profondità. Ma fin dall'inizio è chiaro che con una simile spiegazione il nome di 'YHWH' si differenzia nettamente da tutti gli altri nomi cui si ricorre per qualificare gli dèi.

Questo non è un nome fra i tanti, poiché colui che lo porta non è uno che possa confondersi con altri.

Il suo nome è mistero, e lo pone in una condizione che non può essere equiparata a quella di qualsiasi altro.

«Io sono colui che sono!»: ciò significa vicinanza, potere sul presente e sul futuro.

Dio non è prigioniero di quel che avviene «dall'eternità»; egli è sempre presenza:

«Io sono».

È contemporaneo a ogni tempo e anteriore a ogni tempo. Posso invocare questo Dio qui e ora: Lui è qui e mi risponde in questo momento. Alcuni secoli più tardi, alla fine del grande esilio, si rivelò decisivo un altro aspetto. Le potenze di questo mondo, che hanno operato meraviglie così grandi e dichiarato morto 'YHWH', vengono detronizzate nel corso di una notte. Sono potenze che passano. Lui, invece, rimane! Egli 'è'. Il suo «Io sono» non significa soltanto presenza di Dio, ma anche la sua stabilità. Mentre tutto passa, egli è oggi, ieri e domani. Eternità non significa passato, ma affidabilità incondizionata, solidità che sempre sostiene. Dio è: questo vale anche per noi, in un tempo in cui si confonde ampiamente ciò che è conforme al tempo con il bene, il moderno con il vero. Ma il tempo non è Dio. Dio è l'eterno, mentre il tempo è un idolo, quando diventa oggetto di venerazione .

Si pone però un altro interrogativo, ancor più generale, più fondamentale: che significa propriamente un «nome di Dio»?

Il fatto che nell'Antico Testamento Dio abbia dei nomi non esprime forse la reminiscenza del mondo politeistico, quando la fede israelitica dovette progressivamente imporre la sua immagine?

 

A favore di questa interpretazione stanno i diversi nomi di Dio che abbondano nei più antichi racconti della tradizione, mentre progressivamente scompaiono nello sviluppo successivo della fede veterotestamentaria; si mantiene il nome di 'YHWH', ma, per rispetto del secondo comandamento, prima di Gesù non lo si pronuncia più da molto tempo.

Il Nuovo Testamento non conosce precisi nomi divini, e nella traduzione greca dell'Antico Testamento il nome di YHWH era stato continuamente sostituito dalla designazione di 'Signore'.

Questo, però, è soltanto un aspetto.

E' vero, i singoli nomi di Dio scompaiono nella misura in cui ci si distanzia dalle posizioni politeistiche; d'altra parte, però, l'idea che Dio abbia un nome gioca un ruolo decisivo proprio del Nuovo Testamento.

Nel cap. 17 del vangelo di Giovanni, che per diversi aspetti può essere considerato il vertice dell'evoluzione della fede neotestamentaria, ricorre quattro volte la locuzione «il nome di Dio».

Il brano principale risulta caratterizzato, nei vv. 6 e 26, dalla confessione di Gesù, il quale attesta di essere stato inviato per rivelare agli uomini il nome di Dio: Gesù appare come il nuovo Mosè che compie e realizza pienamente ciò che era iniziato nel roveto ardente in modo soltanto frammentario e oscuro.

 

Che cosa significa, dunque, il nome di Dio?

 

Lo comprenderemo forse alla luce della contrapposizione che a esso soggiace. L'Apocalisse parla dell'antagonista di Dio, della bestia.

La bestia, che esercita un potere contrario a quello di Dio, non ha un nome, ma solo un numero.

Per il veggente questo suo numero è 666 (13,18). È un numero e rende numeri.

Che cosa significhi lo abbiamo vissuto nei campi di concentramento, orrendi soprattutto perché cancellano il volto, cancellano la storia, trasformano l'uomo in nu-mero, lo riducono a ingranaggio di un'enorme macchina. L'uomo qui non è altro che una funzione.

