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Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici"

Ultimo Aggiornamento: 22/07/2015 11:53
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22/07/2015 11:53


Ratzinger spiega la situazione dell'ecumenismo





A trent'anni dal Vaticano II l'ecumenismo cerca nuovi orientamenti (ma quali?). Quella fase di avvio dell’unità dei cristiani, che si è compiuta nella grande adunanza dei vescovi della Chiesa cattolica, aveva suscitato ampie speranze. Sembrava giunta la fine delle separazioni. Dopo il millennio delle divisioni ci si aspettava una nuova fase di unità cristiana. Paolo VI e il patriarca Atenagora credevano di essere ormai prossimi al ristabilimento della comunione eucaristica tra Oriente e Occidente. Ambedue speravano di poter arrivare presto a bere insieme dallo stesso calice. Ma anche il rapporto con le comunità nate dalla Riforma Protestante si era messo rapidamente in movimento. Furono elaborati testi di consenso sui più difficili temi della controversia: giustificazione, Eucaristia, ministeri; le barriere che erano state erette dal secolo XVI parevano pressoché superate. Da qualche parte, tuttavia, restava sempre un “resto” irrisolto; malgrado tutti gli sforzi di avvicinamento, non si arrivò all’unificazione.


Il modello classico di ecumenismo


Ma, in realtà, qual è la ragione? È questa la domanda a cui nessuno può sottrarsi e che ha in primo luogo a che fare con la fede e con l’unità dei credenti. È chiaro che lanciarsi delle accuse non serve a niente, ma rende solo la cosa più difficile e può sospingere nuovamente verso le antiche polemiche. Ne deriva allora la domanda radicale che si rivolge a tutti: Che cosa abbiamo fatto di sbagliato? Abbiamo bisogno di altri metodi? di altre idee guida? quali?


Questo modo di interrogarsi, che arriva al nucleo della questione, non è sorto solo perché gli sforzi ecumenici finora perseguiti, malgrado tutti i risultati positivi sin qui ottenuti, non sono ancora arrivati al "successo” sperato; ci si interroga in modo nuovo indipendentemente da questo, perché nelle chiese stesse, nel frattempo, molte cose sono cambiate. Il modo in cui al loro interno si intende che cos’è la Chiesa e, quindi, anche quale sia la natura dell'unità a cui tendere, da molti punti di vista non è più semplicemente lo stesso.


Quando il concilio Vaticano II vedeva la Chiesa essenzialmente fondata sulla professione di fede e sui sacramenti, poteva muoversi in questa direzione contando sul consenso non solo della cristianità ortodossa, ma anche della gran parte delle comunità ecclesiali sorte dalla Riforma. Se, però, la Chiesa viene definita mediante la professione di fede (la fede) e il sacramento, si presuppone con ciò anche un determinato modo di intendere l’azione di Dio nella storia, che, da parte sua, si fonda sulla fede in Cristo come vero uomo e vero Dio. Si presuppone che Dio stesso è soggetto che agisce nella storia, non semplicemente l’idea che definisce una  certa immagine del mondo o il concetto teleologico di una storia che marcia verso l’Omega di un mondo migliore. Quello che dà importanza alla storia, nella prospettiva della fede è il fatto che essa sia qualcosa di più che il prodotto di un agire umano finalizzato e di determinate evoluzioni storiche. Essa rappresenta piuttosto lo spazio di un incontro reale tra Dio e l’uomo in questo mondo, un incontro che non solo conduce dei singoli verso Dio, ma li fa vicendevolmente incontrare, li fa diventare una nuova famiglia.


Ciò che rende Chiesa la Chiesa sono allora quegli elementi che non derivano solo dall’azione umana. Sono proprio essi a distinguere la Chiesa da tutte le altre figure umane e a conferirle quella sua unicità, quella sua insostituibile specificità.


La frattura della Chiesa consiste allora nel fatto che si è prodotto uno strappo proprio nella professione di fede e nell’amministrazione dei sacramenti; tutte le altre distinzioni alla fin fine non contano: contro di esse non c’è nulla da obiettare, esse non separano la Chiesa in ciò che è essenziale. La separazione che arriva a quell’ambito che costituisce il nucleo della Chiesa costituisce, al contrario, una minaccia per l’autentico scopo per cui la Chiesa esiste, per la sua stessa essenza.


