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Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici"

Ultimo Aggiornamento: 22/07/2015 11:53
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22/07/2015 11:48





Ratzinger e La Chiesa sulla soglia del Terzo Millennio

 

(cliccare sulle immagini per ingrandirle)

Recentemente ho letto su una rivista una battuta di un intellettuale tedesco che, di se stesso, diceva che nella questione di Dio era agnostico. A suo parere, non sarebbe possibile né dimostrare Dio né escludere in maniera assoluta la sua esistenza e, dunque, la domanda resta aperta.

Al contrario, però, aggiungeva, di essere pienamente certo dell'esistenza dell’inferno; uno sguardo alla televisione è sufficiente a constatare che esso esiste. Mentre la prima metà di questa confessione corrisponde certamente alla coscienza moderna, la seconda appare strana, anzi incomprensibile, almeno a sentirla la prima volta. Difatti, come si può credere all’inferno se Dio non ce? L’inferno è precisamente la condizione di assenza di Dio. È questa la sua definizione: dove non c'è Dio, dove non arriva più alcun raggio della sua presenza, lì c’è l’inferno. Forse non ce lo mostra proprio lo sguardo di ogni giorno alla televisione, ma, certamente, uno sguardo alla storia del secolo appena trascorso, che ci ha lasciato in eredità parole come Auschwitz e l’arcipelago gulag o nomi come Hitler, Stalin e Pol Pot. Chi legge le testimonianze di quelle situazioni storiche, incontra visioni che per orrore e distruzione non sono in nulla inferiori alla discesa agli inferi di Dante, anzi sono ancora più terribili, poiché vi compaiono dimensioni del male in cui lo sguardo di Dante non poteva penetrare.

Questi inferni furono costruiti per aprire la strada al mondo futuro dell’uomo che appartiene solo a se stesso e che non ha più bisogno di alcun Dio. L’uomo fu immolato al Moloch dell’utopia di un mondo liberato da Dio, l’uomo che ora disponeva interamente di se stesso e non conosceva più limiti alla propria capacità di disporre della realtà, poiché non c’era più alcun Dio sopra di lui, poiché dall’uomo stesso non traspariva più alcuna luce del proprio essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Dove non c'è Dio sorge l’inferno, esso consiste appunto nella sua assenza. E ciò può compiersi anche in forme sottili e quasi sempre in nome dell’idea della benevolenza nei confronti dell'uomo.

Quando oggi si fa del commercio con gli organi umani, quando vengono prodotti dei feti per ricavarne provviste di organi o per portare avanti la ricerca su malattia e salute, sono in molti a mettere anzitutto in evidenza il contenuto umanistico di questo agire; ma con il disprezzo per l’uomo che vi è sotteso, con questo uso e abuso di persone umane ci troviamo appunto di nuovo nella discesa all’inferno. Questo non significa che non possano esserci degli atei con una grande tensione morale, come, di fatto, vi sono. Ma oso ritenere che questa tensione morale si fonda sul fatto che non si è ancora spento il riverbero della luce che un tempo è giunta dal Sinai, la luce di Dio. Stelle molto lontane, ormai spente, possono sempre continuare a far brillare la loro luce in noi. Anche dove Dio appare morto, la sua luce può ancora continuare a operare. Ma Nietzsche ha giustamente rilevato che l’istante in cui sarà arrivato dappertutto il messaggio della morte di Dio, potrà solo essere terribile.

Perché dico queste cose in una riflessione il cui tema è che cosa dobbiamo fare noi cristiani oggi, nella nostra situazione storica all’inizio del terzo millennio? Le dico perché proprio in questo modo si rende chiaro quale è il nostro compito cristiano. Esso è tanto semplice quanto grande: si tratta di testimoniare Dio, di spalancare le finestre chiuse e oscurate, perché la sua luce possa brillare tra noi, perché ci sia spazio per la sua presenza.

Difatti, è altrettanto vero che dove c’è Dio c’è il cielo, lì, anche nella fatica e nella tribolazione della nostra esistenza, la vita si fa luminosa. Il cristianesimo non è una filosofia complicata e ormai invecchiata, non è un confuso e intricato pacchetto di dogmi e di prescrizioni etiche. La fede cristiana è essere toccati da Dio e rendergli testimonianza. Proprio in questo senso sull’Areopago Paolo ha descritto il suo compito e la sua intenzione, quella di voler rendere noto agli ateniesi, a cui parlava come rappresentanti di tutti i popoli pagani, il dio sconosciuto, il Dio che era uscito dal suo nascondimento, che si era manifestato lui stesso e che poteva quindi essere da lui annunciato (At 17,16-34).

Il richiamo della citazione del dio sconosciuto presuppone che l’uomo, pur nella sua non conoscenza, abbia in qualche modo un'idea di Dio. Tale richiamo risponde allora alla condizione dell’agnostico, che non conosce Dio e che, però, non lo può escludere. Presuppone che l'uomo, in qualche modo, sia in attesa di Dio, ma non possa con le sue capacità arrivare a lui e, quindi, abbia bisogno dell’annuncio, della mano che lo accompagni e lo faccia salire nello spazio della sua presenza.

 

Possiamo allora dire che la Chiesa esiste perché sia reso noto Dio, il Dio vivente, perché l’uomo possa imparare a vivere con Dio, sotto il suo sguardo e in comunione con lui. La Chiesa esiste per combattere e impedire l’avanzata dell’inferno sulla terra e per rendere abitabile la terra grazie alla luce di Dio. A partire da Dio, solo a partire da lui, essa diviene umana.

È un’idea che possiamo formulare anche con la terza invocazione del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra». Dove è fatta la volontà di Dio, ce il cielo, la terra può diventare cielo. Per questo si tratta, allora, di rendere riconoscibile la volontà di Dio e di mettere in sintonia la volontà dell'uomo con la volontà di Dio. Non si può infatti riconoscere Dio in una maniera puramente accademica; non se ne può semplicemente prendere notizia, allo stesso modo in cui registro l’esistenza di astri lontani e di dati della storia passata. La conoscenza di Dio può essere paragonata alla conoscenza dell’amante: mi riguarda completamente, interpreta la mia volontà e si arena se non arriva a questo accordo integrale.

Con ciò, però, mi sono già spinto a un punto successivo. Per il momento limitiamoci a constatare: il punto per la Chiesa non è mai solo il mantenimento o anche l'accrescimento e l'ampliamento di ciò che si ha. La Chiesa non esiste per se stessa. Non può essere paragonata a un'associazione che in circostanze difficili deve, appunto, cercare di mantenersi a galla. Essa ha un compito per il mondo, per l'umanità. Solo per questo essa deve sopravvivere, perché la sua scomparsa trascinerebbe l'umanità nel gorgo dell’oscurità di Dio e, dunque, dell’ottenebrazione, anzi della distruzione stessa dell’umano.

Noi non combattiamo per mantenerci a galla, abbiamo coscienza che ci è stata affidata una missione che ci dà la responsabilità per tutti. Per questo la Chiesa deve misurarsi e sarà misurata su quanto in essa sono vivi la presenza di Dio, la sua conoscenza e l’accoglimento della sua volontà.