Oggi non dovremmo mai dimenticare che il campo di concentramento prefigurava la sorte di un mondo che corre il rischio di assumere, se accetta la legge universale della 'macchina', la stessa struttura dei campi di concentramento. Infatti, se non si danno altro che funzioni, anche l'uomo si ridurrà a una funzione. Le macchine che egli ha costruito gli impongono la loro stessa legge.

L'uomo deve poter essere letto dal computer, e ciò è possibile soltanto se egli viene tradotto in numeri. Tutto il resto non conta. Ciò che non è funzione non ha valore alcuno.

La bestia è il numero e trasforma in numeri. Dio, invece, ha un nome e chiama per nome. Egli è persona e cerca la persona. Ha un volto e cerca il nostro volto. Ha un cuore e cerca il nostro cuore. Per Lui noi non siamo una funzione all'interno della grande macchina mondiale. Sono proprio gli individui che non assolvono delle funzioni quelli che egli predilige. Nome significa possibilità di essere interpellati, significa comunione.

 

Per questo motivo Cristo è il vero Mosè, il compimento ultimo della rivelazione del nome. Egli non porta un nome nuovo, ma fa di più: lui stesso è il volto di Dio, è il nome di Dio, la possibilità di invocare Dio come un Tu, come persona, come cuore.

Il nome proprio di Gesù svela il mistero del nome del roveto ardente.

Ora appare chiaro che Dio non aveva detto in modo definitivo il proprio nome e che il suo discorso era stato temporaneamente interrotto. Il Nome di Gesù, infatti, contiene la voce 'YHWH' nella sua forma ebraica e vi aggiunge dell'altro: «Dio salva». Io sono colui che sono, ora, a partire da Gesù, significa: Io sono colui che vi salva.

Il suo essere è redenzione.

 

Oggi, 8 marzo, la chiesa celebra la festa di san Giovanni 'di Dio', la cui istituzione, quella dei 'Fratelli della misericordia (Fatebenefratelli)' svolge anche ai nostri giorni un'attività a favore degli ammalati. Fin dall'istante della sua conversione, quest'uomo ha vissuto la propria vita consumandosi interamente a favore degli altri: dei sofferenti e dei reietti, e anche per i più poveri di allora, i malati di mente e le prostitute, ai quali cercò di rendere possibile un nuovo modo di vivere. Leggendo le sue lettere avvertiamo immediatamente la passione in cui quest'uomo si consumò per alleviare le sofferenze degli oppressi.

«Sto lavorando oberato dai debiti e sono prigioniero per amore di Cristo. Così carico di debiti che spesso non ho neppure il coraggio di varcare la soglia di casa, per paura delle ingiunzioni di pagamento. La mia più grande afflizione sta nel vedere tanti fratelli e prossimi soffrire oltre ogni limite, osservare la miseria che li opprime nel corpo o nell'anima, e non poterli aiutare. Ma io edifico su Cristo, poiché è lui che conosce il mio cuore» .

 

A me sembra davvero profondamente sensato che a quest'uomo sia stato dato l'appellativo 'di Dio'. E in realtà, in questa vita che si consumò per gli uomini appare chiaramente chi Dio è: il Dio del roveto ardente, il Dio di Gesù Cristo, colui che è il diritto di chi è privato di ogni diritto, l'eterno e vicino a noi che ha un nome e dà nome.

Potessimo anche noi essere sempre di più 'di Dio', per conoscerlo in modo sempre più approfondito e aiutare anche i nostri simili a giungere alla sua conoscenza.

 








Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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26/07/2014 12:32


 





Dio è Uno e Trino


 


Quante volte facciamo distrattamente il segno di croce e invochiamo il nome della Trinità divina?


Questo gesto significa rinnovare le promesse battesimali, accettare le parole con le quali siamo stati fatti cristiani, accogliere ciò che nel battesimo e senza la nostra partecipazione e riflessione ci è stato donato, assimilarlo nella nostra vita personale. Allora, infatti, ci è stata versata dell'acqua sul capo e su di noi è stata pronunciata la parola: «Ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». La chiesa rende l'uomo cristiano pronunciando il nome del Dio trinitario. Fin dall'inizio è questo il modo di cui essa si serve per esprimere ciò che considera davvero decisivo per essere cristiani: la fede nel Dio uno e trino.