 





Da questa idea fondamentale di unità derivarono due compiti per l’ecumenismo. Da una parte esso doveva distinguere gli aspetti semplicemente umani delle separazioni dalle tensioni propriamente teologiche. Difatti è proprio ciò che di umano vi è nelle separazioni che tende a darsi l’importanza che spetta a quanto è essenziale, a nascondersi dietro di esso: ciò che è umano, che si è fatto da sé, viene interpretato come se fosse divino. Si espande così la silenziosa divinizzazione di ciò che è proprio, che è poi la costante tentazione dell’uomo.


In gran parte delle divisioni ecclesiali hanno avuto una parte importante tali divinizzazioni di ciò che è sentito come proprio, le pretese con cui si sono considerate determinate forme umane e culturali. L’ecumenismo richiedeva e richiede il tentativo di liberarsi da tali falsificazioni, spesso sottili. Allora si scopre che non c'è affatto bisogno che scompaia la diversità, dato che essa non compromette l'essenza della Chiesa: tale specificità e ogni altra ha diritto di esistere, ma non può essere imposta a tutti.


Si deve ridestare una tolleranza per l'altro che non si fondi sull'indifferenza rispetto alla verità, ma sulla distinzione di verità e semplice tradizione umana.


Nel primo compito dell'ecumenismo, che ho così cercato di abbozzare, il punto era, dunque, vedere i limiti delle richieste di unità; riconoscere ciò che è variabile in quanto tale e imparare a vivere lo stare insieme nella molteplicità di forme storiche adulte. Si esigeva un processo di unificazione che si trova di fronte a inizi sempre nuovi. È così che l'inattesa restituzione della libertà ai cristiani uniti dell’Oriente ha improvvisamente trasformato un tale processo umano e spirituale di apprendimento in una sfida incandescente.


Tutti i consensi teologici fin qui raggiunti vacillano, se non si regge a questa sfida. Si è nuovamente tornati a vedere in maniera inquietante che la teologia da sola non porta con sé le riconciliazioni umane necessarie. Molto concretamente ne deriva che il primo compito appena descritto è del tutto inseparabile dal secondo, che si riferisce alle fratture nella professione di fede e nei sacramenti.


Ora, quasi tutte le fratture si giustificano dapprima con la fede. Verificare se ciò sia fondato è la prima domanda ecumenica, quella che, come si è visto, indaga i fattori non teologici della divisione. Tuttavia, la supposizione che l’altro attribuisca a Dio ciò che in realtà ha trovato lui stesso, può divenire convinzione comune solo per una parte delle domande a cui si è di fronte. Il caso duro della separazione si ha solo quando una o più delle parti sono certe di non difendere le loro idee particolari, ma di lottare per quanto si è ricevuto dalla Rivelazione e che, di conseguenza, non può essere da loro manipolato. I testi di consenso si sono per lo più riferiti a questo ambito di domande.


Scopo del dialogo è allora trovare e riconoscere qualche cosa che sia capace di realizzare unità più a fondo rispetto a delle posizioni apparentemente contrapposte, lasciando ovviamente da parte tutto ciò che deriva solo da determinati sviluppi culturali. Quello che simili esperienze di dialogo chiedono a chi vi partecipa è straordinariamente elevato. Infatti non si tratta semplicemente di scambiarsi le proprie idee. Ciò che è in gioco è qualcosa di diverso dal consenso all’interno di un gruppo; la scoperta di posizioni di mediazione non è la soluzione. Ciascuno è interpellato nel più profondo della propria coscienza. Ciascuno deve piegarsi dinanzi a ciò che non gradisce: anzitutto davanti a quel che lui stesso riconosce come parola di Dio, ma, poi, deve allo stesso tempo rispettare la coscienza dell’altro che non può dichiararsi d’accordo con la sua fede.


È chiaro, allora, che il dialogo ecumenico si trova davanti a un compito che è del tutto differente, per esempio, dalle dispute filosofiche o, ancora di più, dalle trattative politiche. Infatti il suo scopo ultimo è realizzare la comunione nella fede. Dal momento, però, che la fede non è una semplice posizione di pensiero umano, ma il frutto di un dono, anche la comunione non può ultimamente venire da un’operazione del pensiero, ma, a sua volta, può solo essere donata. Poiché lo scopo è la retta conoscenza della parola di Dio e la sua distinzione dalle semplici parole umane, è chiaro che qui non si può lasciare Dio fuori dal gioco.