Una Chiesa che fosse solo un apparato che manda avanti se stesso, sarebbe una caricatura di Chiesa. Nel momento in cui essa gira intorno a se stessa e guarda alla propria sopravvivenza come all’unico scopo, essa si rende superflua e cade in rovina, anche quando avesse a disposizione grandi mezzi e un management astuto. Essa può vivere e portare frutto solo se è vivo, in lei il primato di Dio.

La Chiesa non esiste per se stessa, ma per l’umanità. Essa è qui per questo, perché il mondo diventi uno spazio per la presenza di Dio, spazio dell’Alleanza tra Dio e l’uomo. Questo è quello che si legge già nel racconto della creazione (Gn 1,1-2,4): il procedere del testo in direzione del Sabbat intende mettere in evidenza che la creazione ha un suo fondamento interno. Essa esiste perché possa accadere l’Alleanza, in cui Dio dona il suo amore e riceve la risposta dell’amore.

Il pensiero che la Chiesa esiste per l’umanità appare ultimamente in una variante che sembra chiara al nostro pensiero, ma mette in gioco l’essenziale. Si dice che in tempi recenti la storia della teologia e dell’autocoscienza ecclesiale abbia percorso tre stadi: dall'ecclesiocentrismo al cristocentrismo e, infine, al geocentrismo.

Questo sarebbe un progresso, ma il punto decisivo non è stato ancora raggiunto. È chiaro, si dice, che l’ecclesiocentrismo era falso: la Chiesa non può fare di se stessa il centro, essa non esiste per se stessa.

Si procede allora fino al cristocentrismo: Cristo deve essere il centro. Ma, poi, si è riconosciuto che anche Cristo rinvia oltre se stesso, al Padre, e si sarebbe così giunti al teocentrismo, cosa che comporta altresì un progressivo aprirsi della Chiesa verso l’esterno, alle altre religioni: la Chiesa separa, ma anche Cristo separa, così si dice. E a questo punto si aggiunge: anche Dio separa, dato che le immagini di Dio sono opposte e vi sono religioni senza un Dio personale, visioni del mondo senza Dio.

Così, come quarto stadio, in apparente nesso con il Vangelo, si arriva a postulare la centralità del Regno, che non si chiama più regno di Dio, ma appunto, semplicemente regno come immagine del mondo migliore che si deve costruire. La centralità del Regno significa che ora tutti, al di là dei confini di religioni e ideologie, possano collaborare per i valori del Regno, che sono: pace, giustizia e tutela del creato.

Questa triade di valori si è imposta oggi come surrogato dell’idea smarrita di Dio e, allo stesso tempo, come formula di unificazione che, al di là delle differenze, potrebbe fondare la comunità mondiale degli uomini di buona volontà (e chi non lo è?) e così fare appunto realmente emergere il mondo migliore.

Tutto ciò suona seducente.

Chi non si sentirebbe obbligato al grande scopo della pace sulla terra?

Chi non sentirebbe di dover lottare perché si faccia giustizia, perché possano finalmente scomparire le drammatiche differenze tra classi sociali, razze e continenti?

E chi oggi non vede la necessità di difendere la creazione da tutto ciò che oggi la minaccia e la distrugge?

Ma, allora, Dio è divenuto superfluo?

La triade dei valori può subentrare al suo posto?

Ma da dove possiamo capire che cosa è davvero utile alla pace? Da dove possiamo trarre il criterio per stabilire ciò che è giusto e distinguere quali sono le vie che portano alla giustizia e quali ci allontano da essa? E in che modo possiamo riconoscere dove la tecnica è conforme alle esigenze della creazione e dove, invece, ne causa la distruzione?

Chiunque guardi il modo in cui la triade dei valori è accostata a livello mondiale, non può far finta di non vedere che essa diventa sempre di più il terreno di incontro delle ideologie e che essa non può sussistere senza un criterio fondante di ciò che è conforme all’essere, alla creazione e alla persona umana. I valori non possono sostituire la verità, non possono sostituire Dio, di cui essi non sono che il riflesso e senza la cui luce essi perderebbero i loro contorni.

 

Si capisce allora che cosa significa che senza Dio il mondo non può essere luminoso e che la Chiesa serve il mondo in questo modo, per il fatto che in essa Dio vive e che essa è trasparente per lui, lo porta all’umanità.

Siamo così finalmente arrivati alla questione strettamente pratica: come accade questo? Come noi possiamo riconoscere Dio e come possiamo portarlo agli altri? Penso che per fare questo diverse vie devono integrarsi e armonizzarsi.

La prima via è quella che ha percorso Paolo all’Areopago: richiamarsi a quella conoscenza previa e nascosta di Dio che l'uomo possiede, l'appello alla ragione. «Dio non è lontano da noi», dice Paolo, poiché «in lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,27s). Nella lettera ai Romani si incontra lo stesso pensiero in forma ancora più incisiva: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (1,20). La fede cristiana fa appello alla ragione, alla trasparenza della creazione verso il Creatore. La religione cristiana è religione del Logos: «In principio era la Parola», così noi traduciamo il primo versetto del vangelo di Giovanni che, a sua volta, consapevolmente riprende il primo versetto della Bibbia, il racconto della creazione per mezzo della Parola.

Ma «parola» (Logos) in senso biblico significa anche ragione, la sua potenza creatrice. Ciò nondimeno: il versetto del principio del mondo nella Parola così intesa ha ancora oggi il suo valore? La Chiesa può ancor oggi, con la Bibbia, appellarsi alla ragione, rinviare alla trasparenza del creato rispetto allo Spirito Creatore?

C'è oggi una versione materialistica della teoria dell'evoluzione che si presenta come l'ultima parola della scienza e avanza la pretesa di aver reso superfluo lo spirito creatore per mezzo delle proprie ipotesi, anzi di averlo definitivamente escluso. Jacques Monod, che ha elaborato tale visione con ammirabile consequenzialità, a proposito della sua teoria ha detto con la schiettezza che gli è propria: «Il miracolo è stato sì “chiarito”, ma resta per noi un miracolo». Egli cita poi il commento di Francois Mauriac alle sue tesi: «Quel che dice questo professore è ancora più incredibile di quello che crediamo noi poveri cristiani». E al riguardo dice: «È altrettanto vero quanto il fatto che non ci riesce farci un’immagine spirituale soddisfacente di determinate astrazioni della fisica moderna. D’altra parte sappiamo anche che tali difficoltà non possono valere come argomenti contro una teoria che ha dalla sua le certezze dell’esperienza e della logica» .

A ciò si deve ribattere: quale logica? Non posso riprendere qui questa disputa e non lo farò; vorrei solo dire che la fede non ha nessuna ragione di sgombrare il campo: l’opzione che il mondo ha origine dalla ragione e non dall’irrazionale è anche oggi razionalmente sostenibile, anche se, certamente, deve essere formulata nel dialogo con le conoscenze reali della scienza della natura. Oggi è un compito della Chiesa rimettere nuovamente in moto la battaglia per la ragionevolezza della fede o della non fede. La fede non è l’avversaria della ragione, ma l’avvocato della sua grandezza, come ha spiegato appassionatamente il papa nella sua enciclica Fede e ragione.