 


Questo ci delude.


 


Lo sentiamo tanto distante dalla nostra vita che ci appare inutile, incomprensibile. Sebbene attraverso una breve formula, ci aspettiamo qualcosa che ci attragga, ci stimoli, qualcosa che si mostri immediatamente importante per l'uomo e la sua vita. Ma è appunto quel che traspare da questa formula: il cristianesimo è interessato innanzitutto a Dio, non alla chiesa o all'uomo.


Il suo specifico orientamento non riguarda le nostre speranze, i nostri timori e desideri, ma Dio, la sua sovranità e potenza. La prima proposizione della fede cristiana, l'orientamento di fondo della conversione del cristiano suona: Dio è.


 


Ma che cosa significa questo? Che cosa significa nella vita quotidiana in questo nostro mondo?


 


Significa innanzitutto che Dio è, e che quindi gli 'dèi' non sono Dio.


 


È Lui che dobbiamo adorare, e nessun altro. Ma non è vero forse che gli dèi sono morti ormai da tempo? Una simile espressione non è forse chiara a tal punto da suonare vuota, priva di senso? Chi osserva però attentamente la realtà si pone anche un'altra domanda: è proprio vero che nel nostro tempo non si veneri più alcun idolo? Non esiste proprio nulla che oggi si adori accanto e contro Dio? Non è vero che dopo la 'morte di Dio' gli dèi hanno ripreso a esercitare il loro inquietante potere?


 


In che cosa confidiamo e crediamo? Il denaro, il potere, la reputazione, l'opinione pubblica, il sesso non sono forse diventati dei poteri di fronte ai quali gli uomini si piegano, ai quali rendono un servizio idolatrico? E il mondo non assumerebbe un altro aspetto nel caso in cui questi dèi venissero deposti dai loro troni?


 


Dio è: significa che al di sopra di tutti i nostri obiettivi e interessi stanno la verità e il diritto. Sta il valore di ciò che, dal punto di vista terreno, è privo di qualsiasi valore. C'è l'adorazione di Dio, la vera adorazione, che protegge l'uomo dalla dittatura dei fini e che è la sola in grado di difenderlo dalla dittatura esercitata dagli idoli.


 


Dio è: significa anche che noi tutti siamo sue creature. Soltanto creature, ma appunto come tali veramente originate da Dio. Noi siamo creature, volute da Lui e destinate all'eternità: lo è anche il nostro vicino, anche la persona antipatica che mi sta accanto. L'uomo non viene dal caso, non è il risultato di una pura lotta per l'esistenza, che farebbe trionfare ciò che è adatto allo     scopo, ciò che riesce a imporsi: l'uomo è frutto dell'amore creativo di Dio.


 


Dio è: qui bisogna sottolineare soprattutto la paroletta 'è', tradurre dunque la formula nella seguente proposizione: Dio è realmente, e ciò significa che opera, agisce e può agire. Non è un'origine lontana o un indeterminato 'verso dove del nostro trascendere'. Non ha preso affatto le distanze dalla sua macchina del mondo, non ha abdicato a ogni sua funzione perché tutto ormai funzionerebbe da sé. Il mondo è e rimane il suo mondo, il presente è il suo tempo, e non il passato. Egli può agire, e agisce in modo davvero reale ora, in questo mondo e nella nostra vita. Noi riponiamo in Lui la nostra fiducia? Nei calcoli che facciamo lungo il corso della nostra vita, nel nostro vivere quotidiano, egli rientra come realtà? Abbiamo compreso che cosa significa la prima tavola dei dieci comandamenti, questa istanza davvero fondamentale che è rivolta alla vita dell'uomo, ripresa poi dalle prime tre invocazioni del Padre nostro, che intendono renderla orientamento di fondo del nostro spirito, del nostro vivere?