Proprio su questo punto si sono finora arenati, e non solo nel nostro secolo, tutti i tentativi di unione fondati sulle trattative e sul dialogo. La verità non è una questione di maggioranza. Essa è o non è.


Per questo i concili non sono vincolanti per il fatto che una maggioranza qualificata dei suoi partecipanti ha deciso qualcosa. Come si potrebbe pretendere di stabilire che qualcosa in futuro debba essere vero? I concili si basano sul principio della unanimità morale e questa, a sua volta, non vuol dire una maggioranza particolarmente elevata. Non è il consenso a fondare la verità, ma la verità a fondare il consenso: l’unanimità di così tante persone è sempre stata considerata come qualcosa di umanamente impossibile.


Quando essa compare, ciò che si mostra è la travolgente vittoria della verità stessa. L'unanimità non è il fondamento dell’obbligatorietà, ma il segno della verità che si sta mostrando, ed è da questa che procede l’obbligatorietà. In questa comprensione che i concili hanno di se stessi e che, allo stesso tempo, definisce i limiti di ogni decisione conciliare, si presuppone Dio come soggetto che realmente agisce. E in questo c’è corrispondenza con la fede nel fatto che la Chiesa non è semplicemente una comunità di consenso, ma vive un’unità che proviene da un’autorità superiore .


 





Che cosa accade, però, quando, malgrado tutti gli sforzi, tale unità ultima non si verifica? Alcuni anni or sono ho cercato di trovare una risposta a questa domanda nell’interpretazione di 1Cor 11,19, rilevando come la divisione non rappresenti solo un male realizzato da noi e che, quindi, da noi deve essere ricomposto, ma che in essa si può vedere una sorta di imperativo divino: la separazione è necessaria per la nostra purificazione. Dobbiamo fare tutto il possibile per divenire di nuovo capaci e degni dell'unità, così da non aver più bisogno dello sprone doloroso della divisione. Ma non possiamo neppure decidere semplicemente da noi stessi che essa è ormai finita. Nel dire questo, ho cercato di abbozzare in profonda vicinanza con Oscar Cullmann, un modello ecumenico, di cui sono parti essenziali la reciproca accettazione della divisione e il tentativo vicendevole di riavvicinamento proprio nella divisione. In questo senso potei allora far mie formule come “unità attraverso la diversità”, “unità nella diversità”, “diversità riconciliata".


Un nuovo “paradigma” ecumenico?


Nel frattempo, però, si sono fatti largo degli sviluppi ecclesiali ed ecumenici che attribuiscono a tali formule un senso completamente nuovo. Il rifiuto di quel modello spregiativamente indicato come "ecumenismo del consenso” (Konsensòkumene) si è intanto così diffuso, in qualche caso, anche troppo in fretta, quasi come con un'vvietà eccessiva. La coscienza ecclesiale è mutata sotto molti aspetti e con essa la coscienza ecumenica. Si parla di cambiamento di paradigma ecumenico . Il nuovo orientamento del pensiero, su cui si poggia tale nuova visione si spinge ben oltre le questioni puramente teologiche. Rispetto al carattere controverso della professione di fede e, quindi, della verità in essa proclamata, molti hanno semplicemente posto in questione il concetto stesso di verità. Deve essere davvero quest’ultima il criterio determinante della nostra ricerca?


«D’ora innanzi verità, giustizia, umanità sono al plurale», afferma uno dei portavoce del cosiddetto postmoderno. Si potrebbe subito obiettare: che cosa succede allora con le diverse umanità? Davvero non c’è alcuna misura comune dell’umano? Ma, allora, che cosa possiamo ancora aspettarci l’uno dall’altro? La stessa cosa vale per le diverse giustizie: Ciò che è considerato ingiustizia per l’uno, può essere giustizia per l’altro? Nel caso della verità, poi, non osiamo più porci tanto facilmente la stessa domanda, ma essa non è meno giustificata e necessaria: può essere non vero per l’uno, ciò che è vero per l’altro? La verità non è forse indivisibile?