Io considero la lotta per la nuova presenza della ragionevolezza della fede come un compito impellente della Chiesa nel nostro secolo. La fede non può ritirarsi nel proprio guscio di una decisione ormai non più fondata, ridursi a una sorta di sistema simbolico in cui ci si ingabbia, ma che alla fine resterebbe solo una scelta casuale tra tante altre visioni della vita e del mondo. Essa ha bisogno dello spazio grande della ragione aperta, ha bisogno di confessare il Dio creatore, poiché senza questa confessione anche la cristologia si rimpicciolisce, e finisce per parlare solo indirettamente di Dio, riferendosi a una particolare esperienza religiosa che, però, è necessariamente limitata e diventa un’esperienza tra tante altre.

L’appello alla ragione è un grande compito della Chiesa, specialmente oggi, poiché dove fede e ragione si separano luna dall’altra, ambedue si ammalano.

La ragione diventa fredda e perde i suoi criteri, diventa crudele, perché non c’è più nulla sopra di essa. La ragione limitata dell’uomo decide allora da sola come deve muoversi nei confronti della realtà creata, chi può vivere e chi deve essere escluso dal tavolo della vita: la via verso l’inferno, lo abbiamo visto, è allora aperta. Ma anche la fede diventa malata senza lo spazio ampio della ragione. Quali gravissime distruzioni possano derivare da una religiosità malata lo vediamo abbondantemente nel nostro presente.

Non a caso l’Apocalisse presenta la religione malata, che si è congedata dalla grandezza della fede della creazione, come l’autentico potere dell’Anticristo.

Resta vero che la rivelazione propria della creazione, a cui fa riferimento Paolo nel discorso dell’Areopago e nella lettera ai Romani, da sola non basta per condurre realmente la persona umana alla relazione con Dio. Dio è venuto incontro all’uomo. Gli ha mostrato il suo volto, gli ha aperto il suo cuore. «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato», dice il Vangelo di Giovanni (1,18). 

 

È questo il messaggio che la Chiesa deve trasmettere, essa deve portare gli uomini a Cristo (e qui siamo alla seconda via che diventa poi sempre uno svincolo unico), Cristo agli uomini, per portare loro Dio e loro a Dio. Cristo non è un qualche uomo più grande, con una importante esperienza religiosa: egli è Dio, Dio che si è fatto uomo, perché vi sia il ponte tra uomo e Dio e l’uomo possa davvero diventare se stesso. Chi vede Cristo solo come una grande personalità religiosa, non lo vede realmente.

La via da Cristo e a Cristo deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Marco, nella professione di fede del centurione romano davanti al Crocifisso: «Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio» (15,39).

Deve arrivare là, dove sfocia il Vangelo di Giovanni, nella professione di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio» (20,28).

Deve attraversare il grande arco che percorre il Vangelo di Matteo dal racconto dell’Annunciazione fino al discorso missionario del Risorto. Nel racconto dell’Annunciazione Gesù viene annunciato come il «Dio con noi» (1,23). E l’ultima parola del Vangelo riprende questo messaggio: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20). Per conoscere Cristo, si deve percorrere con lui la via su cui ci conducono i vangeli.

Il compito grande e centrale della Chiesa oggi, come ieri e come sempre, è quello di indicare la via e di offrire una compagnia per percorrerla. L’ho detto prima: Dio non si conosce solo con la ragione, ma anche con la volontà e con il cuore. Per questo la conoscenza di Dio, la conoscenza di Cristo, è un cammino in cui è interpellata la totalità del nostro essere. La più bella rappresentazione del nostro essere in cammino la offre Luca nel racconto dei discepoli di Emmaus. È un essere in cammino con la parola vivente di Cristo, che ci spiega la parola scritta, la Bibbia; la fa diventare essa stessa il cammino che rende ardente il cuore e, così, alla fine gli occhi si aprono. La Scrittura, il vero albero della conoscenza, ci apre gli occhi, se noi allo stesso tempo mangiamo del vero albero della vita, Cristo. Allora diventiamo davvero vedenti, e allora viviamo davvero.

Tre cose fanno parte di questo cammino: la comunità dei discepoli, la Scrittura, la presenza vivente di Cristo. Questo cammino dei discepoli di Emmaus è allora, allo stesso tempo, anche una descrizione della Chiesa - una descrizione di come maturi la conoscenza che si avvicina a Dio. Questa conoscenza diviene comunione vicendevole, sfocia nello spezzare il pane, in cui l’uomo diviene ospite di Dio e Dio dà ospitalità all’uomo. Cristo - qui lo si vede con chiarezza - non lo si può avere solo per se stessi. Egli non solo ci conduce fino a Dio, ma gli uni verso gli altri. Per questo Cristo e la Chiesa formano un insieme, così come Chiesa e Bibbia formano un insieme. Realizzare questa grande comunione nelle singole concrete comunità della diocesi, della parrocchia, dei movimenti ecclesiali è e resta il compito centrale della Chiesa, ieri, oggi, domani. Essa deve diventare sperimentabile come compagnia che sostiene il nostro cammino, con le nostre preoccupazioni, con la parola di Dio, con Cristo, e introdurci al dono del sacramento, in cui continuerà a essere anticipato il banchetto nuziale di Dio con l’umanità.

Se torniamo a guardare a quanto è stato sinora oggetto della nostra riflessione, possiamo allora dire che il tema Cristo non è, in definitiva, un tema proprio, un secondo tema accanto al tema Dio, ma è il modo in cui il tema Dio si fa per noi pienamente concreto, ci incalza fisicamente e urge nell’anima. E, a sua volta, il tema Chiesa non è un terzo tema, un tema proprio, ma è introdotto per servire il tema Cristo: la Chiesa è la compagnia nel cammino con lui e verso di lui, e solo se resta in questo ruolo di servizio, la comprendiamo correttamente; allora possiamo anche amarla davvero, così come si amano dei compagni di cammino.

 

Ora si dovrebbero, però, sviluppare in maniera più analitica i singoli elementi di questo essere in cammino. In proposito il papa ha già detto tutto l'essenziale nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte e, per questo, nella parte conclusiva di queste riflessioni desidero limitarmi a un paio di osservazioni.

In questo testo il papa parla in maniera esaustiva dell’importanza della preghiera, che sola rende cristiano il cristiano. Nella preghiera, egli dice, noi sperimentiamo il primato della grazia: Dio ci è sempre davanti. Il cristianesimo non è un moralismo, qualcosa che facciamo noi. Anzitutto è Dio che ci viene incontro, poi noi possiamo andare con lui, poi le nostre energie interiori si liberano. E la preghiera, così continua, ci fa sperimentare il primato di Cristo, il primato dell'interiorità e della santità. Il papa, proprio a questo punto, introduce una domanda che fa pensare: «Quando questo principio non è rispettato, ce da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell’animo un avvilente senso di frustrazione?» (38). Al di sopra del nostro attivismo dobbiamo tornare a imparare il primato dell'interiorità; la componente mistica del cristianesimo deve nuovamente guadagnare forza.

Dalla preghiera personale il papa procede in maniera del tutto conseguente fino alla preghiera liturgica comune, in primo luogo l'Eucaristia domenicale. La domenica come giorno della resurrezione e l’Eucaristia come incontro con il Risorto costituiscono un insieme. Il tempo ha bisogno di un suo ritmo interno. Esso ha bisogno della corrispondenza tra il quotidiano del nostro lavoro e l'incontro festivo con Cristo nella Chiesa, nel sacramento.