 


Dio è. E la fede aggiunge: Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo, uno e trino. Questo punto così centrale rimane avvolto, nella cristianità, in un silenzio imbarazzante. La chiesa non è forse andata troppo oltre? Non sarebbe stato forse meglio lasciare che questa immensità, che questa inaccessibilità rimanesse avvolta nel suo mistero?


Del resto, che significato può avere per noi? Certo, questa proposizione è e rimane espressione dell'alterità di Dio, il quale è infinitamente più grande di noi, trascende ogni nostro pensiero ed essere. Tuttavia, se non avesse avuto nulla da dirci, non ci sarebbe stato manifestato nemmeno il suo contenuto. Sì, egli poteva essere compreso soltanto entro gli schemi di un linguaggio umano, poiché si era già inserito nel processo di riflessione e di vita degli uomini.


 


Che cosa, dunque, significa questo? Incominciamo dal momento in cui Dio stesso ha voluto manifestarsi. Egli si denomina 'Padre'.


La paternità umana può fornire un'anticipazione di ciò che Lui è. Ma quando questa paternità non esiste, quando la si esperimenta soltanto come un fenomeno biologico, e non anche umano e spirituale, diventa vuoto anche ogni nostro discorso su Dio Padre. Se la paternità umana scompare, non riusciamo nemmeno a pensare e parlare di Dio.


Morto non è Dio, bensì ciò che nell'uomo costituisce la premessa perché Dio viva nel mondo.


La crisi della paternità che noi oggi stiamo vivendo tocca il centro della crisi che minaccia l'uomo nella sua umanità. Quando la paternità rappresenta soltanto un fatto biologico privo di una vera dimensione umana, o una forma di tirannia che dev'essere rifiutata, allora si è qui inferta come una ferita alla stessa struttura dell'essere umano.


 


Per la sua completezza questo essere-uomo esige il 'padre' nel suo vero senso, cioè in quel senso che ci è stato manifestato nella fede: come responsabilità per l'altro, responsabilità che non domina l'altro, ma lo rende libero perché divenga se stesso; come amore che non vuole imprigionare l'altro, ma nemmeno lo lascia semplicemente nella sua condizione, spacciando questo per libertà, mentre vuole che realizzi quella verità profonda che ha le sue radici nel Creatore.


Una simile paternità è ovviamente possibile solo quando si accetta la propria figliolanza.


Il detto di Gesù: «Uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9) ci fa comprendere il modo corretto di esercitare la nostra paternità: non nell'imporre il nostro potere su altre persone, ma nel renderci responsabili della verità che si è aperta a Dio e che può, dunque, rendere l'altro libero perché diventi se stesso, senza egoismi, per Dio, nel quale egli si trova.


 


Dobbiamo però anche riflettere sul fatto che nella Bibbia Dio ci si manifesta innanzitutto nella figura di 'Padre'. E ciò implica che anche il mistero della maternità abbia origine in Lui, a Lui rimandi o da Lui si scosti nelle sue deformazioni esattamente come la paternità.


Che l'uomo sia 'immagine di Dio' riesce comprensibile, nel suo contenuto reale ed estremamente pratico, proprio qui. Egli non è immagine di Dio in modo astratto: ci troveremmo allora di fronte anche a un Dio astratto. Lo è nella sua realtà concreta, e questa è relazione: lo è come padre, madre, figlio. Sono caratterizzazioni che, se riferite a Dio, vanno considerate 'immagini', ma lo sono perché l'uomo è 'immagine' e lo sono con la pretesa di realtà che è loro propria.


Sono immagini che esigono l' 'immagine' e in questo possono diventare presenza di Dio o la sua 'morte'. Il divenire uomo dell'uomo e la sua conoscenza di Dio sono tra loro inseparabili, proprio perché l'uomo è l'immagine' di Dio.


Distruggere l'essere umano significa compromettere l'immagine stessa di Dio.


La dissoluzione della paternità e della maternità, che si preferirebbero trasferite al laboratorio o perlomeno ridotte a un puro momento biologico che non riguarderebbe l'uomo come tale, sono intimamente legate alla dissoluzione della figliolanza, che verrebbe meno alla piena uguaglianza dell'inizio.