In ogni caso: le esperienze del cosiddetto ecumenismo del consenso hanno mostrato quanto difficilmente si possa soddisfare l’esigenza della verità, quanto essa superi in continuazione le nostre possibilità. Così si tende, per molti versi, a invertire la relazione tra consenso e verità: non è la verità a creare il consenso, ma sarebbe il consenso l'unica istanza concreta e realistica per stabilire ciò che vale adesso. Anche la professione di fede, allora, non sarebbe espressione di verità, ma avrebbe il suo significato come consenso trovato.


Con ciò, però, si è rovesciata anche la relazione tra verità e prassi. La prassi diventa il criterio della verità. In questa preminenza della prassi oggi si incontrano sempre più le tendenze più diverse. La prassi diventa vera ermeneutica dell’unità. L’ecumenismo supera allora i confini delle confessioni cristiane e diventa ecumenismo delle religioni. In questa prospettiva, il cristianesimo e tutte le altre religioni devono essere misurati sul contributo che sono capaci di offrire alla liberazione dell’uomo, alla loro “prassi di liberazione". Giustizia, pace e tutela del creato diventano allora il nucleo vero della professione di fede. Il servizio a questi ideali appare allora come la ragion d’essere comune di tutte le religioni.


In termini propriamente teologici ciò significa che al posto della cristologia e dell’ecclesiologia subentra l’idea del regno di Dio, che, ovviamente, muovendo da un simile punto di partenza, viene designato semplicemente come “il Regno”. Si vuole infatti lasciare aperta la questione di una concezione personale o impersonale dell’idea di Dio. In un ecumenismo pensato all’insegna del primato della prassi, anche la differenza tra il Dio unico, che si è rivelato Lui stesso con dei nomi, e l'ignoto privo di nome può non essere necessariamente un criterio ultimo .


Su questo punto risulta chiaro come molti tentativi precedentemente compiuti per raggiungere l'unità siano considerati superflui nel momento in cui ci si pone in una simile prospettiva. Se ai fini dell'unità non è più ultimamente rilevante se Dio sia persona nel senso della fede trinitaria cristiana o se esso possa allo stesso modo essere descritto con la formula del Nirvana, nel senso delle tradizioni buddiste, allora, in fondo, il pluralismo può comprendere tutto sia nella questione delle convinzioni religiose che per quanto riguarda l'atto della celebrazione liturgica.


Indubbiamente non si può certo pensare il nuovo "paradigma" ecumenico come una forma di pensiero unitario e pienamente definita nelle sue parti; in essa possono confluire posizioni molto diverse, moderate e radicali. Ciò che è decisivo é la preminenza della prassi. Ciò che è essenziale si trova espresso con precisione in Konrad Kaiser, che, in proposito, dice: «Un nuovo paradigma ecumenico dovrebbe dare libero spazio a una visione dell’ecumenismo che prenda sul serio le contraddizioni, i conflitti e le minacce di una situazione mondiale di interdipendenza e delle figure sociali che la Chiesa assume nella storia» .


Il lavoro ecumenico, allora, non si riferisce «tanto alle convergenze e ai consensi da raggiungere, ma ha di mira anzitutto la collaborazione reciproca, mondiale e solidale, di tutti i cristiani, anzi di tutti gli uomini» .


Non c’è bisogno di dire espressamente che io non posso accettare questo "paradigma" come tale.


 





È facile formulare i grandi scopi: pace, giustizia, tutela del creato. Ma quando la giustizia si frammenta nelle giustizie e tutto ciò compare solo in un plurale che non può più essere superato, allora questi scopi diventano vuoti. Quasi inevitabilmente essi vengono confiscati dal rispettivo spirito di partito, dalle ideologie dominanti. L'ethos senza logos non regge per nulla, ce lo dovrebbe avere insegnato il tracollo del mondo socialista. Una tale critica non significa, però, in nessun modo che il nuovo modello sia da rifiutare in blocco. Sono al contrario convinto che da esso ci sia molto da imparare che possa esserci di aiuto nel momento presente.