Riguadagnare la domenica: per il papa questo è giustamente un compito pastorale di primo rango. Il tempo riceve così il suo ordine interno, Dio ritorna il punto di partenza e il punto di arrivo del tempo. Allo stesso tempo questo è anche il giorno della comunità umana, il giorno della famiglia, in piccolo, e il giorno in cui si forma la grande famiglia, la famiglia di Dio nella Chiesa, e la Chiesa diventa esperienza di vita. Dove la Chiesa conosce solo riunioni e pezzi di carta, lì non la si conosce. Lì essa diventa scandalo, perché o si riduce a oggetto del nostro fare o appare come qualcosa di imposto dall’esterno, qualcosa di estraneo. Noi conosciamo la Chiesa dall'interno solo se la sperimentiamo nel punto dove essa va oltre se stessa, dove il Signore entra in lei e la rende sua casa e, per ciò stesso, noi diventiamo suoi fratelli.

Per questo è anche importante la degna celebrazione dell'Eucaristia, in cui deve apparire questa autoespropriazione della Chiesa. Non siamo noi a fare la liturgia.

Noi non inventiamo qualcosa, come fanno i comitati organizzatori di feste mondane o come fanno i conduttori di quiz. Il Signore viene. La liturgia giunge a noi da lui, maturata a partire dagli apostoli nella fede della Chiesa; noi entriamo in essa, e non la facciamo noi.

Solo così ha luogo la festa, e la festa, come anticipazione della libertà futura, è indispensabile per la persona umana. Si potrebbe anche dire: questo è il compito della Chiesa, donarci l’avvenimento della festa. La festa è sorta in tutta la storia dell'umanità come evento cultuale e non è pensabile senza la presenza del divino. La sua piena grandezza si verifica quando Dio diventa realmente nostro ospite e ci invita al suo banchetto.

 

Ci sono ancora due punti che vorrei menzionare.

Il papa passa dalla liturgia domenicale al sacramento della riconciliazione.

Negli ultimi decenni nessun sacramento ci è divenuto tanto estraneo come questo. Eppure, chi non è consapevole che abbiamo bisogno della riconciliazione? Che ci è necessario il perdono, la purificazione interiore?

Nel frattempo siamo sempre più scivolati verso la psicoterapia e la psicoanalisi, come se i compiti e le possibilità di queste non fossero a loro volta oggetto di discussione. Ma, senza la parola della riconciliazione che viene da Dio, i nostri tentativi di riparare la psiche malata, restano insufficienti.

Questo mi porta a un secondo richiamo. Avevo detto che per la conoscenza di Dio è necessario tutta la persona umana: intelletto, volontà, cuore. Sul piano pratico ciò significa che noi non possiamo conoscere Dio se non siamo disposti ad affidarci alla sua volontà, a prenderlo come criterio e orientamento della nostra vita. Ancora più concretamente ciò significa che la compagnia nel cammino della fede, la compagnia in cammino verso Dio, è una cosa sola con la vita secondo i comandamenti. Non si tratta di una determinazione eteronoma che viene imposta all'uomo. Nel consentire alla volontà di Dio si compie la nostra somiglianza con Dio e noi diventiamo ciò che siamo: immagine di Dio.

E poiché Dio è amore, anche i comandamenti, in cui si manifesta la sua volontà, sono le variazioni essenziali dell'unico tema dell’amore. Essi sono le concrete regole dell’amore per Dio, per il prossimo, per la realtà creata, per noi stessi. E poiché in Cristo è il Sì pieno alla volontà di Dio, l'essere a sua immagine nella sua grandezza completa, allora vivere secondo l'amore e nella volontà di Dio è seguire Cristo, andare verso di lui e con lui.

Nella Chiesa degli ultimi decenni anche il richiamo ai comandamenti si è fatto davvero flebile; troppo forte è il timore di dare spazio al sospetto di legalismo e di moralismo. In effetti la parola dei comandamenti resta esteriore se non è illuminata dall’interiorità di Dio in noi stessi e dalla consapevolezza che Cristo ha segnato per noi tutti la strada in anticipo.

Resta moralistico se non sta nella luce della grazia del perdono. Israele era orgoglioso di conoscere la volontà di Dio e di sapere così qual è la via della vita. Il salmo 119 è tutto uno scaturire di gratitudine sempre nuova e di gioia per la conoscenza della volontà di Dio.

Noi ora conosciamo questa volontà divenuta carne in Gesù Cristo come indicazione del cammino da percorrere e allo stesso tempo come misericordia, che ci riprende sempre e sempre ci conduce. Non dovremmo tornare a gioire di essa in mezzo a un mondo pieno di confusione e di oscurità? Ridestare la gioia per Dio, la gioia per il Dio della rivelazione, per l’amicizia con Dio, mi sembra un compito impèllente per la Chiesa nel nostro millennio.

Anche per noi vale la parola che il sacerdote Esdra rivolge a un popolo di Israele divenuto un po’ pavido dopo l’esilio: la gioia del Signore è la nostra forza (Ne 8,10).

Desidero concludere con un’immagine tratta dalla Divina Commedia di Dante. Eravamo partiti dalla discesa all’inferno, nel mondo senza Dio. Dante rappresenta la via della purificazione, la via che porta a Dio come la salita di una montagna. La via esteriore diventa il simbolo del cammino interiore che porta all’autentica vetta, all’altezza di Dio. Inizialmente questo salire è infinitamente difficile per la persona ancora legata alla terra. Nella visione poetica di Dante, dopo la prima tappa del cammino, un angelo cancella il segno della superbia dalla fronte di colui che sale, e ora gli sopravviene, mentre prosegue, un sentimento singolare:

"Già montavam su per li scaglion santi

ed esser mi parea troppo più lieve

che per lo pian non mi parea davanti.

Ond’ io: «Maestro, di', qual cosa greve

levata s'è da me, che nulla quasi

per me fatica, andando, si riceve?».

(Purg. XII, 115-120)

La liberazione dalla superbia diventa superamento del peso. I nostri sentimenti, come la superbia, l'avarizia, l’ambizione e tutto quanto ancora di oscuro e di malvagio abita nella nostra anima, sono come pesi di piombo, che ci impediscono la salita, che ci rendono incapaci dell’altezza: «quanto più l’uomo diventa puro, tanto più diviene affine al piano superiore. Il suo peso scema, la sua forza ascensionale cresce... la libertà cresce; è perfetta quando volontà ed esigenza fanno tutt’uno» (diceva R. Guardini in L'angelo nella Divina Commedia, in Studi su Dante, Brescia 1979).

La compagnia nel cammino della fede, che noi chiamiamo Chiesa, deve essere una compagnia nel salire, una compagnia in cui si compie in noi quella purificazione che ci rende capaci della vera altezza dell'essere uomini, della compagnia con Dio. Nella misura della purificazione anche la salita, che all’inizio è così faticosa, diventa sempre più gioiosa. Questa gioia dalla Chiesa deve sempre più trasparire fin dentro il mondo.