Questo è il programma della hybris che vuole allo stesso tempo sottrarre l'uomo alla sfera biologica per renderlo lì nuovamente schiavo. Essa arriva fino alle radici dell'essere-uomo e della nostra stessa possibilità di pensare Dio: un Dio che non può essere più immaginato non può essere nemmeno pensato. Quando il pensiero impiega tutte le sue energie per rendere impossibile l'immaginazione, ogni 'prova dell'esistenza di Dio' si rivela inutile.


 


Ovviamente in queste riflessioni critiche sul nostro tempo non dobbiamo coinvolgere la Chiesa. Da una parte non possiamo dimenticare che anche ai nostri giorni ci sono offerti ottimi esempi di paternità e di maternità, e che grandi figure come Janusc Korczak e Madre Teresa dimostrano come, anche a prescindere dall'aspetto biologico, sia possibile realizzare il senso più vero e profondo della paternità e maternità.


D'altra parte dobbiamo tener conto del fatto che la realizzazione totalmente pura resta sempre un'eccezione e che l'immagine di Dio nell'uomo ha sempre conosciuto delle contaminazioni e deformazioni.


 


È perciò vuoto romanticismo dire: risparmiateci i dogmi, la cristologia, lo Spirito Santo, la Trinità, perché ci basta annunciare Dio Padre e la fraternità tra gli uomini, e questo vivere senza far ricorso a teorie mistiche - questo soltanto sarebbe importante.


 


Un'esigenza che potrebbe sembrare legittima; ma su questa via si arriva davvero a conoscere l'essere così complicato che l'uomo è?


Donde conosciamo che cosa significa essere padri, essere fratelli, in modo tale da poter fondare su questo la nostra fiducia?


 


E vero, anche nelle antiche culture troviamo testimonianze toccanti della fiducia piena nel 'Padre' che è nei cieli. Ma è anche vero che nell'evoluzione successiva l'attenzione religiosa si è rivolta, più che a questo 'Padre celeste', ad altre potenze mondane; nel corso dell'evoluzione storica anche l'immagine dell'uomo e la stessa immagine di Dio hanno assunto ovunque tratti di ambiguità. È noto che i greci chiamavano Zeus con l'appellativo di 'Padre'. Questo, però, non esprimeva per essi alcuna fiducia, ma soltanto la profonda ambiguità di Dio, la tragica ambiguità di un mondo che incuteva paura.


Chiamandolo 'Padre', essi intendevano dire che Dio è come i padri umani: senz'altro buoni quando sono di buon umore, ma nel loro intimo egoisti, tiranni, imprevedibili e pericolosi.


Allo stesso modo essi facevano esperienza del potere misterioso che domina il mondo: alcuni individui vengono corteggiati e stimati, altri vengono lasciati morir di fame e si riducono in schiavitù. Il 'Padre' del mondo, come lo sperimentiamo nella nostra vita, riflette l'immagine dei nostri padri umani: faziosi e, in definitiva, inquietanti. Ma la stessa 'fraternità', oggi tanto esaltata nel prendere distanza dal mondo dei padri, si presenta poi così chiara, così carica di speranze, a livello di esperienza? La prima coppia di fratelli della storia umana è, secondo la Bibbia, quella di Caino e Abele; nel mito romano corrispondono a Romolo e Remo: il motivo è ricorrente, come una parodia crudele all'inno alla 'fraternità', scritta dalla stessa realtà. E le esperienze che abbiamo vissute dal 1789 in poi non hanno forse aggiunto tratti nuovi e ancor più terribili a questa parodia, confermando la visione di 'Caino e Abele' assai più di quanto questa promettesse?


 


Da dove sappiamo che la paternità è bontà affidabile e che Dio, nonostante ogni apparenza, non gioca affatto con il mondo, ma lo ama e lo amerà sempre?


 


Per questo Dio stesso ha dovuto mostrarsi, demolire le immagini e introdurre un nuovo criterio di misura. Questo avvenne nel Figlio, in Cristo.