Si deve decisamente rifiutare quel relativismo che incide in gradi più o meno chiari sulla dottrina della fede e sulla professione di fede. Ma in questo ambito dovremmo tuttavia cercare di trovare una nuova pazienza, senza indifferenza, gli uni con gli altri e per gli altri; una nuova capacità di lasciar essere ciò che è altro e l'altra persona; una nuova disponibilità a differenziare i piani dell'unità e, dunque, a realizzare gli elementi di unità che sono possibili ora e a lasciare che ciò che ora è impossibile trovi spazio nell’ambito del pluralismo, che può avere anche significato positivo. Proprio mediante tali separazioni tuttora insuperabili, possiamo continuare a diventare l'uno per l'altro di ammonimento e guidarci reciprocamente all'esame di coscienza; spesso abbiamo bisogno dell’appello di questa diversità, che nel frattempo non è superabile, per venire purificati mediante l'obiezione ed essere richiamati da sviluppi unilaterali.


Sebbene io rifiuti decisamente che il logos sia subordinato alla prassi, ritengo che nella sottolineatura della dimensione etica risieda un altro elemento importante, che deve essere ripreso.


Secondo la parola di Gesù dal duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la legge e i profeti (Mt 22,14). «La pienezza della legge è l’amore», così Paolo esprime il medesimo pensiero (Rm 13,10). Se il cristianesimo può essere pienamente definito a partire dalla fede, è pur sempre vero che, d’altra parte, esso deve essere determinato a partire dall'amore.


Questo centro comune della legge e dei profeti, che è anche il centro del messaggio proprio di Gesù, resta un compito impellente di tutta la cristianità: questo centro dovrebbe in effetti essere quella formula ecumenica che sta al di fuori di ogni conflitto. Così, il tema impellente del dialogo ecumenico dovrebbe essere: trovare che cosa significa concretamente in questo momento il comandamento dell'amore. In questo senso un ecumenismo della prassi è richiesto non solo dal nostro momento, storico, ma dalla stessa parola biblica.Probabilmente la volontà decisa di ubbidire al comandamento dell'amore purificherà considerevolmente anche la nostra fede e ci aiuterà a distinguere ciò che è essenziale e ciò che non lo è.


Il cammino dell'ecumenismo oggi e domani


Che cosa deriva da tutto questo per il cammino dell’ecumenismo? Quale visione può guidarci? Ho già citato i limiti del nuovo "paradigma”. La primissima condizione fondamentale è che resti intatta nel suo valore incondizionato la professione di fede nell’unico Dio vivente.


Dove scompare la differenza tra il Dio personale, rivelabile e invocabile e il mistero impersonale, inafferrabile, scompare anche la differenza tra Dio e gli dei, tra adorazione e idolatria. Su questo punto la rivelazione non ci concede nessuna ambiguità.


Non possiamo mettere la profondità filosofica al posto dell’umiltà della parola tramandataci e della sua propria ragionevolezza.


Dio ha parlato: se riteniamo di saperne di più, ci perdiamo nell'oscurità delle nostre opinioni e perdiamo l'unità, invece di muoverci verso di essa.


Ma ciò significa anche che non si può sviluppare un ethos senza logos. Se ci si prova, non restano più criteri di misura e si finisce in un moralismo ideologico con tendenze visionarie o fanatiche. Inoltre, trovare un consenso nell’ethos è forse ancora più difficile che trovarlo nelle grandi questioni dogmatiche: lo mostrano senza lasciare spazio a dubbi le discussioni nell’ambito della teologia morale all’interno della Chiesa cattolica e i dibattiti su temi di carattere etico a livello internazionale. L’aver trascurato l’elemento distintivo del cristianesimo e l’ulteriore frammentazione interna delle chiese, che secondo il nuovo “paradigma” devono vivere in circoli e forme comunitarie pluralistici, può portare anche a nuove chiusure e a nuovi contrasti che non si collocano affatto con leggerezza e serenità all’interno della grande sinfonia pluralistica. Una tale rinuncia a un’unità definita sul piano del contenuto e dotata anche di una forma giuridica può liberare delle tendenze settarie e sincretistiche, che non possono essere più ricondotte nella comunanza dell’ethos.