 

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(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 97-113

 

della stessa serie consigliamo anche:

Ratzinger La Chiesa non dipende dalle maggioranze  

Il compito del cristiano nella Chiesa e nella società

Le profezie del cardinale Ratzinger sulla Chiesa

 

e qui l'indice di tutti gli scritti di Ratzinger

 
 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Ratzinger spiega la situazione dell'ecumenismo





A trent'anni dal Vaticano II l'ecumenismo cerca nuovi orientamenti (ma quali?). Quella fase di avvio dell’unità dei cristiani, che si è compiuta nella grande adunanza dei vescovi della Chiesa cattolica, aveva suscitato ampie speranze. Sembrava giunta la fine delle separazioni. Dopo il millennio delle divisioni ci si aspettava una nuova fase di unità cristiana. Paolo VI e il patriarca Atenagora credevano di essere ormai prossimi al ristabilimento della comunione eucaristica tra Oriente e Occidente. Ambedue speravano di poter arrivare presto a bere insieme dallo stesso calice. Ma anche il rapporto con le comunità nate dalla Riforma Protestante si era messo rapidamente in movimento. Furono elaborati testi di consenso sui più difficili temi della controversia: giustificazione, Eucaristia, ministeri; le barriere che erano state erette dal secolo XVI parevano pressoché superate. Da qualche parte, tuttavia, restava sempre un “resto” irrisolto; malgrado tutti gli sforzi di avvicinamento, non si arrivò all’unificazione.


Il modello classico di ecumenismo


Ma, in realtà, qual è la ragione? È questa la domanda a cui nessuno può sottrarsi e che ha in primo luogo a che fare con la fede e con l’unità dei credenti. È chiaro che lanciarsi delle accuse non serve a niente, ma rende solo la cosa più difficile e può sospingere nuovamente verso le antiche polemiche. Ne deriva allora la domanda radicale che si rivolge a tutti: Che cosa abbiamo fatto di sbagliato? Abbiamo bisogno di altri metodi? di altre idee guida? quali?


Questo modo di interrogarsi, che arriva al nucleo della questione, non è sorto solo perché gli sforzi ecumenici finora perseguiti, malgrado tutti i risultati positivi sin qui ottenuti, non sono ancora arrivati al "successo” sperato; ci si interroga in modo nuovo indipendentemente da questo, perché nelle chiese stesse, nel frattempo, molte cose sono cambiate. Il modo in cui al loro interno si intende che cos’è la Chiesa e, quindi, anche quale sia la natura dell'unità a cui tendere, da molti punti di vista non è più semplicemente lo stesso.


Quando il concilio Vaticano II vedeva la Chiesa essenzialmente fondata sulla professione di fede e sui sacramenti, poteva muoversi in questa direzione contando sul consenso non solo della cristianità ortodossa, ma anche della gran parte delle comunità ecclesiali sorte dalla Riforma. Se, però, la Chiesa viene definita mediante la professione di fede (la fede) e il sacramento, si presuppone con ciò anche un determinato modo di intendere l’azione di Dio nella storia, che, da parte sua, si fonda sulla fede in Cristo come vero uomo e vero Dio. Si presuppone che Dio stesso è soggetto che agisce nella storia, non semplicemente l’idea che definisce una  certa immagine del mondo o il concetto teleologico di una storia che marcia verso l’Omega di un mondo migliore. Quello che dà importanza alla storia, nella prospettiva della fede è il fatto che essa sia qualcosa di più che il prodotto di un agire umano finalizzato e di determinate evoluzioni storiche. Essa rappresenta piuttosto lo spazio di un incontro reale tra Dio e l’uomo in questo mondo, un incontro che non solo conduce dei singoli verso Dio, ma li fa vicendevolmente incontrare, li fa diventare una nuova famiglia.


Ciò che rende Chiesa la Chiesa sono allora quegli elementi che non derivano solo dall’azione umana. Sono proprio essi a distinguere la Chiesa da tutte le altre figure umane e a conferirle quella sua unicità, quella sua insostituibile specificità.


La frattura della Chiesa consiste allora nel fatto che si è prodotto uno strappo proprio nella professione di fede e nell’amministrazione dei sacramenti; tutte le altre distinzioni alla fin fine non contano: contro di esse non c’è nulla da obiettare, esse non separano la Chiesa in ciò che è essenziale. La separazione che arriva a quell’ambito che costituisce il nucleo della Chiesa costituisce, al contrario, una minaccia per l’autentico scopo per cui la Chiesa esiste, per la sua stessa essenza.


 





Da questa idea fondamentale di unità derivarono due compiti per l’ecumenismo. Da una parte esso doveva distinguere gli aspetti semplicemente umani delle separazioni dalle tensioni propriamente teologiche. Difatti è proprio ciò che di umano vi è nelle separazioni che tende a darsi l’importanza che spetta a quanto è essenziale, a nascondersi dietro di esso: ciò che è umano, che si è fatto da sé, viene interpretato come se fosse divino. Si espande così la silenziosa divinizzazione di ciò che è proprio, che è poi la costante tentazione dell’uomo.


In gran parte delle divisioni ecclesiali hanno avuto una parte importante tali divinizzazioni di ciò che è sentito come proprio, le pretese con cui si sono considerate determinate forme umane e culturali. L’ecumenismo richiedeva e richiede il tentativo di liberarsi da tali falsificazioni, spesso sottili. Allora si scopre che non c'è affatto bisogno che scompaia la diversità, dato che essa non compromette l'essenza della Chiesa: tale specificità e ogni altra ha diritto di esistere, ma non può essere imposta a tutti.


Si deve ridestare una tolleranza per l'altro che non si fondi sull'indifferenza rispetto alla verità, ma sulla distinzione di verità e semplice tradizione umana.


Nel primo compito dell'ecumenismo, che ho così cercato di abbozzare, il punto era, dunque, vedere i limiti delle richieste di unità; riconoscere ciò che è variabile in quanto tale e imparare a vivere lo stare insieme nella molteplicità di forme storiche adulte. Si esigeva un processo di unificazione che si trova di fronte a inizi sempre nuovi. È così che l'inattesa restituzione della libertà ai cristiani uniti dell’Oriente ha improvvisamente trasformato un tale processo umano e spirituale di apprendimento in una sfida incandescente.


Tutti i consensi teologici fin qui raggiunti vacillano, se non si regge a questa sfida. Si è nuovamente tornati a vedere in maniera inquietante che la teologia da sola non porta con sé le riconciliazioni umane necessarie. Molto concretamente ne deriva che il primo compito appena descritto è del tutto inseparabile dal secondo, che si riferisce alle fratture nella professione di fede e nei sacramenti.


Ora, quasi tutte le fratture si giustificano dapprima con la fede. Verificare se ciò sia fondato è la prima domanda ecumenica, quella che, come si è visto, indaga i fattori non teologici della divisione. Tuttavia, la supposizione che l’altro attribuisca a Dio ciò che in realtà ha trovato lui stesso, può divenire convinzione comune solo per una parte delle domande a cui si è di fronte. Il caso duro della separazione si ha solo quando una o più delle parti sono certe di non difendere le loro idee particolari, ma di lottare per quanto si è ricevuto dalla Rivelazione e che, di conseguenza, non può essere da loro manipolato. I testi di consenso si sono per lo più riferiti a questo ambito di domande.