La sua intera esistenza è proiettata, nella preghiera, dentro l'abisso della verità e della bontà che Dio è.


Solo a partire da questo Figlio noi sperimentiamo realmente chi è il Padre. La critica della religione, nel XIX secolo, sosteneva che le religioni sarebbero sorte nel momento in cui gli uomini incominciarono a proiettare in cielo ciò che consideravano ottimo e bello, per rendersi così più sopportabile il mondo. Quando però incominciarono a proiettare in cielo la loro stessa realtà, a questa diedero il nome di Zeus, un dio inquietante.


Nella Bibbia il Padre non è un duplicato celeste della paternità umana, poiché pone qualcosa di assolutamente nuovo: egli costituisce la critica divina nei confronti della paternità umana. Dio stabilisce il suo proprio criterio .


 


Senza Gesù noi non sapremmo chi è realmente il 'Padre'. Questo ci viene spiegato nella sua preghiera, e tale preghiera accompagna continuamente la vita di Gesù. Un Gesù che non fosse continuamente immerso nel Padre, che non comunicasse continuamente e profondamente con lui, sarebbe un essere del tutto diverso dal Gesù della Bibbia, dal Gesù reale della storia. Gesù ha vissuto di preghiera e nella preghiera ha compreso Dio, il mondo e gli uomini. Guardare il mondo con gli occhi di Dio e viverlo nella sua prospettiva: questo significa porsi alla sequela di Gesù. È lui che ci manifesta che cosa significhi vivere interamente della certezza che 'Dio è'. È lui che ci fa capire che cosa significhi accettare la prima tavola dei comandamenti come davvero 'prima'.


È lui che ha dato senso a questo centro e che ci mostra ciò che esso è.


 


Ma sorge allora un'altra domanda: attraverso la preghiera Gesù comunica incessantemente con Dio; la sua esistenza si fonda sulla preghiera; se non pregasse, Gesù sarebbe diverso da chi effettivamente è. Ma essa riguarda anche il Padre, a cui egli si rivolge, nel senso che anche il Padre sarebbe diverso se non venisse interpellato in questa forma? O questo non lo sfiora minimamente?


 


La risposta è: è proprio del Padre dire 'Figlio' così come è proprio di Gesù dire 'Padre'. Il Padre non può prescindere dal Figlio, così come Gesù non può prescindere dal Padre. Senza questo dialogo il Padre non sarebbe più lo stesso. Gesù non lo sfiora soltanto dall'esterno, ma, in quanto Figlio, appartiene all'essere-Dio di Dio. Prima ancora che il mondo fosse creato, Dio è già amore di Padre e Figlio.


Per tale ragione egli può diventare Padre nostro e criterio di ogni paternità, perché da sempre egli è Padre. Nella preghiera di Gesù possiamo vedere l'interno di Dio stesso, come Dio stesso è.


La fede nel Dio uno e trino non è altro che la spiegazione di ciò che avviene nella preghiera di Gesù. Nella sua preghiera si profila la realtà trinitaria.


 


Ma perché 'trinitaria'? Unità di due, lo abbiamo capito, è evidente da quanto abbiamo detto. Da dove viene, così all'improvviso, il 'Terzo'?


 


A questa domanda dedicheremo un'intera meditazione. Qui ci limitiamo ad alcuni accenni. Diremo innanzitutto che non esiste una pura bi-unità, poiché o rimane la contrapposizione, la dualità - e quindi non si giunge a un'unità reale - o i due si fondono - e quindi la dualità viene eliminata.


Cerchiamo di procedere in modo meno astratto.


 


Padre e Figlio non diventano una-cosa-sola al punto da dissolversi l'uno nell'altro. Rimangono uno di fronte all'altro, poiché l'amore si fonda su una reciprocità che non può essere superata. Se ciascuno rimane se stesso ed essi non si superano reciprocamente, il loro essere una-cosa-sola non può consistere nell'essere ognuno per sé, ma nella fecondità in cui ognuno si dona all'altro pur rimanendo se stesso. Essi sono una-cosa-sola per il fatto che il loro amore è fecondo e va oltre loro stessi. Nel Terzo, nel quale si donano, nel dono, essi sono insieme se stessi e una-cosa-sola.