 





Fede e sacramento restano costitutivi per la Chiesa. Diversamente essa perde se stessa e non ha neppure più nulla da dare all’umanità. Essa vive del fatto che il Logos si è fatto carne, che la verità è divenuta via. La visione della Chiesa e dell’esistenza cristiana sviluppata dalla Bibbia e dai Padri è più che un "paradigma”, più che un modo di vedere le cose legato a una determinata epoca storica. In essa veniamo condotti fuori dai paradigmi fino a toccare la realtà stessa (cfr. Mc 4,18; Gv 16,25). In questo consiste la "rivelazione”; questo è il nucleo della nostra liberazione: l’essere portati fuori dalla camera degli specchi delle immagini e delle visuali storiche e condotti all’incontro con la realtà che ci viene donato in Cristo.


Per questo l’ecumenismo sarà sempre anche ricerca dell’unità nella fede, non solo uno sforzo per trovare l’unità nell’azione. Tuttavia, come già si è detto, questa nuova concezione dell'ecumenismo può e deve ampliare le nostre concrete immagini di riferimento dell’ecumenismo e, in parte, può anche modificarne la sostanza.


Difatti, ci eravamo illusi troppo, quando credevamo che i colloqui teologici potessero in un tempo più o meno breve restaurare l’unità della fede. Ci eravamo persi per strada, mettendoci in testa che un tale scopo potesse essere raggiungibile una volta per tutte in un tempo prefissato. Per un lungo tratto di cammino avevamo scambiato la teologia con la politica, il dialogo sulla fede con la diplomazia. Volevamo fare noi stessi ciò che solo Dio può fare.


Per questo dobbiamo imparare di nuovo la disponibilità a restare in un atteggiamento di ricerca, consapevoli che lo stesso ricercare è un modo di trovare; che l'essere in cammino e l'andare avanti, senza concedersi requie, costituisce l’unico atteggiamento adeguato per l’uomo in cammino alla ricerca dell’eterno. Agostino ha trovato delle parole meravigliose per commentare il versetto del salmo «cercate sempre il Suo volto»: anche nell’eternità il ricercare non viene meno, poiché l’amore per l’infinito è un eterno cercare e scoprire. È chiaro che questa eterna ricerca, che significa al medesimo tempo un “eterno essere già trovati”, è qualcosa d’altro dalla nostra povera e approssimativa ricerca, che così spesso brancola nel buio e così spesso non è la via che non avrà mai fine dell’amore, ma la troppo finita via della nostra ostinazione.


Tuttavia anche in questa disponibilità a rimanere l’uno con l’altro nella ricerca e ad accoglierci nella nostra provvisorietà si trova un sì all’inesauribilità del mistero di Dio; essa può essere un atto di umiltà, in cui accogliamo i nostri limiti e ci consegniamo così alla verità più grande, siila verità di Dio.


In questo senso direi anche che il dialogo teologico come ricerca dell’unità nella fede deve certamente andare avanti. Ma i relativi colloqui dovrebbero essere portati avanti in una maniera più aperta e flessibile, meno indirizzata al successo e più umile, con grande serenità e pazienza. Non ne devono necessariamente sortire dei documenti di consenso. È sufficiente se ne derivano diverse testimonianze di fede, in cui tutti imparano qualche cosa di più della ricchezza del mistero che ci lega. Dal modello prasseologico - come potrei ora definirlo - dovremmo imparare la pazienza dogmatica, senza affondare nell’indifferenza di fronte alla verità e alle sue espressioni linguistiche. Di questo modello dovremmo far nostra la disponibilità nei confronti di ampie forme di pluralità, senza per questo promuovere forme di autosufficienza o di autosoddisfacimento.


Nel fare ciò dovremmo essere preoccupati che l'unità così guadagnata non vada persa, che la comunione ecclesiale non deragli nell’arbitrio. Deve restare chiaro che essa avanza una pretesa che investe tempi e luoghi; deve restare chiaro che non siamo noi a fare la Chiesa, ma che essa è plasmata da Lui,, nella Parola e nel Sacramento, e che solo ciò che è Suo è permanente.


Proprio per questo dovremmo anche continuamente liberarci di quelle istituzioni che ci siamo fatti da soli, così che l’essenziale appaia nella sua ampiezza e grandezza. Allora può esserci libertà per forme differenti e varie, che dovremmo accogliere a cuore aperto, senza progetti pastorali uniformanti.