Scopo del dialogo è allora trovare e riconoscere qualche cosa che sia capace di realizzare unità più a fondo rispetto a delle posizioni apparentemente contrapposte, lasciando ovviamente da parte tutto ciò che deriva solo da determinati sviluppi culturali. Quello che simili esperienze di dialogo chiedono a chi vi partecipa è straordinariamente elevato. Infatti non si tratta semplicemente di scambiarsi le proprie idee. Ciò che è in gioco è qualcosa di diverso dal consenso all’interno di un gruppo; la scoperta di posizioni di mediazione non è la soluzione. Ciascuno è interpellato nel più profondo della propria coscienza. Ciascuno deve piegarsi dinanzi a ciò che non gradisce: anzitutto davanti a quel che lui stesso riconosce come parola di Dio, ma, poi, deve allo stesso tempo rispettare la coscienza dell’altro che non può dichiararsi d’accordo con la sua fede.


È chiaro, allora, che il dialogo ecumenico si trova davanti a un compito che è del tutto differente, per esempio, dalle dispute filosofiche o, ancora di più, dalle trattative politiche. Infatti il suo scopo ultimo è realizzare la comunione nella fede. Dal momento, però, che la fede non è una semplice posizione di pensiero umano, ma il frutto di un dono, anche la comunione non può ultimamente venire da un’operazione del pensiero, ma, a sua volta, può solo essere donata. Poiché lo scopo è la retta conoscenza della parola di Dio e la sua distinzione dalle semplici parole umane, è chiaro che qui non si può lasciare Dio fuori dal gioco.


Proprio su questo punto si sono finora arenati, e non solo nel nostro secolo, tutti i tentativi di unione fondati sulle trattative e sul dialogo. La verità non è una questione di maggioranza. Essa è o non è.


Per questo i concili non sono vincolanti per il fatto che una maggioranza qualificata dei suoi partecipanti ha deciso qualcosa. Come si potrebbe pretendere di stabilire che qualcosa in futuro debba essere vero? I concili si basano sul principio della unanimità morale e questa, a sua volta, non vuol dire una maggioranza particolarmente elevata. Non è il consenso a fondare la verità, ma la verità a fondare il consenso: l’unanimità di così tante persone è sempre stata considerata come qualcosa di umanamente impossibile.


Quando essa compare, ciò che si mostra è la travolgente vittoria della verità stessa. L'unanimità non è il fondamento dell’obbligatorietà, ma il segno della verità che si sta mostrando, ed è da questa che procede l’obbligatorietà. In questa comprensione che i concili hanno di se stessi e che, allo stesso tempo, definisce i limiti di ogni decisione conciliare, si presuppone Dio come soggetto che realmente agisce. E in questo c’è corrispondenza con la fede nel fatto che la Chiesa non è semplicemente una comunità di consenso, ma vive un’unità che proviene da un’autorità superiore .


 





Che cosa accade, però, quando, malgrado tutti gli sforzi, tale unità ultima non si verifica? Alcuni anni or sono ho cercato di trovare una risposta a questa domanda nell’interpretazione di 1Cor 11,19, rilevando come la divisione non rappresenti solo un male realizzato da noi e che, quindi, da noi deve essere ricomposto, ma che in essa si può vedere una sorta di imperativo divino: la separazione è necessaria per la nostra purificazione. Dobbiamo fare tutto il possibile per divenire di nuovo capaci e degni dell'unità, così da non aver più bisogno dello sprone doloroso della divisione. Ma non possiamo neppure decidere semplicemente da noi stessi che essa è ormai finita. Nel dire questo, ho cercato di abbozzare in profonda vicinanza con Oscar Cullmann, un modello ecumenico, di cui sono parti essenziali la reciproca accettazione della divisione e il tentativo vicendevole di riavvicinamento proprio nella divisione. In questo senso potei allora far mie formule come “unità attraverso la diversità”, “unità nella diversità”, “diversità riconciliata".


Un nuovo “paradigma” ecumenico?


Nel frattempo, però, si sono fatti largo degli sviluppi ecclesiali ed ecumenici che attribuiscono a tali formule un senso completamente nuovo. Il rifiuto di quel modello spregiativamente indicato come "ecumenismo del consenso” (Konsensòkumene) si è intanto così diffuso, in qualche caso, anche troppo in fretta, quasi come con un'vvietà eccessiva. La coscienza ecclesiale è mutata sotto molti aspetti e con essa la coscienza ecumenica. Si parla di cambiamento di paradigma ecumenico . Il nuovo orientamento del pensiero, su cui si poggia tale nuova visione si spinge ben oltre le questioni puramente teologiche. Rispetto al carattere controverso della professione di fede e, quindi, della verità in essa proclamata, molti hanno semplicemente posto in questione il concetto stesso di verità. Deve essere davvero quest’ultima il criterio determinante della nostra ricerca?


«D’ora innanzi verità, giustizia, umanità sono al plurale», afferma uno dei portavoce del cosiddetto postmoderno. Si potrebbe subito obiettare: che cosa succede allora con le diverse umanità? Davvero non c’è alcuna misura comune dell’umano? Ma, allora, che cosa possiamo ancora aspettarci l’uno dall’altro? La stessa cosa vale per le diverse giustizie: Ciò che è considerato ingiustizia per l’uno, può essere giustizia per l’altro? Nel caso della verità, poi, non osiamo più porci tanto facilmente la stessa domanda, ma essa non è meno giustificata e necessaria: può essere non vero per l’uno, ciò che è vero per l’altro? La verità non è forse indivisibile?


In ogni caso: le esperienze del cosiddetto ecumenismo del consenso hanno mostrato quanto difficilmente si possa soddisfare l’esigenza della verità, quanto essa superi in continuazione le nostre possibilità. Così si tende, per molti versi, a invertire la relazione tra consenso e verità: non è la verità a creare il consenso, ma sarebbe il consenso l'unica istanza concreta e realistica per stabilire ciò che vale adesso. Anche la professione di fede, allora, non sarebbe espressione di verità, ma avrebbe il suo significato come consenso trovato.


Con ciò, però, si è rovesciata anche la relazione tra verità e prassi. La prassi diventa il criterio della verità. In questa preminenza della prassi oggi si incontrano sempre più le tendenze più diverse. La prassi diventa vera ermeneutica dell’unità. L’ecumenismo supera allora i confini delle confessioni cristiane e diventa ecumenismo delle religioni. In questa prospettiva, il cristianesimo e tutte le altre religioni devono essere misurati sul contributo che sono capaci di offrire alla liberazione dell’uomo, alla loro “prassi di liberazione". Giustizia, pace e tutela del creato diventano allora il nucleo vero della professione di fede. Il servizio a questi ideali appare allora come la ragion d’essere comune di tutte le religioni.


In termini propriamente teologici ciò significa che al posto della cristologia e dell’ecclesiologia subentra l’idea del regno di Dio, che, ovviamente, muovendo da un simile punto di partenza, viene designato semplicemente come “il Regno”. Si vuole infatti lasciare aperta la questione di una concezione personale o impersonale dell’idea di Dio. In un ecumenismo pensato all’insegna del primato della prassi, anche la differenza tra il Dio unico, che si è rivelato Lui stesso con dei nomi, e l'ignoto privo di nome può non essere necessariamente un criterio ultimo .


Su questo punto risulta chiaro come molti tentativi precedentemente compiuti per raggiungere l'unità siano considerati superflui nel momento in cui ci si pone in una simile prospettiva. Se ai fini dell'unità non è più ultimamente rilevante se Dio sia persona nel senso della fede trinitaria cristiana o se esso possa allo stesso modo essere descritto con la formula del Nirvana, nel senso delle tradizioni buddiste, allora, in fondo, il pluralismo può comprendere tutto sia nella questione delle convinzioni religiose che per quanto riguarda l'atto della celebrazione liturgica.