 


Facciamo un passo indietro.


Nella preghiera di Gesù risplende il Padre, Gesù si fa conoscere come Figlio e così si coglie un'unita che è tri-unità. A partire da qui, diventare cristiani significa partecipare alla preghiera di Gesù, entrare nel suo modello di vita, ossia nel suo modello di preghiera. Farsi cristiani significa dire, con lui, 'Padre' e diventare così figli di Dio - Dio - nell'unità dello Spirito che ci lascia essere noi stessi e proprio così ci inserisce nell'unità di Dio.


Essere cristiani significa guardare il mondo da questo centro e diventare così liberi, nella speranza, in modo deciso e sereno.


 


Siamo così al tempo stesso ritornati al punto di partenza di questa meditazione. Senza esserne consapevoli, siamo stati un giorno battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Un gesto che ci lascia oggi perplessi, poiché abbiamo l'impressione che in questo modo siano state anticipate e imposte alla persona delle decisioni che, in verità, solo lei può prendere. Una simile anticipazione ci sembra compromettere problematicamente la libertà umana in un ambito centrale in cui uno dà forma alla sua vita.


In questo si esprime la nostra profonda insicurezza nei confronti della stessa fede cristiana: l'avvertiamo più come un peso che come grazia, un onere che uno potrebbe accettare solo in base a libera scelta. Qui dimentichiamo, però, che anche la vita ci è data senza averla chiesta, e con la vita molte altre cose: quando un essere umano viene alla luce non gli è data soltanto l'esistenza biologica, ma anche il linguaggio, il tempo, il pensiero, i suoi criteri di valutazione.


Non esiste una vita senza ricevere. Il problema non è che venga dato qualcosa, bensì che cosa viene dato. Se il battesimo rappresenta il dono di essere amati dall'Amore eterno, quale dono sarebbe più prezioso e puro di questo? Il dono della vita, da solo, è privo di senso: può diventare un peso insopportabile. Possiamo dare la vita? Questo è sostenibile solamente se la vita stessa è sostenibile, se essa è sorretta da una speranza capace di superare tutti gli orrori che la terra ci riserva .


 


Se la chiesa appare soltanto come un'associazione di persone che si trovano insieme per caso, il dono della fede diventa allora problematico. Ma chi è convinto che non è un'associazione, bensì un dono dell'amore, che ci attende prima ancora che noi incominciamo a respirare, costui non troverà compito migliore che preparare l'uomo al dono dell'amore, che solo giustifica il dono della vita. Dovremo, dunque, soprattutto imparare nuovamente a comprendere l'essere cristiani alla luce di Dio, come fede nel suo amore, come fede nel fatto che egli è Padre, Figlio e Spirito Santo: solo così ha senso l'affermazione che 'Dio è amore'.


Se Dio non è in sé amore, non è nulla; ma se in sé egli è amore, allora deve essere Io, Tu e poi deve essere una-cosa-sola: deve essere uno e trino.


Chiediamogli di aprirci gli occhi, perché comprendiamo il nostro essere cristiani a partire da Lui, per comprendere così in modo nuovo noi stessi e rendere nuova l'umanità.


 


 


 


- continua


 


NOTE


 


* Titolo originale:


Der Gott]esu Christi.


Betrachlungen uber den Dreieinigen Gali


© 1976,2005 by Kòsel-Verlag GmbH & Co, Munchen


© 1978,2005 2 by Editrice Queriniana, Brescia


via E. Ferri, 75-25123 Brescia (Italia/UE) tei. 030 2306925 - fax 030 2306932 internet: www.queriniana.it e-mail; direzione@queriniana.it


 


Le Note contenute nel libro non saranno riportate per rispettare un certo copyright e, di conseguenza, se siete interessati, dovrete acquistare, giustamente, il libro come abbiamo fatto anche noi.


     


[Modificato da Caterina63 26/07/2014 12:41]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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