La condizione per far ciò è sempre che queste forme pensate da uomini non sono poste in termini assoluti, ma devono tendere ad aprirsi a ciò che è comune ed essenziale. Ci saranno allora anche dei punti di incontro e di cammino comune tra forme tra loro simili nelle singole chiese e comunità.


Dovremmo finalmente sottometterci sempre al criterio dell’amore di Dio e del prossimo e cercare di venire incontro, a partire da esso, alle grandi sfide del nostro tempo. 


 





Considerazione finale:


la visione dell'unità escatologica in Solov’èv


Nel riflettere sulla situazione dell'ecumenismo e, più in generale, sulla situazione della cristianità negli ultimi tempi mi torma sempre più spesso alla mente il racconto dell’Anticristo di Solov’èv. Nell’istante dell’ultima decisione si vede che in tutte e tre le comunità - quella di Pietro, di Paolo e di Giovanni - vivono dei sostenitori dell’Anticristo, che fanno sottilmente il suo gioco e sono a lui sottomessi; allo stesso modo, però, si vede come in tutte e tre le comunità siano presenti dei veri cristiani, che mantengono la fedeltà al Signore fino all’ora del Suo ritorno. Dinanzi a Cristo i separati si riconoscono intorno a Pietro, Paolo e Giovanni; i veri cristiani, che erano divisi, si riconoscono ora come da sempre uniti, mentre, al contrario, la schiera dell’Anticristo, viene convinta e travolta dalla sua menzogna. Alla luce del Redentore si rivela chi erano e sono gli uni come gli altri .


Sarebbe pienamente erroneo pensare che questa visione di Solov’èv, appassionato sostenitore dell'ecumenismo, sposti la questione dell’unità cristiana alla fine dei tempi o addirittura in una dimensione post-temporale.


Nella visione di Solovev l’escatologia è rettamente interpretata secondo la Bibbia: essa non è un dopo cronologicamente ordinato come una data che arriverà un giorno nella sequenza dei giorni, in un lontano e indeterminato futuro e che oggi, appunto, non è qui. No, l’escatologico è ciò che è davvero reale, che come tale viene rivelato una volta, ma che impregna di sé tutti i nostri giorni. Non si sarebbe capito nulla del racconto di Solov'èv, se si dicesse che esso sposta l’unità cristiana alla fine dei giorni. Esso mostra piuttosto che questa unità è “escatologica” nel vero senso della parola: sempre già presente eppure mai compiuta all’interno del tempo, mai cristallizzata in un fatto empirico ormai definito come passato.


Quel che diventa visibile nella luce del Cristo che ritorna, svela la verità del nostro tempo, anzi, di ogni tempo. In tutte e tre le grandi comunità ci sono dei veri cristiani, ma in tutte l’Anticristo ha anche trovato dei sostenitori, persino fino ai livelli delle cariche spirituali più alte. La cernita definitiva avverrà solo nel giorno del raccolto. Ma già ora, a nostra consolazione e per quel timore che ci porta salvezza, possiamo avere esperienza di questa realtà nascosta. Già ora dovremmo incontrarci con lo sguardo escatologico; già ora dovremmo portare in noi la gioia di questo riconoscimento futuro.


Allo stesso modo già ora e per sempre deve agitarci l'ansia di non divenire, con grandi parole e drappeggi cristiani, servitori dell'Anticristo, che vuole instaurare il    suo regno in questo mondo e rendere superfluo il regno di Cristo. Pietro, Paolo e Giovanni sono inseparabili. Insieme con loro, guidati da loro, dobbiamo cercare sempre e sempre di nuovo il volto del Signore. Solo a partire da lui noi riconosciamo noi stessi e ci riconosciamo a vicenda.


L’ecumenismo non è altro che vivere già ora nella luce escatologica, nella luce del Cristo che torna. Per questo esso significa anche che noi riconosciamo la provvisorietà del nostro agire, che noi non possiamo portare da noi stessi a conclusione; riconosciamo che noi stessi non vogliamo fare ciò che solo il Signore che torna può operare. In cammino verso di Lui, noi siamo in cammino verso l'unità.


 


(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 61-79



 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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