Indubbiamente non si può certo pensare il nuovo "paradigma" ecumenico come una forma di pensiero unitario e pienamente definita nelle sue parti; in essa possono confluire posizioni molto diverse, moderate e radicali. Ciò che è decisivo é la preminenza della prassi. Ciò che è essenziale si trova espresso con precisione in Konrad Kaiser, che, in proposito, dice: «Un nuovo paradigma ecumenico dovrebbe dare libero spazio a una visione dell’ecumenismo che prenda sul serio le contraddizioni, i conflitti e le minacce di una situazione mondiale di interdipendenza e delle figure sociali che la Chiesa assume nella storia» .


Il lavoro ecumenico, allora, non si riferisce «tanto alle convergenze e ai consensi da raggiungere, ma ha di mira anzitutto la collaborazione reciproca, mondiale e solidale, di tutti i cristiani, anzi di tutti gli uomini» .


Non c’è bisogno di dire espressamente che io non posso accettare questo "paradigma" come tale.


 





È facile formulare i grandi scopi: pace, giustizia, tutela del creato. Ma quando la giustizia si frammenta nelle giustizie e tutto ciò compare solo in un plurale che non può più essere superato, allora questi scopi diventano vuoti. Quasi inevitabilmente essi vengono confiscati dal rispettivo spirito di partito, dalle ideologie dominanti. L'ethos senza logos non regge per nulla, ce lo dovrebbe avere insegnato il tracollo del mondo socialista. Una tale critica non significa, però, in nessun modo che il nuovo modello sia da rifiutare in blocco. Sono al contrario convinto che da esso ci sia molto da imparare che possa esserci di aiuto nel momento presente.


Si deve decisamente rifiutare quel relativismo che incide in gradi più o meno chiari sulla dottrina della fede e sulla professione di fede. Ma in questo ambito dovremmo tuttavia cercare di trovare una nuova pazienza, senza indifferenza, gli uni con gli altri e per gli altri; una nuova capacità di lasciar essere ciò che è altro e l'altra persona; una nuova disponibilità a differenziare i piani dell'unità e, dunque, a realizzare gli elementi di unità che sono possibili ora e a lasciare che ciò che ora è impossibile trovi spazio nell’ambito del pluralismo, che può avere anche significato positivo. Proprio mediante tali separazioni tuttora insuperabili, possiamo continuare a diventare l'uno per l'altro di ammonimento e guidarci reciprocamente all'esame di coscienza; spesso abbiamo bisogno dell’appello di questa diversità, che nel frattempo non è superabile, per venire purificati mediante l'obiezione ed essere richiamati da sviluppi unilaterali.


Sebbene io rifiuti decisamente che il logos sia subordinato alla prassi, ritengo che nella sottolineatura della dimensione etica risieda un altro elemento importante, che deve essere ripreso.


Secondo la parola di Gesù dal duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la legge e i profeti (Mt 22,14). «La pienezza della legge è l’amore», così Paolo esprime il medesimo pensiero (Rm 13,10). Se il cristianesimo può essere pienamente definito a partire dalla fede, è pur sempre vero che, d’altra parte, esso deve essere determinato a partire dall'amore.


Questo centro comune della legge e dei profeti, che è anche il centro del messaggio proprio di Gesù, resta un compito impellente di tutta la cristianità: questo centro dovrebbe in effetti essere quella formula ecumenica che sta al di fuori di ogni conflitto. Così, il tema impellente del dialogo ecumenico dovrebbe essere: trovare che cosa significa concretamente in questo momento il comandamento dell'amore. In questo senso un ecumenismo della prassi è richiesto non solo dal nostro momento, storico, ma dalla stessa parola biblica.Probabilmente la volontà decisa di ubbidire al comandamento dell'amore purificherà considerevolmente anche la nostra fede e ci aiuterà a distinguere ciò che è essenziale e ciò che non lo è.


Il cammino dell'ecumenismo oggi e domani


Che cosa deriva da tutto questo per il cammino dell’ecumenismo? Quale visione può guidarci? Ho già citato i limiti del nuovo "paradigma”. La primissima condizione fondamentale è che resti intatta nel suo valore incondizionato la professione di fede nell’unico Dio vivente.


Dove scompare la differenza tra il Dio personale, rivelabile e invocabile e il mistero impersonale, inafferrabile, scompare anche la differenza tra Dio e gli dei, tra adorazione e idolatria. Su questo punto la rivelazione non ci concede nessuna ambiguità.


Non possiamo mettere la profondità filosofica al posto dell’umiltà della parola tramandataci e della sua propria ragionevolezza.


Dio ha parlato: se riteniamo di saperne di più, ci perdiamo nell'oscurità delle nostre opinioni e perdiamo l'unità, invece di muoverci verso di essa.


Ma ciò significa anche che non si può sviluppare un ethos senza logos. Se ci si prova, non restano più criteri di misura e si finisce in un moralismo ideologico con tendenze visionarie o fanatiche. Inoltre, trovare un consenso nell’ethos è forse ancora più difficile che trovarlo nelle grandi questioni dogmatiche: lo mostrano senza lasciare spazio a dubbi le discussioni nell’ambito della teologia morale all’interno della Chiesa cattolica e i dibattiti su temi di carattere etico a livello internazionale. L’aver trascurato l’elemento distintivo del cristianesimo e l’ulteriore frammentazione interna delle chiese, che secondo il nuovo “paradigma” devono vivere in circoli e forme comunitarie pluralistici, può portare anche a nuove chiusure e a nuovi contrasti che non si collocano affatto con leggerezza e serenità all’interno della grande sinfonia pluralistica. Una tale rinuncia a un’unità definita sul piano del contenuto e dotata anche di una forma giuridica può liberare delle tendenze settarie e sincretistiche, che non possono essere più ricondotte nella comunanza dell’ethos.


 





Fede e sacramento restano costitutivi per la Chiesa. Diversamente essa perde se stessa e non ha neppure più nulla da dare all’umanità. Essa vive del fatto che il Logos si è fatto carne, che la verità è divenuta via. La visione della Chiesa e dell’esistenza cristiana sviluppata dalla Bibbia e dai Padri è più che un "paradigma”, più che un modo di vedere le cose legato a una determinata epoca storica. In essa veniamo condotti fuori dai paradigmi fino a toccare la realtà stessa (cfr. Mc 4,18; Gv 16,25). In questo consiste la "rivelazione”; questo è il nucleo della nostra liberazione: l’essere portati fuori dalla camera degli specchi delle immagini e delle visuali storiche e condotti all’incontro con la realtà che ci viene donato in Cristo.


Per questo l’ecumenismo sarà sempre anche ricerca dell’unità nella fede, non solo uno sforzo per trovare l’unità nell’azione. Tuttavia, come già si è detto, questa nuova concezione dell'ecumenismo può e deve ampliare le nostre concrete immagini di riferimento dell’ecumenismo e, in parte, può anche modificarne la sostanza.


Difatti, ci eravamo illusi troppo, quando credevamo che i colloqui teologici potessero in un tempo più o meno breve restaurare l’unità della fede. Ci eravamo persi per strada, mettendoci in testa che un tale scopo potesse essere raggiungibile una volta per tutte in un tempo prefissato. Per un lungo tratto di cammino avevamo scambiato la teologia con la politica, il dialogo sulla fede con la diplomazia. Volevamo fare noi stessi ciò che solo Dio può fare.


Per questo dobbiamo imparare di nuovo la disponibilità a restare in un atteggiamento di ricerca, consapevoli che lo stesso ricercare è un modo di trovare; che l'essere in cammino e l'andare avanti, senza concedersi requie, costituisce l’unico atteggiamento adeguato per l’uomo in cammino alla ricerca dell’eterno. Agostino ha trovato delle parole meravigliose per commentare il versetto del salmo «cercate sempre il Suo volto»: anche nell’eternità il ricercare non viene meno, poiché l’amore per l’infinito è un eterno cercare e scoprire. È chiaro che questa eterna ricerca, che significa al medesimo tempo un “eterno essere già trovati”, è qualcosa d’altro dalla nostra povera e approssimativa ricerca, che così spesso brancola nel buio e così spesso non è la via che non avrà mai fine dell’amore, ma la troppo finita via della nostra ostinazione.


Tuttavia anche in questa disponibilità a rimanere l’uno con l’altro nella ricerca e ad accoglierci nella nostra provvisorietà si trova un sì all’inesauribilità del mistero di Dio; essa può essere un atto di umiltà, in cui accogliamo i nostri limiti e ci consegniamo così alla verità più grande, siila verità di Dio.


In questo senso direi anche che il dialogo teologico come ricerca dell’unità nella fede deve certamente andare avanti. Ma i relativi colloqui dovrebbero essere portati avanti in una maniera più aperta e flessibile, meno indirizzata al successo e più umile, con grande serenità e pazienza. Non ne devono necessariamente sortire dei documenti di consenso. È sufficiente se ne derivano diverse testimonianze di fede, in cui tutti imparano qualche cosa di più della ricchezza del mistero che ci lega. Dal modello prasseologico - come potrei ora definirlo - dovremmo imparare la pazienza dogmatica, senza affondare nell’indifferenza di fronte alla verità e alle sue espressioni linguistiche. Di questo modello dovremmo far nostra la disponibilità nei confronti di ampie forme di pluralità, senza per questo promuovere forme di autosufficienza o di autosoddisfacimento.


Nel fare ciò dovremmo essere preoccupati che l'unità così guadagnata non vada persa, che la comunione ecclesiale non deragli nell’arbitrio. Deve restare chiaro che essa avanza una pretesa che investe tempi e luoghi; deve restare chiaro che non siamo noi a fare la Chiesa, ma che essa è plasmata da Lui,, nella Parola e nel Sacramento, e che solo ciò che è Suo è permanente.


Proprio per questo dovremmo anche continuamente liberarci di quelle istituzioni che ci siamo fatti da soli, così che l’essenziale appaia nella sua ampiezza e grandezza. Allora può esserci libertà per forme differenti e varie, che dovremmo accogliere a cuore aperto, senza progetti pastorali uniformanti.


La condizione per far ciò è sempre che queste forme pensate da uomini non sono poste in termini assoluti, ma devono tendere ad aprirsi a ciò che è comune ed essenziale. Ci saranno allora anche dei punti di incontro e di cammino comune tra forme tra loro simili nelle singole chiese e comunità.


Dovremmo finalmente sottometterci sempre al criterio dell’amore di Dio e del prossimo e cercare di venire incontro, a partire da esso, alle grandi sfide del nostro tempo. 


 





Considerazione finale:


la visione dell'unità escatologica in Solov’èv


Nel riflettere sulla situazione dell'ecumenismo e, più in generale, sulla situazione della cristianità negli ultimi tempi mi torma sempre più spesso alla mente il racconto dell’Anticristo di Solov’èv. Nell’istante dell’ultima decisione si vede che in tutte e tre le comunità - quella di Pietro, di Paolo e di Giovanni - vivono dei sostenitori dell’Anticristo, che fanno sottilmente il suo gioco e sono a lui sottomessi; allo stesso modo, però, si vede come in tutte e tre le comunità siano presenti dei veri cristiani, che mantengono la fedeltà al Signore fino all’ora del Suo ritorno. Dinanzi a Cristo i separati si riconoscono intorno a Pietro, Paolo e Giovanni; i veri cristiani, che erano divisi, si riconoscono ora come da sempre uniti, mentre, al contrario, la schiera dell’Anticristo, viene convinta e travolta dalla sua menzogna. Alla luce del Redentore si rivela chi erano e sono gli uni come gli altri .


Sarebbe pienamente erroneo pensare che questa visione di Solov’èv, appassionato sostenitore dell'ecumenismo, sposti la questione dell’unità cristiana alla fine dei tempi o addirittura in una dimensione post-temporale.


Nella visione di Solovev l’escatologia è rettamente interpretata secondo la Bibbia: essa non è un dopo cronologicamente ordinato come una data che arriverà un giorno nella sequenza dei giorni, in un lontano e indeterminato futuro e che oggi, appunto, non è qui. No, l’escatologico è ciò che è davvero reale, che come tale viene rivelato una volta, ma che impregna di sé tutti i nostri giorni. Non si sarebbe capito nulla del racconto di Solov'èv, se si dicesse che esso sposta l’unità cristiana alla fine dei giorni. Esso mostra piuttosto che questa unità è “escatologica” nel vero senso della parola: sempre già presente eppure mai compiuta all’interno del tempo, mai cristallizzata in un fatto empirico ormai definito come passato.


Quel che diventa visibile nella luce del Cristo che ritorna, svela la verità del nostro tempo, anzi, di ogni tempo. In tutte e tre le grandi comunità ci sono dei veri cristiani, ma in tutte l’Anticristo ha anche trovato dei sostenitori, persino fino ai livelli delle cariche spirituali più alte. La cernita definitiva avverrà solo nel giorno del raccolto. Ma già ora, a nostra consolazione e per quel timore che ci porta salvezza, possiamo avere esperienza di questa realtà nascosta. Già ora dovremmo incontrarci con lo sguardo escatologico; già ora dovremmo portare in noi la gioia di questo riconoscimento futuro.


Allo stesso modo già ora e per sempre deve agitarci l'ansia di non divenire, con grandi parole e drappeggi cristiani, servitori dell'Anticristo, che vuole instaurare il    suo regno in questo mondo e rendere superfluo il regno di Cristo. Pietro, Paolo e Giovanni sono inseparabili. Insieme con loro, guidati da loro, dobbiamo cercare sempre e sempre di nuovo il volto del Signore. Solo a partire da lui noi riconosciamo noi stessi e ci riconosciamo a vicenda.


L’ecumenismo non è altro che vivere già ora nella luce escatologica, nella luce del Cristo che torna. Per questo esso significa anche che noi riconosciamo la provvisorietà del nostro agire, che noi non possiamo portare da noi stessi a conclusione; riconosciamo che noi stessi non vogliamo fare ciò che solo il Signore che torna può operare. In cammino verso di Lui, noi siamo in cammino verso l'unità.


 


(*) card. Joseph Ratzinger (Benedetto XVI) "Vi ho chiamato amici" La compagnia nel cammino della fede pagg. 61-79



 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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